GABRIELLA VERGARI.
Se, parafrasando Calvino, un giorno d’estate un lettore si imbattesse ne La Montagna dell’anima di Gao Xingjian, premio Nobel per la letteratura 2000, dovrebbe prepararsi all’impatto: da un lato l’insostenibile leggerezza di un’ostinata, micidiale canicola, dall’altra la rarefazione – già del resto preannunciata fin dal titolo (che però nell’originale suona semplicemente Lingshan) – di un testo costantemente sospeso tra sogno, realtà e fantasia.
Ed è subito altrove, sorprendente, non di rado frastornante ma insieme concretissimo, fatto di storie e colori, luoghi ed odori di una terra sempre ad un passo dallo svanire, fagocitata dalla miopia delle propagande politiche, e tuttavia ogni volta capace di riprendere vita, come una sorta di Araba Fenice, dalle stesse ceneri del suo passato e dei suoi usi millenari. Così: in un vicolo dimenticato dalla pianificazione urbana ti è capitato di scoprire d’improvviso una vecchia casa con la porta aperta; oppure distici augurali occhieggiano tra le rovine di un tempio o pendono dal baracchino di un anziano che vende calligrafie tradizionali, rimpiazzate per decenni da citazioni e slogan rivoluzionari.
Attraverso l’ebbrezza della lingua si snoda allora il lungo viaggio che porta il protagonista, Io, alle sorgenti del fiumeYou, alla ricerca di Lingsham, la montagna dell’Anima appunto, di cui sente per caso parlare dall’uomo che gli siede di fronte in treno. Fino alla fine gli resterà però il dubbio che a forza di camminare se ne sia allontanato, come afferma il vecchio a cui ad un certo punto il personaggio chiede informazioni. “È sull’altra riva” precisa quello infatti, ma Io non ci capisce niente e solo gli torna in mente un proverbio antichissimo: “L’essere, come il non essere, va e viene all’infinito, non rimanere in riva al fiume al soffio del gelido vento.”
Ḕ l’essenza della vita che, pur non avendo né un senso ben definito né un obiettivo sicuramente rintracciabile, fluisce indomita e si manifesta nella consapevolezza del suo scorrere silenzioso come la neve. Per questo l’incisione sulla stele del mausoleo di Yu – l’unico reperto dell’edificio che vada considerato autentico — può essere letta in mille modi diversi da: la storia è un enigma a la storia è una polpetta di farina o, proseguendo, la storia è un lenzuolo intorno ai cadaveri e persino la storia non è niente. L’unico possibile approccio alla realtà, da parte dell’uomo, consiste dunque nel suo oggettivarsi in un Tu che ne diventi il riflesso. Ed ecco – ben lo si legge, a firma di A. C. Lavagnino, nell’intensa introduzione all’edizione italiana del romanzo, pp. XI-XII –, come l’autore stesso descrive la particolarissima strategia narrativa adottata per la prima volta proprio in questo suo testo: “Il primo livello di struttura del libro è la prima persona, «io», e la seconda persona, «tu». Il primo, «io», viaggia nel mondo reale, mentre il secondo, «tu», derivato dal primo, si aggira nell’immaginario. Successivamente dal «tu» deriva una «lei», e poi ancora la trasformazione della «lei» conduce all’alienazione dell’«io» che porta alla comparsa del «lui» […] La Montagna dell’Anima è un romanzo i cui personaggi sono sostituiti da pronomi personali, e dove un percorso interiore prende il posto della trama, dove lo stile è regolato dai sentimenti, un romanzo che non ha alcuna intenzione di raccontare una storia, ma crea storie a proprio piacere, che sembra un diario di viaggio ma è anche vicino ad un monologo. Se i teorici non lo considerano un romanzo, va bene, è così.” Il suo è del resto – Xingjian lo afferma senza remore nel settantaduesimo capitolo, non il solo ad essere meta-letterario in quest’ opera – un romanzo orientale, che mira a sottrarsi ad etichette predefinite e preconcette e va inquadrato non tanto nel raccontare una vicenda quanto nel modo di raccontarla e nel comportamento dello scrittore mentre la racconta, o forse nel punto di partenza oppure… Nella ridda delle ipotesi (che per comprensibili ragioni di spazio tralascio qui di citare integralmente ma meriterebbero di venir valutate, ciascuna, in ampi dibattiti critici), si delinea perciò un nuovo modo di intendere il raccontare che, emancipandosi dalla tirannia del dare un inizio ed una fine ad una storia, si traduca in arte della lingua. E forse anche – sulla scorta del taoismo – in arte dell’equilibrio, dato che il nulla non corrisponde al vuoto e vuoto e pieno si alternano nella complementarietà di yin e yang e l’interdipendenza di bene e male. Le prime idee dell’uomo si sono formate a partire dalle immagini che poi, unite ai suoni, hanno dato vita al linguaggio ed al significato. Non sembra quindi un caso che quella del bilanciere diventi una delle icone più ricorrenti nel romanzo, offrendosi certo come segno tangibile della Cina rurale ma pure quale simbolo e metafora di una realtà perennemente in bilico tra distruzione e rinascita. Magnifiche, infine, le descrizioni della natura, ora colta nella sua selvaggia autenticità ora nelle sue sfumature più spaventose, ma sempre senza scopo, senza simboli o metafore, senza bisogno di analogie o associazioni di idee. Bellezza allo stato puro.