ANTONIO RIMEDIO
L’empirismo è una costante che ha attraversato l’intero percorso storico del pensiero occidentale: già nell’antica Grecia il richiamo di Aristotele all’esperienza inaugura un percorso alternativo all’idealismo di Platone. Nell’età moderna l’empirismo si qualifica come una vera e propria corrente di pensiero, che si accompagna alla Rivoluzione scientifica di Galileo e Newton, e incentiva nell’Inghilterra del Sei-Settecento il sorgere delle scienze sperimentali.
Il problema della conoscenza
L’Empirismo assume l’esperienza come fonte della conoscenza: su questo assunto di base sono accomunati in una stessa corrente di pensiero tre filosofi – John Locke, George Berkeley e David Hume – che si rendono comunque portatori di istanze diverse.
Sono le riflessioni di Newton, relative al metodo induttivo, che guidano l’interpretazione dei processi della conoscenza anche in Locke e Hume. Occorre, tuttavia, tener conto di una differenza di fondo: nella scienza l’esperienza è intesa in funzione della conferma di una teoria, sia come iniziale raccolta di dati empirici, sia come esperimento che mette alla prova la validità di una legge; invece, in filosofia il ricorso all’esperienza riveste una funzione “critica”, ovvero ha lo scopo di ripulire la mente umana dalle astrazioni e dalle false nozioni presenti nella conoscenza e nel linguaggio (i falsi idoli di cui già parlava il filosofo Francesco Bacone, 1561-1626).
Significativa è, a tal proposito, la metafora utilizzata da Locke, che riserva a sé il compito non di costruire nuovi sistemi filosofici sulle rovine dei sistemi precedenti (vedi ad es. Cartesio), bensì quello di ripulire il terreno dei «detriti che s’incontrano sul cammino della conoscenza».
In un secolo che produce maestri quali l’illustre Huygens e l’incomparabile Newton, oltre qualcun altro della stessa levatura, è già un’ambizione sufficiente quella di impiegarsi in qualità di semplice operaio a sgombrare e ripulire un po’ di terreno, e a gettar da parte un poco dei detriti che s’incontrano sul cammino della conoscenza, i cui progressi nel mondo sarebbero stati senza dubbio più sensibili se le ricerche di tante persone, ricche di spirito e laboriose, non fossero state ingombrate da un impiego sapiente ma frivolo di termini barbari, affettati o inintelligibili, che sono stati introdotti nelle scienze e di cui si è fatta una specie di arte, a tal punto che la filosofia, la quale altro non è se non la vera conoscenza delle cose, è stata giudicata indegna o inadatta ad essere ammessa nella conversazione delle persone cortesi e bene educate. Da troppo tempo ormai l’abuso del linguaggio, e certi modi di dire vaghi e privi di senso, passano per dei misteri del sapere.[1]
Non deve sfuggire il riferimento ai «termini barbari, affettati o inintelligibili, che sono stati introdotti nelle scienze». Questa prospettiva è del tutto nuova, direi dirompente, nella storia del pensiero ed è destinata a produrre risultati significativi soprattutto nel corso del Novecento, quando l’analisi del linguaggio diventerà centrale nella corrente della filosofia “analitica”.
Un ulteriore elemento di novità merita di essere evidenziato: mentre la scienza si occupa di cogliere le leggi di funzionamento dei fenomeni della realtà, la filosofia indaga sui processi mentali che portano ad organizzare in molteplici modi le nozioni elementari fornite dall’esperienza: le sensazioni si imprimono nella mente come idee semplici, che vengono poi elaborate nelle idee complesse (ad es. le idee delle diverse realtà) e nelle idee astratte (i concetti). In altri termini, la conoscenza ha inizio dall’esperienza, ma viene poi governata secondo modalità che sono proprie della mente. Questa prospettiva darà adito in Kant (1724-1804) alla «rivoluzione copernicana»: nel processo di conoscenza la ragione non si adegua alla realtà, bensì la realtà è strutturata in base alle forme, ovvero ai modi di funzionare della mente umana.
La filosofia di Locke si configura come una sorta di “chimica delle idee”, con specifico riferimento alla nascente chimica degli elementi, che ha come suo fondatore Robert Boyle (1627-1691), maestro e amico di Locke. La chimica mostra che l’acqua non è una “sostanza”, ma è una molecola riconducibile a due elementi: idrogeno e ossigeno (H2O); questi stessi elementi, diversamente combinati, potrebbero dare origine ad altre “sostanze”. La conoscenza umana dei fenomeni naturali è, quindi, una “costruzione” della mente, incapace di afferrare le “essenze” dei fenomeni, quindi di attingere una “verità” che sarebbe accessibile solo alla Mente divina. Ciò significa che le leggi della scienza rimangono solo delle “ipotesi”.
E, quanto meno, dovremmo aver cura che il nome di principi non ci inganni, né ci si imponga, facendoci accogliere come verità incontestabile quella che, nel miglior caso, non è che una congettura dubitabilissima: quali sono la maggior parte delle ipotesi della filosofia naturale (e quasi stavo per dire tutte).[2]
Locke tributa alla scienza un sincero elogio per il servizio reso all’umanità con le sue nuove scoperte, tuttavia, a differenza di Newton, considera le leggi della scienza «congetture dubitabilissime» e con la parentesi, «quasi stavo per dire tutte», ha il coraggio di trarre una conclusione del tutto coerente con le basi empiristiche della sua dottrina. Con acuta lungimiranza Locke intravede nella scienza il rischio di dogmatismo.
Il punto di vista di Hume è ancora più radicale, perché lega i processi che caratterizzano il funzionamento dell’intelligenza umana e, quindi, strutturano i dati di esperienza (es. il rapporto di causa-effetto) a tendenze associative di tipo naturale-spontaneo. Egli parla di «abitudini mentali» e di «credenze» che portano la mente a sviluppare nozioni che al massimo possono aspirare alla probabilità.
«La filosofia contenuta in questo libro è molto scettica e tende a darci una nozione delle imperfezioni e dei ristretti limiti in cui si muove l’intelletto umano».[3]
Quella dell’Empirismo è dunque una filosofia della conoscenza che non porta alla verità, perché riscopre appunto i «ristretti limiti in cui si muove l’intelletto umano». Non è un caso che nell’epistemologia del Novecento siano state rivalutate particolarmente le critiche di Hume all’induzione. La filosofia assume una veste del tutto sconosciuta nel passato, perché la verità è stata l’obiettivo di tutte le filosofie che hanno preceduto l’Empirismo e delle filosofie che lo hanno seguito, almeno fino al Novecento, allorquando la verità si svela come un mito inarrivabile, e allora si dà importanza al metodo per arrivare a conoscenze quanto più valide possibile, ma sempre storicamente connotate.
Il pensiero politico
Nel campo della politica le posizioni di Locke e Hume divergono, anche perché fanno riferimento a vissuti storici diversi. Locke (1632-1704) vive in prima persona il periodo dei grandi rivolgimenti rivoluzionari che caratterizzano l’Inghilterra nel Seicento e, in particolare, si rende sostenitore della “Gloriosa Rivoluzione” (1688-89); egli guarda in avanti verso una società inglese in rapida ascesa economica, caratterizzata dall’affermazione della gentry (nuova classe nobiliare) e della borghesia. Molto più disincantata e prosaica è la visione di Hume (1711-1776), che si accosta agli eventi della storia inglese nella prospettiva dello storico, propenso ad accogliere la “verità effettuale” che emerge dall’analisi degli eventi. Di contro alla visione liberale di Locke, Hume esprime una indubbia posizione conservatrice.
La novità del pensiero politico di Locke sta nell’aver individuato, nell’ambito della legge di natura, alcuni diritti inalienabili, costitutivi dell’essere umano in quanto tale: il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Questi diritti sono naturali, assoluti, infusi originariamente da Dio, ma validi «anche se Dio non dovesse esistere». Per garantire il rispetto di questi diritti si viene a costituire l’organizzazione sociale ovvero lo Stato di diritto. La società non è un’associazione “naturale”, guidata da un capo carismatico di elezione divina o imposto dalla legge della discendenza, ma un’associazione che si costituisce in base ad un contratto tra cittadini, portatori di eguali diritti originari e, quindi, anche di doveri, legati al riconoscimento e al rispetto dei diritti altrui. Tutto ciò impone precisi limiti al potere regio, il cui obiettivo deve essere quello di rendere possibile un ordine sociale finalizzato a garantire il rispetto dei diritti di natura. In Locke trova la sua prima giustificazione teorica la monarchia costituzionale, ovvero una monarchia limitata dal potere di un Parlamento che si rende espressione della voce del popolo.
Locke auspica una nuova società fondata sull’intraprendenza personale, sull’etica del lavoro, come momento di affermazione del singolo e, per riflesso, dell’intera comunità. Si tratta di una concezione visionaria, in quanto basata sul rispetto di diritti “assoluti”, ma che al contempo si fa carico delle concrete esigenze di libertà economico-commerciale del nuovo “popolo” (gentry e nascente borghesia), vero interprete del progresso della nazione. Il pensiero politico di Locke suggerisce un ulteriore elemento di grande attualità: l’organizzazione della società deve essere finalizzata alla realizzazione della persona e non viceversa.
Ben diversa è la prospettiva di Hume, il cui pensiero non si rende portatore di una nuova visione della politica, ma si limita a considerare con staccato pessimismo i fatti accaduti. Nel riflettere sull’origine della società, esprime scetticismo riguardo alle tesi del giusnaturalismo e del contrattualismo. Gli istinti primari indurrebbero l’uomo a una libertà illimitata o alla ricerca del predominio sugli altri, se non fossero frenati e trattenuti dall’intervento della riflessione, che li rende consapevoli circa i rischi di una tale licenza per l’intera società. Così, prima ancora del costituirsi di un governo civile, gli uomini hanno inventato tre leggi fondamentali, dette leggi di natura a motivo della loro utilità e assoluta necessità per la convivenza sociale: 1) stabilità del possesso; 2) trasferimento della proprietà per consenso; 3) mantenimento delle promesse. Pur imponendo limiti alle passioni, queste leggi sono il prodotto delle passioni stesse e di esse costituiscono una «via artificiale e più raffinata di soddisfazione», poiché gli uomini acconsentono a rispettare gli interessi altrui solo per ottenere maggiori vantaggi per sé.[4]
Il contrattualismo è certamente una teoria politica affascinante, ma è anche quella che dà meno ragione della verità effettuale degli eventi.
Non intendo qui escludere che il consenso popolare sia uno dei giusti fondamenti del governo. Quando si verifica è sicuramente il migliore e il più sacro di tutti. Io sostengo soltanto che molto raramente esso si è in qualche misura espresso e quasi mai nella sua pienezza e che, perciò, si deve anche ammettere qualche altro fondamento del governo. […] La ragione, la storia e l’esperienza ci mostrano che tutte le società politiche hanno avuto un’origine molto meno precisa e regolare; e, se si volesse precisare il momento in cui il consenso del popolo è stato meno considerato nei pubblici rapporti, lo si dovrebbe proprio situare all’atto della fondazione di un nuovo governo. In una costituzione organizzata, le inclinazioni degli uomini sono spesso seguite, ma, durante la furia delle rivoluzioni, delle conquiste e dei pubblici sconvolgimenti, la forza militare o l’abilità politica normalmente decidono la disputa.[5]
Le parole di Hume rasentano il cinismo. Usurpazione, conquista, uso della violenza o della forza militare, abilità nel tessere complotti e nel mettersi a capo delle sedizioni di massa: questi sono, dunque, i mezzi attraverso i quali gli uomini decidono le sorti delle nazioni nei momenti decisivi.
Il pensiero religioso
La tolleranza è la problematica di fondo nella quale convergono le ricerche sulla religione sia di Locke che di Hume, concordi nella decisa condanna della superstizione religiosa, nel rifiuto di ogni fanatismo settario e di ogni uso dogmatico della ragione. Ma le posizioni di entrambi si differenziano su un punto significativo. Locke evidenzia lo stretto legame tra rivelazione e ragione, che non possono entrare in contrasto. Se è vero, infatti, che le verità rivelate travalicano i ristretti confini della ragione, appartiene sempre alla ragione il compito di giudicare circa l’autenticità della rivelazione stessa e circa il significato delle parole con le quali è stata trasmessa. La ragione non può spiegare la rivelazione, ma deve fungere da argine rispetto alla superstizione e da guida nell’interpretazione dei testi sacri. Per Hume, invece, la religione è fondamentalmente il frutto delle passioni e dei desideri umani, la concretizzazione visionaria delle tendenze irrazionali che albergano negli istinti.
Locke è da ricordare come il grande filosofo della tolleranza, colui che anticipa le istanze dell’Illuminismo e l’affermazione positiva di quei valori che nel mondo contemporaneo si configurano all’insegna del transculturalismo e della solidarietà. Dopo alcune oscillazioni, arriva a teorizzare la fondamentale distinzione tra prerogative dello Stato e della Chiesa, distinzione che ha segnato la via maestra per tutto il pensiero politico successivo. La giurisdizione del magistrato deve rimanere circoscritta alla protezione dei beni civili e della pace tra i cittadini, e se qualcuno trasgredisce le leggi, deve intervenire anche con la forza per frenare il disordine e le passioni individuali. Ma tale giurisdizione non deve in alcun modo essere estesa alla salvezza delle anime.
Vediamo ora cos’è la Chiesa. A mio modo di vedere, la Chiesa è una libera società di uomini che si uniscono volontariamente per adorare pubblicamente Dio nel modo che credono gradito alla divinità, per ottenere la salvezza dell’anima. Dico che è una società libera e volontaria. Nessuno nasce membro di una chiesa; altrimenti ciascuno erediterebbe, insieme alle terre, la religione dei padri e degli antenati, e ciascuno sarebbe debitore della fede ai suoi natali: che è la cosa più assurda che si possa immaginare. Le cose, dunque, stanno così. L’uomo, senza che la natura lo vincoli ad alcuna chiesa, né lo assegni ad alcuna setta, si unisce spontaneamente a quella società in cui ritiene di aver trovato la vera religione, e un culto gradito a Dio. Sicché la speranza di salvezza che vi trova, come è l’unica ragione per entrare nella chiesa, così, allo stesso modo, è anche il criterio per rimanervi.[6]
Nel dichiarare superflua l’organizzazione gerarchica di una Chiesa, Locke richiama il concetto evangelico di «assemblea», che si riunisce liberamente e spontaneamente nel nome di Cristo. Il mondo cristiano è costituito da una molteplicità di Chiese e nessuna di esse può ritenersi la vera, arrogandosi il diritto di farsi interprete unica della rivelazione.
Che la vera Chiesa di Cristo debba perseguitare o non dar tregua ad altri, o costringerli con la violenza, col ferro e con le fiamme ad abbracciare la sua fede e i suoi dogmi, non ricordo di averlo letto in alcun luogo del Nuovo Testamento.[7]
Locke tiene per fermo che dalla tolleranza debbano essere esclusi i cattolici e gli atei. Fa meraviglia che proprio lui, il principale teorico del pensiero liberale europeo, abbia ammesso due eccezioni così vistose. Su queste esclusioni non ammette incertezze, perché cattolici e atei, sebbene in modi diversi, sono di ostacolo alla pacifica convivenza sociale. Infatti, il vincolo che lega i cittadini si materializza nel riconoscimento di un sovrano comune, che i cattolici non sono disposti ad accettare, perché ritengono di avere come sovrano il papa, al quale attribuiscono il diritto di deporre i sovrani dei singoli Stati. In relazione agli eventi storici che caratterizzano l’Inghilterra nel corso del Seicento, il Cattolicesimo è considerato in stretta connessione con la politica assolutistica dei sovrani Stuart. Gli atei sono esclusi dalla tolleranza, perché la negazione di Dio comporta la negazione anche di quella legge di natura della quale Dio è fonte e garanzia e nella quale trova legittimazione lo stesso contratto sociale. Se non si crede in Dio, svanisce il vincolo di solidarietà che tiene insieme la società.
Hume esamina il problema dell’origine delle religioni in chiave decisamente antropologica, individuando l’emergere del fenomeno religioso a partire dai bisogni elementari degli uomini: le prime rappresentazioni religiose non scaturiscono dalla contemplazione delle opere della natura, ma dalle preoccupazioni per gli eventi della vita, dalle speranze e dai timori che incessantemente agitano la mente umana. Nel supporre che ogni evento sia governato da qualche potere intelligente, gli antichi popoli politeisti attribuiscono i diversi ambiti della vita e dell’attività umana alla giurisdizione di una divinità. L’indagine di Hume si pone su di un livello psicologico: le passioni, i sentimenti, le paure, le ansie, i desideri inducono gli uomini a creare le divinità e a immaginarle, a seconda delle necessità, vicine alla fragilità umana oppure lontane, onnipotenti e misteriose.
Agitato da speranze e timori di questa natura – specialmente dai timori – l’uomo scruta con curiosità tremebonda il corso delle cause future, ed esamina gli eventi vari e contraddittori della vita umana. Ed in questa scena confusa scorge, con occhi ancor più confusi e attoniti, le prime oscure tracce della divinità.[8]
Originata dagli istinti e dalle passioni, la religione non può essere né ragionevole né razionale, perché subordina la ragione agli istinti più bassi. Hume non manca di manifestare preferenze per le religioni politeiste, che si sono caratterizzate per una maggiore tolleranza. Il Cristianesimo non è affatto ragionevole, come Locke ha affermato: infatti, ogniqualvolta al suo interno è sorta una controversia, ha sempre prevalso la posizione più contraria al senso comune. La tolleranza è per Hume una sorta di ideale filosofico, perché solo i filosofi sono alieni da superstizioni e non si lasciano condizionare dalle passioni. Per questa ragione sono considerati dai fanatici come un grave pericolo: «E i roghi che bruciarono gli eretici gioveranno a sterminare i filosofi».[9]
[1] J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana, trad. it. di C. Pellizzi, Laterza, Roma-Bari 1994, «Epistola al lettore», pp. 11-12.
[2] Ivi, pp. 734-735.
[3] D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana (1740), trad. it. in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1987, vol. IV, p. 17.
[4] D. Hume, Trattato sulla natura umana (1739-1740), trad. it. in Opere filosofiche, cit., vol. I, pp. 566 sg.
[5] D. Hume, Sul contratto originale (1748), trad. it. in Opere filosofiche, cit., vol. III, pp.472-476.
[6] J. Locke, Lettera sulla tolleranza (1689), trad. it. in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, UTET, Torino 2005, pp. 138-139.
[7] Ivi, pp. 140-141.
[8] D. Hume, Storia naturale della religione (1757), trad. it. in Opere filosofiche, cit., vol. IV, pp. 58-59.
[9] Ivi, p. 89.
Abstract da ANTONIO RIMEDIO, L’EMPIRISMO INGLESE, Diogene Multimedia, Bologna 2015.
Antonio Rimedio (n. 1951) è stato docente di Filosofia e Storia nei Licei, Preside incaricato e Dirigente scolastico. Nella fase iniziale della sua ricerca ha pubblicato articoli sul poeta tedesco Friedrich Hölderlin e su Friedrich Nietzsche. La pratica dell’insegnamento lo ha stimolato ad approfondire aspetti della didattica della filosofia attraverso la partecipazione al gruppo di ricerca ministeriale “La città dei filosofi”, che ha fatto capo al Liceo “Ariosto” di Ferrara.
Entrato nel gruppo di ricerca Inter-IRSSAE sulla didattica breve, ha collaborato alle due pubblicazioni: Filosofia e didattica breve, a cura di T. Guerzoni e F. Ferrari, IRSSAE Emilia-Romagna, Bologna 1997; La didattica della filosofia, a cura di A. Piccolo, IRSSAE Piemonte, Dossier – giugno 2002
Pubblicazioni a carattere filosofico: L’empirismo inglese, Ed. Polaris, Faenza 1998; L’empirismo inglese, Diogene Multimedia, Bologna 2015; La filosofia postmoderna, Diogene Multimedia, Bologna 2015.
Negli ultimi anni è approdato alla bioetica, conducendo approfondimenti sui temi del fine vita in alcuni articoli apparsi sul periodico nazionale “Bioetica. Rivista Interdisciplinare”. Attualmente ricopre l’incarico di presidente del Comitato etico che fa capo all’Azienda Ospedaliera “S. Croce e Carle” di Cuneo e in questa veste collabora ad attività sul territorio inerenti l’etica medica.