LORENZO BARBERIS
La giornata della memoria cade il 27 gennaio, giorno opportuno a ricordare la liberazione del campo di Auschwitz da parte delle truppe russe. La celebrazione è ufficiale a livello mondiale dal 2005, nel sessantennale, stabilita ufficialmente dalle Nazioni Unite (sorte proprio per contrastare la barbarie nazista).
Scolasticamente, è un periodo di transizione tra primo e secondo quadrimestre (quest’anno si è chiuso il 25, due giorni prima), e questo significa che in terza, normalmente, ho concluso la lettura dell’Inferno dantesco (cui dedico il primo quadrimestre; Purgatorio e Paradiso nel secondo).
Per cui, solitamente, alle mie terze propongo il capitolo XI di “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
*
Primo Levi, Se questo è un uomo, Capitolo XI
… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.
… Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: «Quando…»
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica».
E dopo «Quando »? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nomasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «… la pièta Del vecchio padre, né ‘l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto?
… Ma misi me per l’ alto mare aperto.
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
«Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
Acciò che l’uom più oltre non si metta.
«Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io sì acuti…
e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «… Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
– Ça ne fait rien, vas-y tout de même.
… Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «… la terra lagrimosa diede vento…» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…
Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben -. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et navets. – Káposzta és répak.
Infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso.
*
Tutto “Se questo è un uomo” è pervaso di spirito dantesco, faccio notare. Il campo di Fossoli come limbo, nell’incipit (che di solito leggo in prima) notiamo come il soldato che controlla gli ebrei sul camion è paragonato a Caronte; un Caronte privo di grandezza, viscido e untuoso, che cerca di procurarsi gli oggetti di valore dei dannati senza colpa che trasporta (la banalità del male).
La porta del lager è luogo significativo quanto la porta degli inferi, invece di un onesto “lasciate ogni speranza voi che ch’entrate” quel suo terribile “Arbeit Macht Frei”, “il lavoro rende liberi” che ovviamente ha senso di rovesciamento: i nazisti rovesciano il principio rinascimentale dell’Homo Faber, l’uomo libero tramite il suo lavoro, stabilendolo come la dannazione delle razze inferiori. La “B” è rovesciata non a caso: il fabbro ebraico che ha edificato il portale ha rovesciato la B in segno di dissenso.
Dietro quella porta, nel cuore di tenebra del Novecento, vi è il rovesciamento del contrappasso dantesco, che punisce il peccato con precisione geometrica: vi è il gusto dell’arbitrio più assoluto, il regno del non-senso come schernimento delle “razze inferiori”.
Ma, sul finale, Levi ritrova il senso, in Ulisse che diviene la chiave per l’uscita dall’universo concentrazionario.
*
Il testo originario, ovviamente, è questo, il canto XXVI. Levi ne sceglie passi sapientemente calibrati.
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
La prima parte la riporta correttamente, è quella che introduce il discorso di Ulisse. Ma poi, venuto al discorso, ne perde dei pezzi, la memoria è imperfetta, il lager fa sentire la sua forza demoniaca.
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
Qui Levi ricorda solo l’ultimo verso. Si parla di Gaeta, ma – tratteggiando solo Enea – evoca il sogno della grandezza di Roma, sinistramente lordata per sempre dagli orrori del fascismo.
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
Qui Levi mantiene quasi tutto. Perde la dolcezza del figlio, che ancora non ha, venticinquenne, nel Lager. Ricorda il padre, e la donna amata.
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
La rinvendicazione della grandezza di Ulisse avviene escludendo una terzina, e tenendo della seconda il “mare aperto” (subito evocato come simbolico, in Levi) e la “compagnia picciola” dei fratelli nell’impresa terribile. Continua il parallelo col lager: se si tiene il Mare (citando Michelangelo, in un’opera successiva, Levi parlerà de “I sommersi e i salvati” nella tremenda palingenesi del Diluvio Universale), si abbandona la nave, per evitare una metafora troppo barocca.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
Levi, con grande precisione critica (nello stile solo all’apparenza frammentario e dimesso) mette qui in evidenza il parallelo tra quel “misi me” e il “si metta” qui evocato: il divieto cosmico pone le colonne d’Ercole poiché l’uomo, oltre di esse, non “si metta”: Ulisse, col suo “folle volo” (che anticipa quello di Dante, ma senza l’approvazione divina), “mise sé” oltre tale confine. Il parallelo con le Colonne d’Ercole diaboliche del lager appare possibile: dopo di quei cancelli, non esiste più l’Umano, ma Levi e i suoi compagni sono costretti a “mettere sé”, a porre sé stessi, restando uomini, nel Lager.
“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
Della “orazion picciola” Levi trattiene solo il passo celebre, il pilastro della civiltà occidentale moderna, potremmo dire, e il fatto che renda (in più sensi, chiarisce) i compagni di Ulisse “acuti”: nel desiderio di seguire tale precetto, ma anche acuti nella sua comprensione.
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Il monte del Purgatorio ricorda a Levi i monti delle sue Alpi, viste da Torino.
Un parallelo domestico che rimanda alla loro irraggiungibilità (nel Lager, le Alpi gli sembrano impossibili da raggiungere come lo è il monte sacro per Ulisse).
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Qui Levi non ricorda, ma rammenta invece
“La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia”
Il passo del III canto dove Dante sviene quando sente da Caronte la profezia della sua salvezza (“più lieve legno si convien ti porti”): andrà in Purgatorio, non all’Inferno. Tramite questo passaggio, Levi allude alla sua salvezza dal lager. Ma poi, riconosciutosi implicitamente “salvato” (e non, ahimé, del tutto), mostra i “Sommersi”, cancellati dalle acque che, per spietato ordine divino, si chiudono su di loro.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso»
La critica è divisa sul come leggere questa chiusa: ad essere cancellati sono i compagni di Levi, condannati dalla follia del superomismo nazista e da un Dio assente (il celebre e terribile “non c’è Dio dopo Auschwitz”); oppure i nazisti, distrutti dalla loro stessa follia?
La metafora dei “sommersi” e la coerenza del testo fa pensare ai compagni perduti; ma Levi non ricorda il testo, non sa saldare la storia al finale, e quindi, nella sua ricostruzione, la dannazione può anche colpire giustamente i malvagi, salvando gli innocenti.
E in fondo, il chiudere lasciando l’interpretazione aperta è espediente (altissimo) dantesco, in quel canto XXXIII che è la vera chiusa dell’inferno, nella disperazione e mostruosità abissale del Conte Ugolino (disumano agli inferi, o già nel suo inferno terreno?): “poscia, più che il dolor, poté il digiuno”.
Forse, quindi, Levi lascia il finale aperto, perché a decidere su chi il mare si richiuda spetta a noi.