Diario del sonno

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Paola è una ragazza dominante, spregiudicata, dai sentimenti complessi. Dopo la laurea in ingegneria sente progressivamente emergere i fantasmi della propria adolescenza: le molestie, le violenze, gli abbandoni. Da quel momento la mente deraglia e i suoi pensieri si schiantano contro il mondo esterno. La diagnosi clinica è precisa: «assenza di controllo degli impulsi e depressione maggiore». Questo libro è la cronaca di un salto nel vuoto, dove si alternano esperienza e rielaborazione inconscia di quella esperienza, e la realtà dei fatti è sempre in bilico fra verità e menzogna. In preda a un dolore che erode i nervi, Paola percorre il labirinto della psicanalisi affidandosi alla guida di un terapeuta paziente e fedele, che la salva dai tentativi di suicidio. Da lì si snoda un percorso tortuoso verso la guarigione, raccontato con uno stile ipnotico e potente, sospeso tra prosa e poesia.

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Dalla postfazione di Marco Giovenale

Se un’autrice o autore può e deve far esplodere la forma romanzo o più in generale la narrazione, questo è il caso, forse. Così non si trova qui un racconto ma più corone di schegge, che fissano o spillano (nella doppia accezione) segmenti di dolore o piacere-dolore in aspetto di diario. Tenuto dal sonno stesso, o relativo a una fase rem che non è solo “Rapid Eyes Movements” ma – si direbbe – anche l’accusativo latino di “cosa”. Se la materia sofferente-sofferta non toccasse il fondo di identità con la pietra, se non si oggettivizzasse, magari in un qualche silenzio estremo, un bianco, il foglio, difficilmente i cristalli che la abitano farebbero parola.

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Dalla presentazione dell’autrice

Quindici anni fa persi il controllo degli impulsi, attacchi di panico e depressione si aggravarono ed ebbi bisogno di cure psichiatriche e psicoanalitiche. Questo documento è la mia analisi, la risposta alle
domande del dottore. In seduta non riuscivo a parlare: tacevo, piangevo, mentivo, ricattavo, recriminavo, spaccavo tutto. Continuai solo a scrivere per un paio di anni, quando iniziai a parlare. Ancora non riesco a leggere alcuni brani, questa è una piccola selezione di quattro milioni di battute suddivisi in sessanta cartelle. La struttura del lavoro è quella in cui sono affiorati i ricordi e include diverse lettere.

Da Diario del sonno (Le Lettere 2021)

Ho sette anni.

Siamo nello studio. Luci puntate e buio. Con forza e fermezza il dottore mi strappa entrambi i lobi nei quali ho due grandi orecchini a cerchio. Mi scuoto, me ne andrei. Il dottore mi afferra gli avambracci e me li blocca sulla scrivania. Non posso muovermi. Senza fiato, ho paura.

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Ho ventisette anni.

La solita folla, ci immergiamo in un liquido vischioso verde, una poltiglia velenosa. Il luogo è un campo di notte. Ci immergiamo e moriamo. È bellissimo. Una volta sono svenuta, quattro anni fa, mi ero tagliata il palmo della mano sinistra con un piatto, avevo visto il sangue ed ero svenuta e mi ero svegliata mentre mamma e papà mi prendevano a schiaffi. È stato liberatorio collassare, e la sensazione del sogno era affine. Tutto il dolore, il calore e la vertigine svanivano con una sensazione di piacere in tutto il corpo. Un piacere simile a uno scioglimento luminoso.

Non sono gli altri che ti mangiano viva. Non sono gli altri che devi uccidere per sopravvivere. Respiri. Esisti.

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Ho mille anni.

Un futuro possibile. In cui io il bambino e il suo papà facciamo il bagno in mare. La merenda con pane burro e marmellata. In cui ci si addormenta in un lettone tutti e tre abbracciati. Qualcosa di nuovo in cui cambia il mio ruolo. In cui non sono più un peso doloroso che deve affannarsi per non trovare amore.

Non sei figlia. Non sarai mai più figlia. Non sarai mai stata figlia.

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7 ottobre, oggi ho diciassette anni.

Sono arrabbiata con mia madre perché in ogni situazione le mie parole sono quelle sbagliate, per esempio se dico che devo ramazzare mi aggredisce urlando di non usare certi termini. È una profonda offesa nei suoi riguardi e io non ho scampo.

Lei può parlare.
Ha il suo vocabolario.
Inappellabile.
E se attribuisce a una parola una particolare sfumatura si presume che io la conosca, la accetti e la veneri.

Mi sento imbavagliata.

Se morisse soffrirei molto.

Il dramma è incaponirsi nel cercare una regola, mia madre vorrebbe farmi credere che esista, ma è solo illogico.

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11 gennaio, ho ventiquattro anni

Ci siamo dipinti la faccia con ombretti celesti e bianchi. È per una malattia che abbiamo la faccia ridotta così. All’ospedale chiedo che ci visitino. L’infermiera anziana a cui chiedo aiuto non mi considera, non hanno tempo. Moriremo.

Era primavera, da sera fino a notte mangiavo fragole, bevevo vino rosso, fumavo e scrivevo. Ascoltavo jazz e le finestre erano aperte, il rumore della fontana tra i gelsi. Un piacere che non ho più provato, mi sentivo ardere.

Paola Silvia Dolci è nata a Cremona, dove lavora come ingegnere civile.  È traduttrice e direttrice responsabile della rivista indipendente di poesia e cultura «Niederngasse». Ha pubblicato i volumi Bagarre (Lietocolle 2007); NuàdeCocò (Manni 2011); Amiral Bragueton (Italic Pequod 2013); I processi di ingrandimento delle immagini (Oèdipus 2017); Bestiario metamorfosi (Gattomerlino Superstripes 2019) e Portolano (Mattioli1885 2019).

(A cura di Silvia Rosa)