Tra musica e religione: risonanze e dissonanze

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GABRIELLA MONGARDI.

Nell’ambito del Festival Internazionale di Musica “MITO-Settembre musica”, giunto nel 2015 alla nona edizione, l’orchestra dell’Academia Montis Regalis e il Coro Maghini diretti dal maestro Alessandro De Marchi hanno proposto a Torino, per la sezione “Musica sacra, antica e barocca”, due autori napoletani, Alessandro Scarlatti e Francesco Durante. Scarlatti per la precisione era nato a Palermo, ma aveva trovato nella fioritura culturale e artistica della Napoli del primo Settecento le condizioni ideali per un compositore; Durante invece, di oltre vent’anni più giovane, era cresciuto grazie ai “Conservatori” napoletani, che accoglievano bimbi orfani e poveri insegnando loro un mestiere per vivere, quello di musicista (un po’ come avviene oggi in Venezuela con l’Orchestra Giovanile Simon Bolivar). Entrambi oscillano tra il rispetto dello stile antico, “a cappella”, e l’esigenza di sviluppare uno stile moderno, concertato: ma quella che in Scarlatti sembra un’alternativa inconciliabile, risolta con l’alternanza, la semplice giustapposizione di parti moderne e antiche, in Durante sfocia invece nell’ammirevole sintesi di contrappunto tradizionale e nuova espressività armonica.

Questo risalta con la massima evidenza nei brani interpretati durante il concerto: di Scarlatti il salmo Dixit Dominus per soli, coro, archi e continuo e la sonata in Fa maggiore per tre violini e continuo; di Durante il salmo Miserere mei, Deus per cinque voci e organo, che dà risposta anche a un altro ‘conflitto’ di fondo, quello tra musica e testo religioso, per non dire tra musica e religione tout court.

La spinta innovativa di Scarlatti è molto più evidente nella sua ampia produzione operistica, mentre nell’ambito della musica sacra e strumentale il peso della tradizione si fa maggiormente sentire: così la sua sonata, eseguita tra i due salmi, è sostanzialmente fedele al modello corelliano, se non per il danzante intreccio delle linee melodiche nei tempi veloci e l’andamento sospiroso e languido dei tempi lenti. Il suo Dixit Dominus, che può essere considerato modello dell’omonima composizione di Händel, si apre come un’opera con un’imponente introduzione orchestrale, nella quale si incastonano le parole del Signore che garantisce potere e vittoria al suo protetto; le voci dei cantanti vengono trattate come strumenti che entrano alla pari nel dialogo orchestrale, basato per lo più sulla contrapposizione, sul contrasto. Il tessuto musicale è ricco di chiaroscuri, di tensioni, quando non intimamente contraddittorio – forse nello sforzo di aderire al testo, particolarmente ‘violento’, che però viene a sua volta ‘violentato’ dalla musica, che quasi sempre lo occulta. Il Gloria conclusivo è un po’ la sintesi dei procedimenti utilizzati e culmina in un complesso fugato.

Completamente diversa la soluzione di Durante, che nel suo Miserere mei, Deus trova un mirabile equilibrio tra musica e parola. Come scrive Mussino nel programma di sala, «la restituzione ritmica e retorica del testo è sempre di una trasparenza esemplare, quasi a voler evitare qualsiasi complicazione polifonica in nome di un’espressività immediata e profonda». Ciò non implica la subordinazione della musica al testo, bensì la metamorfosi della lingua in un sublime impasto sonoro dove quello che conta non è il significato, ma la “significanza”,  l’essere fuori da tutti linguaggi (Barthes). Durante supera la conflittualità del rapporto musica-testo religioso (in cui ciascuno dei due vorrebbe prevalere sull’altro) realizzando il miracolo di una fusione perfetta, in cui ciascuno dei due elementi è ancora perfettamente riconoscibile, ma non esiste al di fuori di essa. Almeno per la durata del Salmo, almeno nello spazio dello spartito durantiano, splendidamente interpretato e vivificato dal Coro Maghini e dall’Academia Montis Regalis, il conflitto è sospeso, la Bellezza e l’Armonia e l’Umiltà trionfano. Questa utopia si è realizzata anche grazie all’architettura della chiesa dove il concerto si è tenuto, San Filippo – la chiesa più grande di Torino, opera degli architetti Guarini e Juvarra, che con la sua perfetta acustica ha esaltato, come una grandiosa cassa armonica, la calda, ardita sonorità delle voci umane e strumentali.

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