ATTILIO IANNIELLO
L’autunno a Torino accarezza le strade del centro con un tocco di tranquilla malinconia che si aggira nei portici di via Po in forma di fisarmoniche suonate con lo sguardo di chi si aspetta almeno una moneta.
Un pomeriggio alla Nazionale a consultare alcuni periodici ottocenteschi ed ora un rapido giro alle bancarelle dei libri usati.
Una vecchia antologia di poesie africane attira la mia attenzione. Costa pochi euro; decido di acquistarla; le poesie mi terranno compagnia nel viaggio di ritorno.
Il treno per Mondovì parte alle 21.25, il tempo di mangiare qualcosa, e poi mi dirigo verso Porta Nuova.
Il viaggio è confortevole; il riscaldamento funziona, riesco anche a prendere la coincidenza a Fossano.
Le poesie dell’antologia sono interessanti, alcune trattano argomenti civili, di impegno per i diritti umani.
Un poeta franco-senegalese David Diop [1] denuncia con forza nei suoi versi i soprusi dei bianchi nei confronti dei suoi fratelli.
Le rileggo mentre il treno lascia alle sue spalle le stazioni di Trinità, di Magliano Alpi e vola sopra il torrente Pesio.
Le temps du martyr [2]
Le Blanc a tué mon père
Mon père était fier
Le Blanc a violé ma mère
Ma mère était belle
Le Blanc a courbé mon frère sous le soleil de route
Mon frère était fort
Le Blanc a tourné vers moi
Ses mains rouges de sang
Noir
Et de sa voix de maître
«Hé boy, un berger, une serviette, de l’eau!»
Défi à la force [3]
Toi qui plies, toi qui pleures
Toi qui meurs un jour sans savoir pourquoi
Toi qui luttes, qui veilles sur le repos de l’autre
Toi qui ne regardes plus avec le rire dans les yeux
Toi mon frère au visage de peur et d’angoisse
Relève toi et crie : Non.
Arrivati a Mondovì esco dalla stazione. La piazza, a parte un paio di taxisti, è deserta.
Dalle imposte della sede di MondoQui filtra un po’ di luce. Probabilmente c’è una riunione. Decido di fare un salto a salutare Claudio, Patrizia ed altri che è un po’ di tempo che non vedo.
Busso ed entro.
«Permesso?..».
La stanza è vuota.
«Forse sono usciti dal retro» penso.
Sulla scrivania alcuni fogli sparsi parlano di rifugiati, di lavori fatti e da fare.
«Buonasera signore».
Un saluto alle mie spalle mi fa trasalire, mi volto e incrocio lo sguardo sorridente, e un po’ divertito per la mia reazione, di una signora nera seduta contro il termosifone sotto il ritratto di Franco Centro.
«Da quando il pittore Ezio Massera ha dipinto il ritratto di questo giovane partigiano, ogni tanto mi piace venirmi a sedere qui quando non c’è nessuno», mi dice, invitandomi con un cenno a sedermi di fronte a lei. «Mi scusi se l’ho spaventato, ma avevo voglia di parlare con qualcuno e lei è entrato… ma permetta che mi presenti. Mi chiamo Rosa, Rosa Parks».
Rosa Louise McCauley inizia a raccontare episodi della sua infanzia: nata a Tuskegee, in Alabama il 4 febbraio 1913, dopo la separazione dei suoi genitori va a vivere con i nonni materni a Pine Level.
Si commuove mentre le riaffiora alla mente la figura del nonno che affronta con un vecchio fucile alcuni membri del Ku Klux Klan che incappucciati marciavano intorno alla sua casa per intimorirlo; e le lunghe marce fatte da lei e dagli altri bambini neri per raggiungere la loro scuola, una scuola per soli neri ovviamente, mentre i bambini bianchi avevano lo scuolabus e la loro scuola era bella, moderna con ogni attrezzatura didattica; altro che le aule dei neri con solamente i banchi.
L’incontro, e l’amore, con Raymond Parks è un momento importante nella vita di Rosa. Raymond è un militante della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People).
Rosa e Raymond si sposano nel dicembre del 1932 e vanno a vivere a Montgomery. Qui Rosa affianca il marito nella militanza per i diritti civili e lavora come sarta in un grande laboratorio tessile.
«Ci sono giorni in cui, anche senza un chiaro motivo, non riesci più a sopportare quello che hai sopportato per tanti anni fino al giorno prima», riprende a dire Rosa. «Il primo dicembre 1955 era apparentemente un giorno come un altro; il primo dicembre di sessant’anni fa. Ero andata a lavorare e alla sera avevo preso il bus per tornare a casa. Ero stanca e mi sono seduta nel primo posto libero che ho trovato. Non ho nemmeno guardato se fosse un posto riservato a neri o a bianchi. Mi sono semplicemente seduta. Erano da poco passate le sei di sera quando, alla fermata di fronte all’Empire Theatre salirono parecchi bianchi ed alcuni di loro non trovarono posti a sedere. L’autista del bus se ne accorse e allora mi si avvicinò e mi invitò ad alzarmi e a lasciare il posto ad un bianco. Io rifiutai. Caro signore, ero stanca, avevo fame, avevo voglia di tornare a casa, ma ero ancora più stanca di accettare questi quotidiani soprusi, queste umiliazioni. È per questo che rifiutai, costasse quel che costasse».
L’autista con l’appoggio dei passeggeri bianchi fermava quindi il bus e chiamava la polizia. Due agenti trassero in arresto Rosa Parks.
«Venni arrestata perché contravvenivo alla sezione n. 11 del capitolo sesto del Montgomery City Code che regolava la disposizione dei posti a sedere sui bus per i bianchi e per i neri», continua Rosa Parks. «Mentre i due agenti mi portavano negli uffici della polizia non avevo paura. Ricordo che ero fiera del mio gesto, lo avrei rifatto mille altre volte. Ero proprio stanca di essere umiliata, di vedere umiliati i miei fratelli. Devo dire che non immaginavo assolutamente che il mio gesto avrebbe dato inizio a quanto poi è successo. Del resto alcuni mesi prima, il 2 marzo, anche una ragazza quindicenne, Claudette Colvin, aveva opposto il mio stesso rifiuto ed era stata arrestata, ma non ci furono conseguenze».
Uno dei leader della NAACP, Edgar Nixon, però non volle che questo secondo arresto passasse inosservato. Già nel caso della Colvin il movimento si era trovato impreparato. Ora era tempo di agire.
«La stessa sera del primo dicembre vennero Edgar Nixon e l’avvocato Clifford Durr negli uffici della polizia e mi fecero rilasciare», racconta Rosa Parks. «Nella notte poi alcuni giovani militanti della NAACP prepararono un volantino che diffusero il giorno seguente. Ero emozionata, eccitata per quanto stava accadendo così in fretta. Si pensava di boicottare i bus. Lunedì 5 dicembre, il giorno in cui dovevo presentarmi in tribunale, tutti i neri si sarebbero rifiutati di usare i bus. Era un avvenimento eccezionale. Edgar Nixon chiamò anche a dare una mano per l’organizzazione del boicottaggio un giovane pastore, Martin Luther King».
Martin Luther King la sera di lunedì 5 dicembre, presso la chiesa battista in Holt Street a Montgomery, di fronte ad una folla di circa cinquemila persone tenne un discorso, “We are here this evening for serious business” (“Siamo qui stasera per una questione grave“, traduzione di Silvia Pio), in cui ribadendo l’importanza di condurre una lotta nonviolenta, invitava a non fermarsi ad un solo giorno di boicottaggio ma di andare avanti fino ad ottenere giustizia.
Il boicottaggio durò 381 giorni; giorni in cui migliaia di neri (inizialmente 17 mila diventati oltre 40 mila nel giro di poche settimane) andavano a lavorare a piedi anche se, come ricorda Rosa Parks, il posto di lavoro era a dieci miglia di distanza.
«Hanno cercato in tutti i modi di intimorirci», prosegue Rosa Parks. «Hanno arrestato i leader, anche se poi dovevano rilasciarli; hanno picchiato chi andava a piedi; hanno incendiato le nostre chiese e le nostre case, anche quella di Nixon, ma alla fine abbiamo vinto»
La Corte Suprema degli Usa il 13 novembre 1956 dichiarava incostituzionale il regime di separazione razziale sui bus.
«Il 20 dicembre 1956 salimmo di nuovo sui bus», dice sorridendo Rosa Parks. «Di chilometri per la nostra libertà ne avevamo fatti abbastanza. La ringrazio, caro signore, per la pazienza con cui mi ha ascoltato e la prego, racconti quanto le ho detto a Claudio, a Patrizia, a Francesco, a Nadia, a Imer, a Davide, a Minilik, a Bader, a Noemi, ad Abdul, a Pietro e tutti i militanti di MondoQui che lavorano per un mondo solidale, giusto e libero da pregiudizi razziali. Dica loro che a volte basta un piccolo gesto come stare seduti quando ti ordinano ingiustamente di alzarti, per iniziare a cambiare il mondo».
«In quei 381 giorni di camminate si sono formati molti leader neri per i diritti civili», continua Rosa Parks; «anche il reverendo King ha iniziato dalle lotte nonviolente di Montgomery; è da lì che poco per volta si è formato quel sogno (I HAVE A DREAM) di cui ha parlato poi il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington».
Con un sorriso Rosa Parks mi saluta ed esce.
Esco anch’io.
La piazza della stazione, a parte un paio di taxisti, è deserta.
http://www.montgomeryboycott.com/
Note.
[1] David Diop (Bordeaux – France 1927 – Dakar-Senegal 1960) poeta e militante anticolonialista. Fu allievo di Leopold Sedar Senghor.
[2] Il tempo del martirio.
Il bianco uccise mio padre / mio padre era fiero / Il bianco violentò mia madre / mia madre era bella / Il bianco piegò mio fratello sotto il sole delle strade / mio fratello era forte / Il bianco mi mostrò / le mani rosse di sangue / nero / e con voce da padrone: / «Ehji ragazzo, una bacinella, una salvietta e dell’acqua». (da Leopizzi Maria Grazia – a cura, Nuova poesia negra, Bologna, 1969, pag. 193).
[3] Sfida alla forza.
Tu che sei curvo tu che piangi / tu che muori un giorno come questo senza sapere perché / tu che lotti che vegli per il riposo dell’Altro / tu che non guardi più con occhi ridenti / tu fratello mio dal volto di paura e d’angoscia / rialzati e grida: No! (ibidem, pag. 196).