LORENZO BARBERIS.
E così siamo giunti all’edizione numero 45 della Mostra dell’Artigianato di Mondovì. Mostra, non Fiera, ad esaltarne e sottolineare il valore artistico della stessa, pur correlato al riferimento all’Artigianato.
Una realtà iniziata nel lontano 1967, ad opera della storica associazione degli “Amici di Piazza”, e che ha stabilito un rapporto con la città particolarmente intenso e significativo. Ma da quando Mondovì ha iniziato a mettersi in mostra?
Sicuramente ben più di (quasi) mezzo secolo fa.
Il tema della nascita del concetto di “mostra” appare meno studiato, da una rapida escursione su internet, di quello, ad esempio di “museo” nella sua accezione moderna, per certi versi analogo nella sua funzione divulgativa. Forse appunto per l’impalpabilità del concetto astratto di mostra in sé, rispetto ad un luogo fisico concreto.
Tuttavia, probabilmente il concetto di “mostra” nasce in sostanza anch’esso con la nascita dell’età contemporanea, tra rivoluzione francese e congresso di Vienna, ed è parallelo alla graduale inculturazione delle masse urbane portata dalla rivoluzione industriale che, avviata sul finire del XVIII secolo, informa di sé tutto l’Ottocento.
Il tutto non è scevro, ovviamente, da uno spirito illuministico e poi positivistico, di erudizione ed espansione magnifica e progressiva del sapere, in ogni ambito.
Spigolando il bel libro di Billò, “Artigiani e artisti a Mondovì” (Ed. Amici di Piazza, appunto, nel 1978), notiamo che in Piemonte tale spirito penetra con l’età napoleonica, con le prime esposizioni a Torino; ad avvenuta restaurazione, viene istituita la Regia Camera di Commercio e Agricoltura, che promuove nel 1829 una prima esposizione delle “patrie manifatture”. La mostra divenne periodica e si istituì come modello similare per le realtà ormai periferiche della capitale assoluta torinese.
La prima esposizione provinciale a Cuneo giunge solo molto più tardi, ad Unità avvenuta, nel 1870, e venne reiterata a Saluzzo nel 1874. La terza toccò a Mondovì, nel settembre 1878, ovviamente a Piazza, nei locali del Convitto Civico. Ancora, ovviamente, una mostra “museale”, se si passa il termine, in uno spazio chiuso, come fu all’inizio anche l’attuale Mostra dell’Artigianato.
Felice Garelli, presidente dell’esposizione (quello dell’attuale IPSIA: il tribolato monumento davanti al comune è del fratello Giovanni. Ambedue senatori, comunque), la dichiara “modestissima” con tipico understatement monregalese, che spingeva al rifiuto per una “mostra delle vanità”.
Divisa in sei sezioni, la mostra ne prevedeva tre legate alla produzione materiale (materie prime, lavorate e agricoltura), e tre più culturali (istruzione, scienze, e Belle Arti).
Le Belle Arti apparivano inclusive di tutte le tecniche pittoriche, grafiche e scultoree; particolare rilievo ha la citazione della Fotografia, che veniva in quell’anno introdotta in città, col servizio fotografico sulla città del cavalier Giuseppe Viglietti.
L’innovazione, data anche la lentezza dei tempi, giunge quindi in Mondovì dopo circa un ventennio della sua diffusione universale nei grandi centri, che si colloca usualmente a metà Ottocento (lo stesso gap che passa, dunque, tra il primo Expo universale a Londra, nel 1851, nel cuore della rivoluzione industriale, e una esposizione a Mondovì).
Tuttavia, a ben pensarci, è come se oggi nella mostra si celebrasse, ad esempio, chi opera nell’ambito della tecnologia informatica della rete (invenzione nel 1974, diffusione del web circa 1990s), che resta invece più marginale.
In commissione del primo Expo Monregalese, se così possiamo chiamarlo, troviamo lo scultore Antonio Roasio – insieme a professori, conti e altri maggiorenti del dolce Mondovì ridente (l’anno dopo sarebbe giunto Carducci, che avrebbe eternato la città in “Piemonte”). Roasio premia nel concorso di pittura il collega pittore e massone Andrea Vinaj, anche qui perché il “valore” è “compagno di una somma modestia”, recita la piemontesissima motivazione.
In sostanza, però, il premio va a tre ritratti realizzati con la massima correttezza nelle forme anatomiche. Il primato del paesaggismo che domina ora in certo grado, e da tempo, la cultura monregalese, è ancora di là da venire. Ovviamente, si loda moltro anche l’Assunta, grande quadro di tre metri per cinque e mezzo (comune committente di Vinaj e Roasio è il vescovo super-conservatore Ghilardi, e l’arte sacra – e quindi la figura – è, anche per i mangiapreti, il vero banco di prova.
Mi sarebbe piaciuto vedere invece “Monache alla tribuna” del conte Scarampi di Monforte, per capire se era devoto o malizioso, come pure “La Maddalena” di Francesco Toscano.
Si celebra anche un gran ritratto di Umberto I, appena assurto al trono, ad opera di Giuseppe Prinotti d’Alba, che visita così la città in effigie prima di giungervi fisicamente nel 1891.
Una nuova esposizione avviene nell’autunno 1907, in Borgo Gherbiana. Questa è ormai mostra di pura iniziativa monregalese, non è più la tappa obbligata dell’esposizione provinciale. La mostra, che presentava i vari autori dell’epoca, lanciò a quanto pare le opere del pittore Nino Fracchia, apportatore del Liberty nel Novecento monregalese. Lo stesso anno che Picasso avvia, con le sue Damoiselles d’Avignon, il cubismo: forse una coincidenza significativa, perché Fracchia fu il simbolo dello sciente rifiuto del razionalismo in pittura e in architettura, come autore di numerose ville in cui, secondo gli stilemi dell’Art Nouveau, la decorazione faceva premio su una struttura comunque tradizionale.
Ad ogni modo, sia pure con una scelta più tradizionale (Art Nouveau invece di Astrazione) e con un certo lasso di tempo, forse inevitabile, come nella fotografia e nelle stesse mostre (giunte una trentina d’anni dopo, dicevamo, della loro affermazione europea) l’esposizione segna un progresso nel gusto cittadino.
Pochissimo dopo, nel 1910 viene una nuova esposizione, stavolta presso il Santuario, nell’ex monastero cistercense, per il trecentenario della nascita del Cardinale Bona, il “papa in pectore” monregalese (che come chiunque entri in conclave già papa, ne uscì sempre cardinale).
L’esposizione, sul modello del furore da Ballet Excelsior della Belle Epoque per il XX secolo, include un profluvio di manifestazioni corollarie: fuochi artificiali, scherma, illuminazione elettrica, le prime gare del calcio monregalese, e manifestazioni ciclo-motoristiche. Il futurismo era cominciato un anno prima, e sarebbe stato fiero in questo caso di Mondovì.
Le opere sono dei soliti Roasio, Quadrone, Vinai, Toscano. C’è anche il Fortuny con “La famiglia dell’antiquario”. Numerose le dilettanti, tutte rigorosamente al femminile; ma anche questa presenza femminea, se pur confinata nel gineceo dell’”amatore”, segna un elemento di progresso sociale.
Nel 1916 una nuova esposizione monregalese raccoglie fondi per l’intervento bellico, sotto l’egida dell’interventista barone Mercurino Sappa. Agostino Toscano vi espone la sua tela “Il giornale preferito”, che è la più cara in esposizione su oltre duecento in catalogo. Raffigura un gruppo di bambini intenti a leggere la Domenica del Corriere. Anche il fumetto fa, sia pure in modo indiretto, la sua apparizione in mostra a Mondovì.
Nel 1927, a dieci anni dalla raccolta fondi del mercuriale professore, una nuova esposizione celebra il Monumento ai numerosissimi Caduti della Grande Guerra, ad opera di Malfatti e rigorosamente figurativa in piena età del fascio-futurismo trionfante. A inaugurarla, il principe Umberto in persona, in un vago sapore di blanda fronda monarchica nella città poco entusiasta del regime. L’astrazione futurista, divenuta bolsa retorica di regime, viene rifiutata in una Mondovì ancora psicologicamente ottocentesca e giolittiana (il gran monregalese morirà l’anno dopo).
Nel secondo dopoguerra si ha un’ulteriore evoluzione, con un accentuata diffusione dell’esposizione artistica in parallelo, per paradosso, al declino del professionismo pittorico. La committenza va sparendo, con la nuova arte sacra che già prima del Concilio inizia a guardare, anche da noi, al Razionalismo. Il boom economico, col benessere diffuso, produce lo sviluppo del tempo libero, e quindi al pittore-artigiano si sostituiscono artisti non professionisti che dipingono (o praticano altra arte) per hobby o per “ricerca artistica” – a seconda degli autori e dei punti di vista.
Tuttavia, pur nel cambiare inevitabile delle strutture di produzione artistica, si mantiene sempre più e anzi si idealizza quel Grande Ottocento agreste, con una preferenza netta, nel pubblico, per uno stilema vagamente passatista.
Anche se, come ricorda sempre Billò nel suo successivo “Pittori Monregalesi d’Oggi”, senescente titolo del 1978, la prima sala d’arte è la “Terza Saletta” del bar Aragno, “tenuta a battesimo” da Ego Bianchi, con cui fa capolino in città, nei ’50, l’astrazione moderna. Ma il seme non lascia segni duraturi.
Nasce però l’abitudine alla “mostra personale”, a fianco delle precedenti esposizioni collettive; prima escluse, a Mondovì, per l’eccessiva hybris che essa sottende.
“La Meridiana” di Avico (oggi rinata come Meridiana Tempo, con tanto di sito internet) organizza un centinaio di mostre, dal 1960. Dal 1967, il concorso carassonese “Porti Di Magnin” e l’attuale “Mostra dell’artigianato diventano occasione, per citare un istruttivo Billò, “nell’avvicinare il pubblico più eterogeneo alla pittura”. È la Mondovì del boom, a un passo dal ’68. La svolta organizzativa verso eventi quali in specie la Mostra di Piazza non incide però sulla centralità del culto dell’arte tradizionale che traspare nelle opere presentate.
In parte più aperta, culturalmente, “La rotonda” di Zanat e Briatore, dal 1971, che raggiunge a fine decade dei ’70 una sessantina di esposizioni artistiche.
Fin qui Billò: sulla decade degli ’80 dell’arte monregalese non mi soccorre la sua sintesi, e quindi tocca arrestarsi. Negli anni ’90, invece, ricordo tentativi di spazi – cui mi capitò di collaborare – quale la Galleria Melquiades (1997) o, in seguito, l’Associazione Artes, nel decennio del 2000. Realtà volte a portare in città un afflato di modernizzazione ormai sentito come necessario. (Update: nel 2014, anche l’Artes è stata rifondata in Associazione Artes 2.0).
Un’esigenza anche delle amministrazioni comunali (nell’ultimo quarto di secolo, sempre nello stesso segno) che hanno portato in città, negli anni 2000, autori internazionali quali Hartung, Mirò, Dalì con la Divina Commedia, Picasso con le ceramiche; principalmente nella cornice prestigiosa di Santo Stefano a Breo, inaugurata agli inizi del nuovo millennio monregalese.
Oggi, in modo meno eclatante ma sempre nel segno di una volontà di apertura internazionale, tocca al danese Nes Lerpa e l’inglese Anne Desmet, che accompagnano la mostra di quest’anno; a fianco di autori locali di livello, sia contemporanei (Persea, reduce da presenze alla Biennale) che appartenenti al passato più prossimo (Zanat).
In attesa di nuovi sviluppi, mentre la Mostra per eccellenza, ormai, inizia la sua corsa verso il mezzo secolo d’esistenza.