GABRIELLA MONGARDI.
Sul palco di “Mondovisioni” Mauro Corona, fisico asciutto e scolpito, un calice di vino rosso tra le mani e un toscano (spento) tra le labbra, attende sornione il suo turno, nell’intervista a due voci con Davide Van De Sfroos. Ma le domande gli stanno strette e spesso va fuori tema, racconta altre storie, sguscia via come un folletto inafferrabile.
Impossibile riferire le sue parole, perché sono lampi di arguzia, considerazioni lapidarie sulla vita e sul mondo, una saggezza scarna e essenziale, in ‘levare’ e non in ‘battere’.
‘Levare’ è il gesto fondamentale per Corona: togliere, sottrarre, ridurre per cogliere il vero valore delle cose, e insieme, in senso musicale, sollevare, alzare, vivere con leggerezza, non dare fastidio agli altri esseri viventi – umani, animali o alberi che siano.
«Ho sempre vissuto dë sfros, in fuga da tutto, anche da me stesso. Giocando a cowboy e indiani ero l’indiano che veniva ammazzato, ero il bracconiere e non la guardia forestale, il bevitore e non l’oste: quello che perde, insomma». E commenta ironicamente, con Brodskij: «È difficile che la sconfitta allarghi le prospettive».
Oltre a Brodskij, cita altri scrittori: Saul Bellow, Philip Roth, Joseph Roth, José Hernandez, Jorge Louis Borges, Zvi Kolitz, ma di sé scrittore non parla. Solo alla fine riesco a sapere che – come Kafka – scrive di notte, a casa o nel suo laboratorio, perché dorme molto poco, e che non scrive per nostalgia («La nostalgia non ha nessun senso»), ma per conservare per i posteri il ricordo di una vita immersa nella natura, non ‘artificiale’ come quella di oggi. Tra i suoi libri quello che gli è più caro è Storia di Neve, che secondo lui non è stato adeguatamente sostenuto dall’editore.
Margutte nel suo piccolo ha cercato di rimediare, e ne propone una recensione.
Non avendo mai letto niente di Corona, avrei voluto cominciare dal suo primo libro, Il volo della martora, ma in biblioteca era in prestito, e così me ne sono uscita con l’enorme Storia di Neve, 817 pagine, e qualche perplessità. Ma la mia perplessità si è dileguata come neve al sole già dalle prime pagine, davanti al “gelo da castigo”, alle cascate che parevano “colonne di marmo azzurro” o “balene imbalsamate”, alle “montagne di ghiaccio”, al “pugno dell’inverno”, alle acque che dentro i blocchi di ghiaccio gorgogliano “come se si chiamassero una con l’altra, come se volessero parlottare per ingannare il tempo e far passare in fretta quelle lunghe, gelide, interminabili notti invernali”: davanti cioè a una scrittura profondamente originale, che attraverso il ricorso costante a metafore, similitudini, personificazioni, sinestesie dà anima alle cose e si crea una lingua potente, che affascina e attanaglia, ma con discrezione. Nel senso che il fascino dello stile – e per me la seduzione della montagna – sono controbilanciati da una trama a maglie larghe, che non ti inocula l’ossessione di sapere come finirà la vicenda: è un libro da cui si può entrare e uscire quando si vuole, sicuri che si ritroverà sempre l’orientamento grazie alla presenza massiccia di leit-motiv, o di vere e proprie dizioni formulari che ricordano la narrazione orale, le vijà nelle nostre stalle (Corona direbbe i filò) o i cantari recitati nelle piazze medievali.
Il primo leit-motiv è ovviamente quello che dà il titolo al romanzo, ossia la storia di Neve, la bambina che non patisce il freddo e spegne il fuoco con la sua vicinanza, la creatura misteriosa “venuta a portare un po’ di caldo nei cuori congelati della gente, in quel paese maledetto, ghiacciato dall’inverno e sepolto dalla neve”: attorno a lei si coagulano i temi più delicati e struggenti – l’amore impossibile, la lettura, la pietas…
Il “paese maledetto” è il secondo leit-motiv, che a volte prende decisamente il sopravvento sull’altro: perché paese vuol dire coralità, pluralità di storie, e uno alla volta il narratore ci fa conoscere tutti i suoi abitanti, che vivono obbedendo a due sole leggi, Eros e Thanatos. L’amore è, per uomini e donne, una pulsione primordiale, animalesca, meramente fisica; la morte è il modo migliore per liberarsi di chi ostacola il soddisfacimento dei propri istinti, delle proprie brame: il paese non conosce legge né autorità al di fuori di sé. Nel suo crudo realismo il romanzo, che l’avvertenza iniziale assicura essere esclusivo “frutto della fantasia dell’autore”, richiama I Malavoglia di Verga o La malora di Fenoglio, anche per la patina dialettale: se non fosse per l’irruzione costante del magico, del fantastico, nel quotidiano, il romanzo sembrerebbe scritto per testimoniare come viveva, nel secolo scorso, una comunità di montagna, a contatto con una natura severa, spietata. E se a tratti affiora la tentazione di idealizzare il rapporto tra esseri umani e natura nell’equilibrio perfetto di una mitica età dell’oro, viene subito respinta dalla durezza con cui sono dipinti sia gli uomini – quasi tutti gretti, egoisti, malvagi – che la natura, violenta e distruttiva.
La natura è il terzo leit-motiv, la montagna considerata sia in rapporto agli uomini che la abitano, alle attività da cui ricavano il loro povero sostentamento – il taglio del legname, l’allevamento delle pecore, la fienagione, sia nella sua Bellezza, che stordisce e soggioga anche quando è più aspra. Le pagine che descrivono, ripetutamente, il paesaggio montano nel mutare delle stagioni, la musica del bosco, del vento, dell’acqua sono tra le più belle e toccanti del libro, e la ripetizione le fa amare ancora di più, sottolineando la loro funzione di tessuto connettivo.
Un altro originalissimo connettivo sono le ‘cerniere’ tra i tredici quaderni, ossia il racconto di come è nato e progredito, nel corso di un anno, il romanzo. All’inizio lo scrittore confessa di avere solo una vaga traccia, ma dopo il secondo quaderno “la storia sta prendendo forma”: sarà una storia lunga e bisognerà fare molta attenzione a non perderne pezzi per strada… Nell’insieme, sono considerazioni molto interessanti sulla fatica e le ragioni dello scrivere. Scrivere aiuta a uscire dall’inferno, a lottare contro i propri fantasmi; ma non è facile trasporre sulla pagina la storia, anche quando è già tutta in testa: fatti, intreccio, colpi di scena e quanto serve per fare un buon libro, come questo…
Dalla mescolanza inestricabile di realistico e onirico, di lirico e di brutale, di horror e di fantastico nasce la forza di questo libro visionario e catartico, che fa compagnia: e se proprio lo si vuole considerare semplicemente letteratura di intrattenimento, si deve riconoscere che è di alta, altissima qualità. Ma è più giusto considerarlo Letteratura e basta, quella Letteratura che, come vuole Borges, è fatta non di parole, ma di immagini e di sogni…
MAURO CORONA, Storia di Neve, Mondadori, Milano 2008