Ventunesima puntata - Il difensore, l’arabo
FRANCESCO PICCO
I due fraticelli sudditi del Re Sardo giunsero così a Latakia, con i soldi del Re di Francia. Ma molte e lunghe peripezie li attendevano ancora al loro primo approdo in terra ottomana: non ne parleremo. Troppo squallidi e tristi furono gli episodi che le cronache del tempo ci raccontano su di loro – e su frate Giovanni Battista in particolare. Diremo solo che le cronache, tutte, sbagliano: e il lurido preposto della dogana ottomana che cercò di abusare di uno dei due frati non rivolse le proprie attenzioni sessuali a frate Giovanni Battista – come erroneamente viene tramandato dai biografi settecenteschi– bensì al suo compagno. Attratto dall’aspetto adolescenziale e quasi femmineo del pallido Vittorio Amedeo, l’uom benignamente e cristianamente respinto nelle sue pesanti profferte sessuali non volle darsi pace. Così accusò il povero frate Vittorio Amedeo davanti al cadì della città. E lo accusò ben pesantemente, dicendo di avergli sentito bestemmiare il sacro nome del Profeta – su di Lui sia la pace. Il cadì non volle credere a una così infamante menzogna e istruì un vero e proprio processo: durante il quale, fu l’improvvisata, imprevista e stupefacente oratoria araba di Giovanni Battista a capovolgere la situazione. Al termine del processo, infatti, il preposito accusatore si trovò a sua volta accusato, anzi colpevole, anzi condannato – e padre Giovanni Battista scoprì quasi suo malgrado di avere acquisito una nuova dote, di cui nessuno lo credeva capace. Il lungo amorevole studio della lingua araba era stato per lui più fruttuoso di quanto mai avrebbe potuto immaginare: la folla araba intervenuta al processo era rimasta rapita, estasiata, entusiasticamente pronta a seguirlo lungo le strade concettuali che il suo sapiente uso della lingua coranica sapeva aprire. Lui stesso si stupì di parlare così bene quella difficile lingua straniera: ma nel comunicare il suo stupore usava l’arabo, e più lo usava più ne veniva rapito, più lo trovava bello, duttile, ricco ed affascinante, divino quasi come quel Corano che aveva finito con l’imparare sostanzialmente a memoria. Lo stesso Vittorio Amedeo non credeva alle proprie orecchie. Aveva ormai imparato a conoscere il suo compagno di viaggio, lo aveva giudicato più volte un pover uomo mediocre – e come medico e come frate – sicché si era chiesto più volte cos’avesse in comune quel giovane frate ingenuo e impulsivo con il vecchio taumaturgo che sarebbe diventato. Ora lo aveva capito: ma questa comprensione, anziché tranquillizzarlo, gli instillò nell’anima un senso di forte inquietudine. Dove (e soprattutto come) aveva potuto diventare così sapiente nell’uso dell’arabo? E come avrebbe usato, imprevedibile com’era, questo talento imprevisto e prezioso?
Con queste domande nel cuore, felice per la conclusione della boccaccesca vicenda, frate Vittorio Amedeo si avviò con frate Giovanni Battista alla volta di Aleppo, dove i due trascorsero cinque mesi nel convento dei Francescani. Cinque mesi di calma, preghiera, digiuno. Ma, soprattutto per Giovanni Battista, di quotidiana immersione nelle pieghe più recondite della lingua araba – e delle sue meraviglie. Un’immersione da cui sarebbe uscito diverso – ma quanto diverso, nemmeno lui lo poteva immaginare…
(Continua)
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Illustrazione di Franco Blandino