Interior Vandalism (presentazione della mostra)

01 munch

FULVIA GIACOSA.

C’è un tempo in cui l’ espressione creativa dà forma ad una frazione di presente che già contiene le matrici del futuro senza che vi sia imbarazzo a cercare ispirazione nel passato prossimo.Quel tempo è la giovinezza.

E’ un tempo vergine, assorbente, inclusivo e caratterizzato dall’urgenza di dire la propria parola sul mondo attraverso  una forma espressiva  autentica: dove per autenticità non si intende necessariamente  evitare il già detto, ma la capacità di traslarlo in originali modi inventivi. Pertanto, riconoscibili riferimenti a modalità del passato sono non solo ammessi, ma necessari ad uno stadio aurorale del fare arte: il “nuovo” sta nelle impreviste divergenze, in quella “ripetizione differente” (Barilli) che ha caratterizzato molte ricerche degli ultimi decenni del XX secolo.

La mostra  all’Antico Palazzo di Città di Mondovì espone, oltre a “Il mio Messico” del già noto ed affermato Sergio Bruno, un buon numero di opere di un giovane, il ventenne Andrea Pettiti.

In un presente artistico che consuma ogni novità e pare dominato da troppa sconfortante banalità di operazioni meramente mercantili, Andrea mi sembra degno di attenzione e di credito.

Le citazioni riconoscibili di autori del passato più o meno recente in cui trova linfa la sua ricerca ci dicono molto sull’oggi, dominato dalla frammentazione e dal mescolamento, di cui la storia artistica recente – a partire dagli slabbrati confini del post-moderno – dà conto.

Filiformi figure alla Giacometti, graffiti preistorici e graffitismo contemporaneo, maschere senza tempo, installazioni che ammiccano ai prelievi di materiali di scarto tipici dei “nuovi realismi” novecenteschi ma anche  alla street art di un Banksy, questo ed altro ancora si ricompone in una lettura personale che promette ulteriori sviluppi.

La preconizzata “mutazione antropologica” di cui parlava Pasolini si è ormai realizzata. E il poeta implorava:

Venite, treni, portate lontano la gioventù

a cercare per il mondo ciò che qui è perduto

La ricerca di Andrea, per via di un disinibito prelievo, va lontano, verso un  Altrove possibile e – si spera – non troppo utopico. I lavori pittorici, in quanto “narranti”,  richiedono innanzi tutto una riflessione sul loro contenuto che spazia  tra sciamani, maschere africane, immagini del sacro, uniti da una matrice primitivistica, memore dei tanti espressionismi novecenteschi nell’uso deformante del segno, dei colori, delle materie e nel fare diretto. Essi  richiamano un mondo ancestrale e magico, contro l’eccesso di paganesimo consumistico e tecnologico, anche se in alcuni curiosi particolari fanno capolino i modi globalizzati del comunicare (come in un selfy sui “bari” di caravaggesca memoria).

Andrea  sembra volerci dire che, in un presente che ha perduto il senso del passato e la progettazione del futuro,  l’uomo  deve tornare sui suoi passi, su su fino alle proprie origini.

Inoltre, se molti artisti del secondo Novecento hanno dichiarato l’arte estranea ad un qualsiasi senso di utilità, il lavoro di Andrea  punta a dimostrare il contrario. Le sue opere  si radicano  nella tradizione di un’arte che vuole essere utile: mentre infatti distolgono l’individuo dall’oppressione del quotidiano e si oppongono ad una realtà post-umana, esse dischiudono una realtà “altra”, accarezzano il  progetto di un vivere diverso.

Esplorare  territori alternativi diventa quasi una parola d’ordine, un modus vivendi , non importa se realmente o attraverso le pagine di un libro o le immagini dell’arte.

Qual è la natura dell’inquietudine umana? – si chiede Chatwin ne “Le vie dei canti”- e scrive:

Tutti i grandi maestri hanno predicato che in origine l’Uomo  peregrinava per il deserto arido e infuocato di questo mondo – sono parole del Grande Inquisitore di Dostoevskij -, e che per riscoprire la sua umanità egli deve liberarsi dai legami e mettersi in cammino. … Se era così, se la patria era il deserto, se i nostri istinti si erano forgiati nel deserto per sopravvivere ai suoi rigori, allora era più facile capire perché i pascoli più verdi ci vengono a noia, perché le ricchezze ci logorano e perché l’immaginario uomo di Pascal considerava i suoi confortevoli alloggi una prigione.”

Mole, Pettiti

QUI la recensione della mostra