I Vandalismi Interiori

LORENZO BARBERIS

Questo settembre artistico monregalese riprende, dopo il punto fermo della Mostra dell’Artigianato ad Agosto, con tre belle mostre a Piazza: le conferme di Sergio Bruno e Bruno Capellino, e un nuovo artista, Andrea Pettiti, appena ventunenne, ma che ultimamente si è rivelato molto attivo in città. Con Sergio Bruno ha inaugurato l’ArteAtelier lo scorso maggio, ha illustrato coi suoi murales il PalaItis e ora si accinge ad affrescare a modo suo lo scalone che collega Breo e Altipiano.

E, appunto, sempre in sinergia con Sergio Bruno, questa doppia mostra all’Antico Palazzo di Città, col titolo di “Interior Vandalism”: un rimando, certo, all’associazione tra vandalismo e graffitismo nell’immaginario collettivo piccolo-borghese, “vandalismo” che qui viene trasposto non più sullo spazio esterno dei muri vandalizzati, ma sullo spazio “interno” di una mostra tradizionale. Ma ovviamente c’è un secondo livello possibile, che scopriremo addentrandoci nella mostra.

L’arte di Andrea Pettiti, alla sua prima esposizione monregalese, ci mostra infatti un lungo apprendistato nell’immaginario dei grandi della pittura astratta e pop, con una miriade di sentieri che si biforcano nelle varie possibili direzioni. In qualche misura la sua mostra appare come un compendio delle più note esperienze artistiche del Novecento e del secondo dopoguerra in particolare, in un’indagine ad ampio spettro alla ricerca del proprio stile.

Ricerche del Novecento, abbiamo detto: ma Pettiti non manca di omaggiare anche le radici dell’astrazione moderna con un paio di “Cave Paint” tratti pari pari dalle più note figurazioni della Valle delle Meraviglie. Come la scoperta delle incisioni rupestri spagnole d’Altamira, verso il 1880, ebbe un grande influsso sul padre dell’astrazione Pablo Picasso (assieme all’arte africana, Cezanne ed altro, ovviamente), così Pettiti sembra omaggiare le radici profonde di una possibile “astrazione cuneese” nello Stregone venerato dai Ligures delle Alpi Marittime, la più famosa figurazione tra le migliaia della valle (e in fondo, l’artista è per certi versi l’erede dello sciamano preistorico).

Con un primo volo pindarico, questa crocifissione può quasi rimandare, come un dettaglio, al rude gotico nostrano. Ovviamente la figurazione è moderna, e il crocifisso è en abime: il giovane crocifisso non è Cristo, ma un “giovane ladrone” che porta tatuato sul braccio il Crocifisso (secondo una voga effettivamente diffusa in molte band di latinos). Sole e Luna (morenti) presenti alla scena tragica che segna l’umanità (Sole e Luna appaiono anche nella parallela mostra di Bruno, in un ceramista messicano ospite, a fianco di un crocifisso omaggiato da una Rosa Rossa) sono elemento tradizionale della figurazione della Croce, che dimostra un effettivo studio delle fonti anche “classiche” da parte dell’autore.

Questo dipinto, invece, può essere una crasi di quello che Pettiti recupera dall’arte rinascimentale, con un soggetto “leggero” molto frequente, i Giocatori di Carte, che Pettiti rilegge dal più grande, Caravaggio. Come consueto il tema rimanda sotterraneamente al tema del Baro; qui però, con ironia postmoderna, in Pettiti lo spione non indaga la mano di carte del giocatore ingenuo, ma ne spia lo smartphone (come tecnologicamente fanno, in effetti, Zuckerberg e soci).

Con un nuovo “grande balzo in avanti” ci troviamo nei dipressi della fine Ottocento, con questa donna esotica, vagamente à la Gaugin, che tuttavia è un riferimento artistico abbandonato, destituito per Pettiti. Il dipinto è infatti, significativamente, appoggiato per terra, quasi in un abbandono degli ultimi epigoni della figurazione tutto sommato ancora “tradizionale”.

Ma in questo fin du siecle XIX che prepara il Novecento troviamo poi un ben più rilevante e significativo omaggio ad Edvard Munch, padre dell’espressionismo, e alla sua opera iconica, l’Urlo del 1893, un possibile punto d’inizio del Novecento artistico. In effetti in Pettiti ci troviamo più dalle parti della forza dell’espressione che nelle geometrie del cubismo, e quindi tale omaggio è giustamente dovuto. Sembra quasi che l’uomo dell’Urlo, esausto dal suo lungo gridare per tutto il corso del Novecento, qui finalmente esausto si fermi e riprenda il fiato. Lo stilema recuperato da Pettiti si estende poi ad altre opere che riprendono, in altri soggetti, quella sintesi visiva.

Similmente a Munch per la pittura, il riferimento più “classico” della scultura è ad Alberto Giacometti, di cui si richiamano le figure esili e frastagliate che erano piaciute a Sartre; figure metalliche che in Pettiti tornano, talvolta, anche come elemento di più complesse installazioni.

Con un ulteriore, ma più moderato, salto temporale ci troviamo dalle parti di Duchamp. Non la singola ruota di bicicletta al centro del museo, ma una bicicletta intera, “corpo del reato” artistico vincolato a una scala al centro della sala tramite un nastro della polizia comunale. Bene ha fatto Pettiti ad aggiungere la bicicletta alla scala: non solo per esplicitare l’omaggio (conscio o inconscio, non importa) al dadaismo, ma anche per consentire al pubblico monregalese meno avveduto di rendersi conto di trovarsi di fronte ad un’opera artistica, e non ritenere la scala oggetto abbandonato durante il montaggio mostra da qualche distratto cantoniere municipale.

L’Orinatoio di Duchamp (1917: tempo un secolo, e quello che scandalizzava a New York è apprezzato a Mondovì) viene in qualche modo attualizzato in questo “Selfie Hole”, dove lo scatologico non è reso tramite la sua espressione più propria del water closet, ma con un contenitore dell’immondizia dove campeggia un altro buco, quello per i Selfie, con tanto di annesso bastone da selfie, ultimo ritrovato della scienza moderna al servizio del patologico narcisismo dell’Occidente al suo eterno tramonto (come diceva Eco, “è il suo mestiere”). Il contenitore per rifiuti plastici – non a caso- ironizza in questo modo sull’Immagine ormai ridotta a rifiuto da discarica, effimera e priva di cura.

Molte altre opere riflettono poi sul concetto di rifiuto e inquinamento (sia fisico che visivo) per tramite l’uso insistito dell’installazione: strumento non nuovo in sé (dal Cavatappi di Duchamp in poi, appunto) ma certo mai così insistentemente proposto in una esposizione monregalese, almeno a mia memoria (magari, prima del “ritorno all’ordine” degli Ottanta della transavanguardia qualcosa ci sarà stato).

Questa doppia piscina, di cui quella centrale di un rosa shocking, sarebbe però stata più idonea nel 1991, quando il Cormorano coperto di petrolio divenne il simbolo (artificioso, pare, come molte foto iconiche) della Guerra in Iraq.

All’interno della galassia dell’Installazionismo, Pettiti mostra poi quasi una predilezione (a giudicare dalla mostra) per il tema dei Lavori in Corso, del cantiere, ovviamente spesso assunto come metafora di una novecentesca prigione esistenziale (a Cuneo, su questo tema, notevole era stata la risignificazione di modesti lavori di assestamento, che erano divenuti, nell’installazione di Zooart, i lavori per la Metropolitana cuneese!).

Questo lavoro sul “Cantierismo” giunge a sintesi visive intriganti, come in questa installazione dove alle gambe di donna che reggono un dipinto bellico si associa il mondo bruciato, alla Chaplin del “Grande dittatore” (tra l’altro un Pallamondo di quelli da poco usati nella mostra dell’Artigianato come motivo decorativo…); l’estintore, che è un reale estintore del Palazzo di Città, viene così ad essere ri-significato come strumento per spegnere il mondo infuocato dalle guerre, secondo una delle più note gag sull’arte modernista (“No, quella non è un’installazione, è l’estintore!” Classica didascalia da Settimana Enigmistica).

Con un salto abbastanza conseguente, dalle installazioni del Dada passiamo ai loro naturali eredi postbellici, i mentori della Pop Art. Andy Warhol e il suo lavoro sulle icone in quadricromia (qui ridotta a bicromia B/N, bianco-nero, bene-male) degli anni ’60 risuona in questo lavoro, che certo è anche avvertito  - Pettiti è anche graffitista – di Bansky. Anakin Skywalker ci invita a passare al Lato Oscuro della Forza, che è però simbolicamente rappresentato dalla mela morsicata della Genesi e della Apple, quasi invito all’utente Windows ad abbandonare il suo decadente sysop per quello da sempre preferito dagli hipster di ogni tempo.

Altre opere di Pettiti riprendono invece il lavoro di Lichtenstein sul testo fumettistico, ovviamente personalizzandolo come in questo spietato Ronald McDonald contrapposto all’altrettanto iconico bambino africano denutrito. La denuncia è, come al solito, ambigua, perché il messaggio “That can’t be real” pronunciato dall’ilare pagliaccio può essere riferito, certo, alla tragedia dell’Africa, che è invece vera, ma anche all’opera in sé (il Ceci n’est pas une pipe di Magritte), e in tal caso è vero.

Qui una sola opera è presente in mostra, ma Pettiti ha già una certa produzione al riguardo che costituisce, a mio modesto avviso, il nucleo che trovo più interessante della sua azione pittorica, e che potrebbe essere oggetto, magari, di un futuro approfondimento espositivo.

Non manca nemmeno, comunque, un doveroso omaggio al Poverismo torinese, coevo della Pop Art (se questa indagava le icone, il contenuto, l’altro indagava i materiali) con quest’opera in lamiera scorticata.

Non manca nemmeno un pensiero al Nouveau Realisme francese di Arman con le sue accumulazioni, che oggettivamente va riconosciuto come l’approccio a riferimenti in grado di uscire al puro binomio USA-Italia in cui a volte paiono confinati alcuni artisti. Non so se sia intenzionale, ma non mi dispiace il taglio aggressivo delle ombre delle lattine di tonno scorticate (che ovviamente sono disposte a riprodurre l’immagine di un grande pesce, secondo una strategia effettivamente adottata da tonni e altri pesci di piccole dimensioni per intimorire i predatori). Il decadente sole colante sembra suggerire, a suo modo, una intenzionalità.

Infine, in mostra sono presenti, quasi un punto d’arrivo dal graffitismo preistorico originario, alcune immagini graffitiche realizzate da Pettiti come PWAV, il suo identificativo di street art.

Un percorso insomma interessante, un viaggio vorticoso tra stili e tendenze diverse, che riscopre nella tradizione del Novecento quanto già c’è di “vandalico” nel senso di dissacrante rispetto alla concezione precedente d’arte classicamente intesa. In questo senso, il “vandalismo” non è un portato recente della street art (da noi affermatasi relativamente più tardi, dagli anni ’90 in poi), ma è già un “vandalismo interiore” insito nella tradizione novecentesca.

Insomma, come suggerisce anche quest’opera, un Labirinto, quello costruito da Pettiti con i suoi dipinti, in grado di imbastire un’interessante digressione visuale.

Ma ancor più l’immagine che mi viene alla mente (e si tratta, sia chiaro, di un parallelo per me lusinghiero, con quello che è uno dei più notevoli e sottovalutati romanzi italiani) è quella del proto-vandalo Gian Burrasca, che allestisce per gli arretrati giovani di campagna un serraglio, modificando le bestie dei villici arretrati che non capiscono la preziosità del dono che egli offre loro con il suo modernissimo zoo.

Un colorito serraglio di Nuovi Fauves, dunque, questo di Pettiti, da osservare con cura per l’innovazione e il “vandalismo” che introduce, relativamente alla scena artistica monregalese, ancora in parte adagiata sul suo Eterno Ottocento agreste.

QUI la presentazione della mostra

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Foto di copertina: “Come un pesce fuor d’acqua”, di Pettiti. Una buona descrizione, forse, dell’impatto della sua mostra a Mondovì.