GABRIELLA MONGARDI
Dicono che l’anima pesi 21 grammi, perché di tanto diminuisce il corpo subito dopo la morte: vengono da qui i “21 grammi di solitudine” che danno il titolo a quest’ultima, originalissima silloge di Gianni Venturi, appena uscita presso l’editore Ladolfi di Borgomanero?
E se il peso della solitudine è uguale a quello dell’anima, allora l’anima non è altro che la solitudine che abita tutti, e in particolare i poeti.
Vale per Venturi, a mio avviso, quello che Saba scriveva per se stesso (ad esempio nelle liriche Città vecchia o Trieste o Il borgo), presentandosi come un solitario dalla vita “pensosa e schiva”, eppure attratto dalla “calda / vita di tutti”, desideroso di immergersi, di viverla, di “dire parole” in cui tutti possano riconoscersi – come appunto fa Venturi.
Nella prima sezione, La memoria delle valli, affiorano i ricordi d’infanzia e con quelli la realtà di una vita contadina fatta di “sudore”, “sapore di fatica”, “zolle indurite dal sole” 24, che però il ricordo ingentilisce contrapponendola all’ “abbondanza infelice” del presente (“abitavo un paese gentile dall’aia fiorita / e danze di fisarmoniche sussurranti”; “io sono quel bimbo che gioca con la fionda / la cui memoria è dispersa dalle cupe notti di città / ci si cullava la sera nell’aia profumata di lavanda / ora uno schermo di silicio racchiude ricordi e speranze”)
Nella seconda sezione, che dà il titolo all’intero volume, è il presente a dominare, la città “che non è il luogo”, con “macchine acciaio ossa”, “bar fumo rumore”, “palazzi fatiscenti dalle finestre sbarrate”, “uomini formiche che arrancano”… In questo mondo negativo, dove “tutto il vissuto stagna”, al poeta “basterebbe un filo di vento” per sciogliere il silenzio e lasciar cadere le sue parole come foglie “sospese a tratti nel vuoto”.
Parole piane, quotidiane, “impoetiche”, tratte da tutte le varietà dell’italiano: la poesia di Venturi accoglie neologismi, termini tecnico-scientifici, regionali, colloquiali, e li impasta in un amalgama denso e corposo eppure leggero e translucido, lievitato dal ritmo di una musica segreta. Un ritmo che nasce quasi sempre dalla figura retorica dell’enumerazione ed è semplicemente basato sulla sintassi, sulle pause tra i sintagmi che nessun segno di punteggiatura marca: un ritmo che sgorga dalla lingua stessa e dalle sue frasi ed è scandito dagli “a capo” dei versi, che sempre rispettano le naturali “cesure” create nelle frasi dall’attrazione-repulsione fra le parole, grazie a cui si costruisce il senso del discorso.
Se infatti nella lingua il senso di un testo non si costruisce soltanto con una successione lineare di parole, ma attraverso le correlazioni e le distanze che s’instaurano fra di esse; se in musica il “senso” di una melodia non dipende soltanto dalla successione delle note, ma dalla loro durata e dall’alternarsi di suoni e pause con durate diverse, cioè dal ritmo; a maggior ragione nella poesia, musica di parole (e in questa poesia in particolare) il ritmo ha un ruolo preponderante – e non poteva essere diversamente, stante le radici “musicali” del poeta cresciuto tra la fisarmonica del padre e il tango della madre: poeta che è lui stesso musicista…
Il punto di partenza della sua scrittura è un lucidissimo senso dell’incommensurabilità tra le parole e le cose, dell’inadeguatezza della parola rispetto alla realtà («Mi perdo tra parole / che mai diventano verso / quel verso colorato delle cose che danzano / muta la poesia arranca nella melma / a volte è il sorriso di un bimbo / altre la quercia senza foglie a primavera»), ma le sue parole “danzano” come le cose, e se raramente rispettano la misura dei versi canonici è perché cercano di imitare la danza delle cose, il “tango delle dita musicali di mio padre”, la “melodia di stelle”, “le lucciole che danzano”: questo è “l’immenso” da cui provengono i “versi avvinghiati al quotidiano” di Gianni Venturi.