14 e 15 settembre 2015: avvicinamento alla meta.
Da Cuneo siamo scesi velocemente, quasi senza soste fino al confine tra Molise e Puglia e, dopo una notte di riposo in uno di quei tanti agglomerati inventati dal nulla per il turismo balneare – e perciò anonimi ed insignificanti, tanto da non meritare il nome di “paesi”-, preceduta però da un’ottima cena a base di pesce, abbiamo goduto di alcuni scorci mozzafiato sul mare del Gargano dall’alto delle strade che percorrono il promontorio, sconsigliate a chi soffre il mal d’auto, ma sicuramente più intriganti della litoranea.
Poi abbiamo tagliato verso l’interno. La prima sosta è nei pressi di Andria per visitare Castel del Monte.
Sosta al parcheggio, caricamento sulla navetta per raggiungere il castello, gruppi di turisti quasi tutti tedeschi (nessun italiano abbiamo incrociato in questa metà di settembre che è “fuori tempo” per gli italiani): tutti in fila ordinata, tutti troppo di fretta in quel mordi e fuggi che è la caratteristica di tanto turismo contemporaneo.
Perciò cerchiamo di distogliere lo sguardo dal contorno umano per goderci lo splendore della più nota residenza meridionale di Federico II, accecante per un sole pienamente estivo e luminosa nel candore della pietra calcarea, materiale cui si aggiungono particolari in marmo e in pietra corallina.
La costruzione, iniziata intorno al 1240, è un ottagono con otto torri anch’esse ottagonali che hanno il compito statico di ammortizzare le forze di spinta. Nonostante le grandi dimensioni , spira dall’edificio un senso di armonia che, senza nulla togliere alla sua imponenza, lo rende classico: a misura regia, tuttavia, più che umana, e tipicamente sveva.
Occorre chiarire alcuni rapporti matematico-geometrici per trovare la chiave di tale armonia. Essa si genera, infatti, dall’uso della sezione aurea (“divisione in media ed estrema ragione” la chiamavano gli antichi greci, “divina proportione” è detta nel Rinascimento): l’ottagono, generato dalla combinazione di cerchio e quadrato, con tutta la loro simbologia platonica e cristiana, filosofica e mistica, è dato dall’incastro di una serie di rettangoli aurei.
La combinazione di figure geometriche dal forte simbolismo si ripete nel portale principale con precisione matematica: il pentagono in cui esso è racchiuso fa coincidere ogni elemento (timpano, colonne maggiori e minori, altezza dei capitelli …) con la struttura aurea del poligono, lo stesso utilizzato dall’umanesimo per la figura dell’uomo vitruviano.
Castel del Monte non è un edificio militare (mancano il fossato, le postazioni per archi e balestre, le scuderie e i magazzini necessari ad una guarnigione, senza contare che le scale a chiocciola delle torri girano a sinistra, mentre per le milizie dovrebbero girare a destra); ma è tante altre cose insieme: osservatorio astronomico (per cui le leggi della natura si sposano con quelle astratte della geometria), residenza imperiale che ospita scienziati filosofi teologi musicisti poeti artisti, punto di partenza per le battute di caccia col falcone dell’imperatore – che pare abbia scritto qui il suo “De arte venandi cum avibus” -, centro di incontro della cultura classica con quella cristiana e araba; ma è soprattutto materializzazione dei simboli del sapere promosso e governato dal potere regio. Non è un caso che Federico abbia dato il via alla costruzione dopo il ritorno da Gerusalemme, dove aveva visto la moschea di Abd al Malik (VII secolo) sulla spianata del tempio, anch’essa ottagonale; inoltre il lato corto dei rettangoli aurei misura esattamente quanto i 40 cubiti del tempio di Salomone a Gerusalemme (il numero 40 è numero biblico per eccellenza, numero della penitenza e della purificazione). E’ dunque possibile aggiungere un’ulteriore funzione a Castel del Monte, quella della meditazione collettiva, soprattutto se si osserva che tra le sale non sono contemplate cucine, cantine o dispense, mentre le uniche comodità sono quelle del raffinato sistema idraulico e dei servizi igienici. In tal senso si ha un’ulteriore giustificazione dell’ottagono, tipico dei battisteri e simbolo di resurrezione che il battesimo rende possibile – e la ipotizzata presenza del pozzo centrale ne rafforzerebbe il significato.
Le sale interne, di forma trapezoidale sia al piano terra che al primo piano, sono organizzate in modo da imporre un percorso preciso, dettato dalla distribuzione e dalla forma degli accessi, e danno una sensazione labirintica: laddove il labirinto è un’altra delle forme simboliche del Medioevo, da leggersi come “cammino” dall’oscurità (gli interni) alla luce (il cortile)attraverso la conoscenza.
Dalle sale del pianterreno, infatti, si è portati ad uscire nel cortile centrale, invaso dalla luce che spiove dall’ alto. Se si osservano attentamente i portali interni ci si rende conto che essi costituiscono la guida al percorso, fisico e spirituale insieme: ogni porta presenta una facciata principale, che corrisponde a quella da cui si entra, più ricca di ornati, mentre la sua controfacciata, che ci si lascia alle spalle, è più spoglia. Ad esempio, la porta della sala II si affaccia sul cortile senza decorazioni di rilievo nella sua faccia esterna, mentre la altre due porte che dal cortile riportano all’interno sono di pregio all’esterno, spoglie nel loro affaccio interno. Al primo piano occorre immaginare un ballatoio in legno che seguiva il perimetro del cortile; solo così si spiegano i singoli accessi alle stanze. In particolare, la sala tradizionalmente detta “del trono” è l’unica stanza terminale (ossia con un solo accesso) dotata di una porta-finestra sul cortile che consente di accedervi dal camminamento esterno.
Impossibile dar conto qui di tanti particolari; il consiglio è di recarsi sul posto e non avere fretta, ma osservare attentamente ogni dettaglio.
Rientrati dal castello ci dirigiamo nelle Murge verso la vicina Ruvo, a poco più di 20 kilometri, passando attraverso uliveti delimitati da muretti a secco di pietra locale, il tutto arso da un sole ancora caldissimo (39°). Molte di queste terre con le relative masserie erano, tra XII e XIII secolo, di proprietà dei Templari che a Ruvo avevano una sede importante.
La nostra sosta è brevissima e ci limitiamo al duomo della cittadina, una costruzione romanica del XII-XIII secolo, interessante per la particolare facciata che, pur riprendendo molti elementi delle altre cattedrali pugliesi, si presenta più slanciata grazie ai due spioventi fortemente inclinati. Il portale centrale richiama le sue consorelle, con il protiro su leoni stilofori e grifoni. L’arco del portale presenta decorazioni vegetali, zoomorfe e figure di apostoli nel sottarco. Il rosoncino sotto la bifora è romanico, mentre quello grande in alto è stato rimaneggiato successivamente.
Interessante è la visita all’ipogeo della chiesa, che testimonia il sovrapporsi delle epoche storiche: vi si trovano alcune tombe pre-romane, mosaici pavimentali appartenuti probabilmente ad una domus del II-III secolo, altre tombe con relativo corredo e resti di un edificio precedente (XI secolo), resti sui quali è stata costruita la chiesa romanica.
A sera ci spostiamo a Matera. Stanchi ed accaldati ci rifiutiamo di dare un primo sguardo alla città, ceniamo velocemente e ce ne andiamo a dormire.
16 e 17 settembre 2015: la meta.
Di buon mattino ci muoviamo per il centro. In piazza Vittorio Veneto c’è un info point turistico che fornisce suggerimenti, comprese alcune visite guidate per i Sassi, utili per un primo approccio. La persona che ci accompagna è un’insegnate del locale liceo classico, molto disponibile e simpatica.
Passiamo di fronte alla settecentesca chiesa del Purgatorio, dalla bella facciata barocca slanciata verso l’alto e carica di simbolismo: mentre la parte alta è un tripudio di angeli, ghirlande con frutti, figure sacre, la parte bassa è quasi macabra, con scheletri e teschi ovunque, compreso il portale: materializzazione del tema della morte e resurrezione tanto cari al Barocco.
Giunti in piazza Pascoli, ecco Palazzo Lanfranchi, seicentesco seminario, divenuto dopo l’Unità d’Italia liceo (vi ha insegnato il poeta cui è intitolata la piazza) e ora Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna: la facciata ha una particolare asimmetria, sia nei portali che nelle arcate cieche, una delle quali ingloba un rosone. Accanto al palazzo un piccolo belvedere ci offre un primo assaggio panoramico sui Sassi.
I Sassi occupano una conca di rocce calcaree scavate nei millenni da corsi d’acqua, detti “gravine”. La gravina di Matera è nata circa un milione di anni fa con il progressivo abbassamento del mare (su alcuni muri si vedono fossili marini) e lo scorrere dei primi corsi d’acqua che hanno eroso i calcari. Le rocce, friabili e dunque facilmente lavorabili, hanno favorito gli insediamenti rupestri mentre la loro scarsa permeabilità ha permesso la creazione di cisterne per conservare l’acqua. E’ possibile farsi un’idea della situazione visionando i sotterranei di Matera (in piazza Vittorio Veneto) che conservano grandi cisterne e “neviere”, oltre a cantine e grotte.
Il complesso dei Sassi è quasi spaccato a metà dall’altura detta Colle della Civita, l’insediamento più antico, su cui sorge il Duomo della città: da un lato si trova il Sasso Barisano, dall’altra il Sasso Caveoso, che esploriamo con la nostra guida. Tra stradine e scalinate ci inoltriamo tra i Sassi, visitiamo alcune case che sono rimaste abbastanza intatte da quando la zona è stata forzatamente spopolata negli anni cinquanta. Nella zona terminale del Sasso Caveoso le abitazioni sono quasi completamente scavate nella roccia. Dalla piazza su cui insiste la chiesa di San Pietro Caveoso si ha uno splendido panorama sulla Gravina.
E’ in questa zona che si concentrano alcune chiese rupestri ricche di affreschi, come Santa Maria de Idris e San Giovanni, scavate in un unico masso roccioso e collegate da un cunicolo interno.
Ma è il complesso del Convicinio di Sant’Antonio (XII-XIII secolo) che ci affascina, anche grazie ad un bel restauro conservativo. Si giunge in un cortile passando sotto un elegante arco acuto: qui si affacciano quattro chiese rupestri, con cripte articolate in cappelle e pilastri di sostegno. Le volte sono a schiena d’asino, a vela con nervature e una presenta la croce templare dai bracci uguali. La cripta dedicata a Sant’Egidio, protettore degli animali domestici, mostra come questi luoghi siano stati riutilizzati dai contadini come cantine, tra il Sette e l’Ottocento, con gravi danni agli affreschi per l’inserimento di palmenti per la produzione del vino. La cripta di San Donato, quadrangolare, conserva frammentari affreschi di santi, mentre l’ultimo ambiente è la cripta di Sant’Antonio, a tre navate, con volte a crociera nel presbiterio ornate da croci gigliate, uno degli ambienti riutilizzati a cantina: i gradini che scendono in basso sono consunti per l’uso di far rotolare le botti per conservarle nei vani più profondi e freschi.
Lasciata la guida, dopo un pranzo veloce, ci aggiriamo nel Sasso Barisano, maggiormente interessato da restauri e sicuramente più “turistico”, dal 1993 patrimonio Unesco. Anche le chiese rupestri di questa parte sono interessanti: noi ci siamo fermati in San Nicola dei Greci e in San Pietro Barisano.
Prima di chiudere la giornata, lasciamo i Sassi per il “piano” e per vedere la chiesa di San Giovanni Battista, che troviamo chiusa, per cui ci accontentiamo della bella facciata romanica con il portale ricco di sculture.
Il giorno dopo passiamo un’altra mattinata tra i Sassi e in uno di essi troviamo esposte alcune fotografie di Angelo Novi che ci mostrano la Matera di Pasolini, quando, nel 1964, venne qui a girare molte scene del “Vangelo secondo Matteo”, col quale ha inteso esprimere “l’intera mia nostalgia del mitico, dell’epico e del sacro”.
Dal confronto degli stessi luoghi emerge che, nonostante ci sia stato un impegno a mantenere il più possibile l’aspetto dei Sassi, la città ha subito un lifting con qualche intervento di chirurgia estetica di troppo. Eppure resta un unicum imperdibile che consente di tornare indietro nella memoria.
Certo è cambiato il “sapore” di questo luogo: all’epoca simbolo pietrificato del sottosviluppo meridionale, “paesaggio della desolazione avvolto dalla grazia”, era ancora un luogo di “popolo”: contadini e muli, bambini inselvatichiti che vivevano in strada, donne vestite di nero e con la testa infazzolettata. Oggi, tra le vie trovi soprattutto turisti e molte case si sono trasformate in alberghetti, bar e ristorantini. La Matera pasoliniana era quella ancora semiabbandonata, dopo lo sfollamento dell’intera popolazione che una legge del 1952 aveva stabilito di trasferire in nuove case al piano per porre fine alla “vergogna nazionale” dei Sassi, come l’aveva definita Togliatti. E i contadini tanto amati da Pasolini erano già in buona parte scomparsi. Pasolini, con la location del film, ne celebra la tragica fine.
Ce ne torniamo in albergo con le immagini del fotografo ufficiale di Pasolini negli occhi ed un pizzico di amaro in bocca.
Nel pomeriggio ci spostiamo nei dintorni per visitare la Cripta del Peccato Originale, scoperta nel 1963 ma restaurata solo nel 2001. Essa testimonia la massiccia presenza di monaci ed eremiti in grotte che si aprono lungo le pendici di aspri valloni come quello in cui è stata ritrovata la chiesa rupestre che visitiamo. La maggior parte di tali monaci proveniva dalle attuali Turchia e Siria e ciò spiega gli influssi orientali delle decorazioni, in un periodo in cui il vicino Oriente era sconvolto dalle lotte iconoclaste.
Scavata in una grotte naturale della gravina di Picciano, si trovano, ben conservati, affreschi del IX secolo sul tema della Genesi. Nelle tre piccole absidi ricavate lungo una delle pareti sono raffigurati gli apostoli Pietro, Andrea e Giovanni da un lato, la Vergine col Bambino al centro con due sante adoranti, tre arcangeli (Gabriele, Michele e Raffaele) dall’altro lato. L’ignoto pittore è detto il “Pittore dei Fiori di Matera” per la fitta decorazione che si trova sotto e tra le figure.
18 settembre 2015: ritorno a casa
Il nostro brevissimo viaggio è terminato e torniamo a casa. L’ultimo sguardo, prima d’imboccare l’autostrada, è per il paesaggio di questa terra bruciata dal sole di un’estate che non sembra voler finire (il sole vero, il sole ferocemente antico, Pasolini): terra povera e faticosa, dominata da linee orizzontali appena appena curvilinee, di una dolente bellezza (Carlo Levi).
(pubblicato la prima volta il 9 ottobre 2015)