LORENZO BARBERIS
Margutte rivista deve il suo nome al noto personaggio inventato da Luigi Pulci alla corte di Lorenzo de’ Medici, quell’ossimorico “gigante nano” simbolo del vitalismo del Rinascimento. Margutte è già carnascialesco di suo, nato alla corte di colui che ci diede, nella “Canzona di Bacco”, il più grande inno al carnevale (e al Rinascimento come un lieto carnevale, non privo della malinconia che è propria di ogni carnevale, con la bella giovinezza “che si fugge tuttavia” mentre già incombono le tetre quaresime dei Savonarola).
Non sorprende, quindi, che ci sia un Carnevale di Margutte: diverte che sia una poesia e, tra l’altro, una poesia moralistica che si apre nel segno del nostro eroe, citato con riprovazione.
La poesia è tratta da “Satirette morali e piacevoli” di uno dei tantissimi carneadi della letteratura italiana, tal Ergasto Acrivio. L’opera è del 1793 (nel 1794 appare una seconda versione riveduta), e se ne trovano numerose altre dell’autore citate qua e là: in gran parte però si tratta di rime d’occasione, scritte nella seconda metà del ’700, ma pienamente barocche nei salamelecchi da cortigiano sperticato: “Applausi poetici” per un predicatore, “Rime per la mirabil facondia” di un altro, “Plauso universale” in onore di un terzo e così via, non facendosi mancare i due canti de “La donna forte” in onore di una qualche nobildonna e una celebrazione per una monacazione (a questo punto, speriamo, forzata, per tenere fede al colore secentesco che si sta evocando).
L’anno delle Satirette, “morali e piacevoli” naturalmente, in modo oraziano (“Castigat ridendo mores”): ma in verità il tono sembra dire, con licenza parlando, che non c’è un cazzo da ridere.
Del resto l’anno è molto interessante, il 1793, l’anno del terrore: e se non sarà giunto fino all’orecchio del nostro Ergasto l’eco di Robespierre e della sua saettante ghigliottina, almeno di qualcosa dei rivolgimenti del 1789 avrà sentito anche lui. Ecco quindi che, ancora una volta, come all’età di Lorenzo de Medici, quel Carnevale è simbolo probabile di qualcosa più ampio, ed è fin troppo facile leggerci la “gran festa crudele” della Rivoluzione.
Le sestine di ottonari suonano subito famigliari e gioiose, ed è facile intuire il perché: sono il metro reso eterno da Sergio Tofano col suo eroe fumettistico: “Qui comincia l’avventura / del signor Bonaventura” (e adottato da tutto il protofumetto italico, dal capostipite, Attilio Mussino da Vernante, in poi).
Capiamo subito che, come detto, si va a parare a una lamentazione per la corruzione carnascialesca: tema che trattava anche il cattolicissimo “Risveglio cattolico” di Mondovì quando esecrava “Il carnevale di Satana” sotto le cui maschere si celava la massoneria (non senza qualche ragione, tra l’altro: a parte i toni ovviamente apocalittici). Subito interessante il “cattolicesimo” che si tramuta in “gentilesimo”, ovvero, il paganesimo, ma scritto in tono ebraico (forse non a caso: la pubblicistica cattolico-conservatrice dell’epoca vede lo zampino dell’ebraismo dietro alla rivoluzione francese).
Alcuni miei allievi apprezzerebbero quell’”anno” voce del verbo avere (ma con l’A accentata, ragazzi), che mostra come il caposaldo della correzione ortografica moderna (l’H uncinata che è divenuta il simbolo del grammar nazi italico, praticamente) è convenzione molto recente.
Si dorme fino a mezzogiorno e si crapula a tavola: e non solo il Giovin Signore de “Il Giorno”, criticato da Parini (Ergasto credo che a lui l’ozio lo concederebbe) ma “anche il povero è ghiottone”: che tempi, signora mia.
Le putte, cioè le fanciulle, sono guidate a vedere le oscene mascherate teatrali (poco Goldoni da quelle parti), e non diciamo in cosa si trasformano per Ergasto (ma è etimologico).
Dopo lo spettacolo, che con la sua lascivia favorisce l’avvicinarsi di Putte e Cascamorti (Galeotto fu il lazzo e chi lo scrisse) è il momento del Ballo, che fa rima con quell’”Enorme Fallo” che non sapremmo dire se sia autoparodistico (la satiretta qui accetta due interpretazioni possibili). Casuale, probabilmente, ma subito dopo Ergasto è recidivo parlando di come tutti “sian tocchi / di veleno” in quelle sale.
Quando ormai speriamo che il buon Ergasto passi dal Ballo alla tappa successiva, la camera da letto (il censore è il pornografo più raffinato) il nostro stacca sull’erudizione storica, dove spiega dottamente l’origine greca del carnevale dall’eroe greco Melampo (omonimo del cane da guardia fedifrago che appare in Pinocchio) e fa tutto un proficuo sdottoreggiamento dove emerge il carnevale come origine di ogni male, e l’ossessione per i già visti termini “Gentilesimo” ed “Enorme”,
In conclusione, si rispolvera un “Maomettano” (vero o simbolico?) che di recente ha fatto un “gran carnevale” in una reggia cristiana, ma, dopo tre giorni, invece di risuscitare è tornato “cenere alla cenere”. Il modo più semplice di sciogliere l’enigmatico finale è di ritenere Robespierre il Maomettano che ha messo a ferro e fuoco la reggia di Francia, mandando alla ghigliottina il 21 gennaio 1793 e, a ottobre, Maria Antonietta (che, ricordiamolo, non ha mai offerto offensive brioches). Ben presto verrà anche per lui il giorno della cenere, e infatti nel 1794 finirà a sua volta ghigliottinato.
Volendo, anche Margutte a suo modo è un Maomettano di origine (anche se presto si converte alla fede del Dio Gaster, il Ventre, la vera “grande eresia” sommersa del medioevo): e probabilmente la circolarità inizio-fine che così si crea è voluta.
Divertente che lo spirito dell’Illuminismo sia detto spirito Maomettano, accomunando tutti i nemici nell’Hydra a mille teste dell’eresia: sarà contento Charlie Hebdo. Divertente comunque lo stile compositivo, al di là del gustoso passatismo. Subito dopo il buon Ergasto celebra la Quaresima. Ma c’è ancora tempo: magari, quando sarà il momento, la celebreremo con lui.
(In copertina: “La maschera della Morte Rossa”, Laura Blengino 2016)