Ilaria Seclì e la poesia.
Disabitata
Venite a visitare la casa disabitata
i vestiti esiliati dai corpi e quelli
dati al corpo che li indossa a forza,
c’è un pensiero per venti di nessuna
rosa e una rosa che odora l’odore
senza provenienza. Venite all’amore
bianchissimo senza nome né gesto
amore sui fili di terrazzi o di rapaci
antenne che lo vogliono a brandelli,
onnipotente amore che azzurrissimi
cieli curano dai passi senza anagrafe
né patria, stare a terra è un impegno
cui forse ci si abitua
***
tutto questo amore male amato
lunga bava di lumaca senza casa
dopo la pioggia. tutta questa inutile
richiesta al mondo vuoto mondo
urna scoperchiata. solo tu
non addizioni niente al niente
ma lo infrangi, quando assorto
in poco fiato dici: mi sembri un’ombra
***
Padre che vegli questo corpo
in cristalli di viete vicinanze
e con me avanzi a farne canto
e preghiera se quieto è il tempo
quando diciamo ricco il niente
e lo spazio vuoto tra pelle e pelle
lo chiamiamo aria e vento
e non feriscono i barbari
sapendo che li muove la voglia
della patria che non hanno.
Padre che vegli questo corpo
sapermi orfana non ti dà pace
ma ti prego di curarla, vederla
questa cosa inconsolabile
mostrami cosa diventa lo spazio
di tanta lontananza.
***
magari consumata a fiori
petrolio offerto sui polpastrelli
di passaggio nei quotidiani dei bar
nelle mute vicinanze tra chi pulisce
e chi dorme nelle camere d’albergo
segreti colati come fatti di stagione
sempre nuovi, voci ostinate di treno
oltre il vuoto del deposito, e tu stai lì
guardi sorridi aspetti, ripeti che è
niente l’eternità che ci separa
***
per esempio se ti dico che ritorna il nono mese
da Monte Nero a Settembrini le animate solitudini
e sfocato torna a testa bassa un comizio di paese
un lenzuolo sbandierato sono, un popolato nulla, e un po’ ci credo
l’acqua è vecchia e il box nuovo, il viale l’ha ingoiato un rubinetto,
strade nuove sotto i passi, l’abat-jour sul lato inverso
meridiani e paralleli coi respiri che rinascono da scatole
scocciate e poi riaperte -a che vale- chi teneva il numero dei pacchi
stava inerme e niente è nuovo, ma quel rumore morso
lo schianto lento appena sopra l’ombelico
cosa dice cosa dice cosa dice
***
Ferocia
La ferocia che prego è straniera, lingua morta
Barbaro fedele a una sola cosa, nome, sposa
Non schiavi liberali appesi alle gonnelle
Molluschi in piazze scoperchiate, sole e luce
Assenza di volere ingordo solo di capricci
Così passiamo, titoli di coda velocissimi
Distratti fino al prossimo motivo di una gita
Osso trofeo figurina in sella o in osteria
In luogo di quel porto sfitto vuoto abbandonato
Che fu nostro per un po’. Per sempre mio, soltanto
***
Bilancia d’acqua
passarsi la spugna lenta tra il collo e il braccio,
magari con la sottana trattenuta ai fianchi
chiudere gli occhi e appendere il profumo al cervello,
farne un fatto d’atmosfera, un’altalena sospesa
a fil di cielo. la solitudine versata nella durata lunga
del mare, nell’acqua che sciaborda. già mia madre
mi teneva così, raccolta e appesa
nella bacinella trattenuta da due sedie
con le labbra che soffiavano le sue mani insaponate
già mia madre mi teneva così, già sapevo la bilancia
d’acqua, la distanza eterna e rarefatta di esserci,
creatura di grazia, senza stare
Lamento per la morte di un elfo
nulla muove la pozzanghera
eppure è acqua l’acqua che la colma
e dipana sì, saltellando come può
il mistero del sole e della pioggia
basterà a farlo sbranare l’ipotesi alchemica
che tenga interi i tondi e gli spigoli cattivi
i bordi no, non sa che farsene
ma la sua bocca
magari vicino alla lampada blu e la stufa lì
una sorveglianza impacciata che richieda zelo
e la vergogna di non immaginare il senso
di tutti quei mondi stropicciati
stropicciato all’avvenire coi pantaloni senza appiglio
scala piramidi e alghe profumate
come sa come vuole come gli consiglia
il vento
di che si nutrono questi animali. di che gli elfi
squarteranno una donna di denari e l’appenderanno poi
all’albero della cuccagna fino a piangerla in coro
per amore
se lo guardi e sai, scivolerai lenta al fiume
come una barchetta a largo del sonno
basta leggergli le mani e le gambe sottili
al pianoforte muto
l’olio all’acqua per la luce eterna
l’olio che galleggia e porge la palla al bambino
tutti quei bimbi spaventati e i matti e i giocolieri
e tutte le eredità dell’abbecedario
nei suoi occhi. e una verità che canta al dondolo
di una mistica implorante
in un giardino d’acqua profumata e insalata
un giardino caldo. di primizie mortali
provaci poi a restare quando stapperà tutte insieme
dalla nave stellare le armi, le mille acrobazie del fuoco
e dell’acquario. o una pira di fieno incendierà
al nuovo giullare dei turchi. senza nome
***
Fine vita mai
Accadde e fece vero, da quel minuto in poi, il disegno sulla carta, le linee e le parole, casette e fiumi dell’asilo, il sole dietro la montagna, edicola votiva di segreti nel vapore delle cose inanimate, fuor di carne fino allora, mese di Michele, frana di realtà gonfiava il filo del sogno ammutolito muovendo fibre del creato fino a farne cosa viva. E per intero quelle che odoravano di carta e colori nel cassetto accesero nuovo un mondo, le parole, prima neve e boschi, e un sentiero segnava nuove linee dopo l’orizzonte.
***
Profezia
Finiremo giocandoci a palla il mondo
e quel resto che fu d’inciampo
Rideremo di nomi e venti
mari e boschi di cui fummo prigionieri
quando avremo l’universo nel palmo
le distanze e i continenti su cinque punte di mano,
ogni bimbo canterà libero la verità sul mondo
e sarà creduta la sua versione delle cose
Biografia poetica.
Nata di sabato, all’alba. Il 22 del matto, lungo un fiume di Ginevra. Per nove mesi, da maggio a febbraio, la pace del grembo di mia madre giovane e bellissima era accompagnata dal suono perfetto di acqua alpina. Quai du Cheval Blanc. Tracce di destino. Bianco, fiume, Nord.
Alta qualità della vita.
Ma papà voleva tornare a Sud mentre registravo suoni, luci, nomi, barbe, occhi e pelle chiari. Da quell’indifferenziato stato onirico prodigioso e di veglia mai più proponibile che sono i primi mesi e anni di vita. Quai du cheval blanc. Ginevra. Bosco. Nord. Le ragioni dell’acqua.
Primo passaggio antipodico. Prima confidenza di estremi.
Tornammo a sud del sud dei santi. Richiamo, giardino delle delizie, agisce inesorabile e afferra quanti ne sono lontani. Esistono ancora umani legati alla terra da odori, suoni, tracce, ricordi ancestrali, vivide simbiosi, nomi e storie, sapori.
Sono come piogge e detriti stratificatisi in una strada, un vicolo. Umani diventati fossili. Vivono e parlano ma sono già elemento millenario, macinato da umidità, pietra, vento, storia. Ancora finiti ma già nell’eterno stato delle Cose. Intemporale memoria. Mare scirocco rosmarino cicale grilli ulivi. Luce. Luce. Grazia.
Il resto lo fa un incantesimo, una formula magica sconosciuta. Malia.
Un rapimento, un’estasi.
Da sola al tavolo della cucina del paese, 8 o 9 anni, mi scuoteva dolce e terribile il pensiero di un giocattolo abbandonato. Presi una matita e un’agenda di qualche anno passato e scrissi.
Prima visita. Cominciava a darsi al mondo in modo definito, lo stato sublime e spaventoso, dolcissimo e feroce che mi connetteva a qualcosa di enorme, immenso. Debordante. Prima oscuro poi chiaro. La fortuna di decifrarlo, incontrare questa “entità” in una modalità di relazione, la scrittura.
Tutto l’Incanto che magnifica il mondo. Aura sacra. Compassione, creaturalità.
Poesia. Diventare e essere filo d’erba, formica, lumaca, corteccia, muschio, nuvola, gatto, petalo, uccellino, vecchio, neonato, elemento. Essere nel cuore di tutti e tutto, nella beatitudine delle cose, loro innocenza e abbandono. Innato tragico.
Forse dall’incontro lacerante di bellezza e dolore, di morente e infinito nasce la poesia.
Un senso aggiunto. Ciò che è morto per i vivi ma vive ed è vivo più dei vivi.
Ho posto la mia fiducia nel vivo che non muore.
Boule de neige che tiene in un pugno i punti cardinali e i venti, infanzia e maturità. Regno del possibile. E, sempre, compassione. Scrigno dell’Inizio.
Muove le cose del mondo pur essendo inutile, direbbe questo tempo.
Ecco. Seconda dualità. Seconda confidenza di estremi. Mondo/Poesia. Come mondo/Vita. Il mondo ha leggi ferrose rigide grigie asfissianti anemiche. Meccanismi agghiaccianti e disumani, Metropolis o Tempi Moderni. Niente che non sia accaduto. Niente che non stia accadendo.
Poesia è testimonianza perenne resistente immortale di ciò che poteva essere, di ciò cui eravamo destinati. Testimonianza viva, vive nei giorni. Sempre. Ricorda e si alimenta di quell’inaccaduto. Assenza vuoto orfanità lontananza. E lo restituisce, sia pure in bagliori, visioni.
È la possibilità dell’uomo di guardare per un istante nella serratura dell’assoluto. Conciliazione di opposti. Libertà dal giogo tirannico della storia. Assoluta Grazia.