Quando le donne si misero a dipingere

SILVIA PAPI
Per le donne il mondo della pittura – ahinoi non solo quello – non è mai stato ospitale. Ciò nonostante le troviamo presenti, quasi indomito sottofondo, perlomeno dal cinquecento in avanti. Una donna, la scrittrice Anna Banti, (al secolo Lucia Lopresti, vissuta tra la fine dell’ottocento e buona parte del novecento) occupandosi anche di critica d’arte, si è presa molto a cuore l’arte al femminile. Per quelli delle edizioni Abscondita, nel 2011, è stato pubblicato un suo libretto molto gradevole, dal titolo: Quando anche le donne si misero a dipingere. Con tono leggero, ironico e mai superficiale, vi troviamo presentate dodici figure femminili che – a partire dalla metà del 1500 per finire con la prima parte del ‘900 – riuscirono a non rinunciare al loro essere artiste.

Ci piace proporre all’attenzione di chi ci segue questi scritti della Banti e lo facciamo con la prima artista, Sofonisba Anguissola, che nacque in quel di Cremona nel 1535.
Pittrice già da giovanissima, ebbe una capacità non comune quella di leggere in filigrana la vita di tutti i giorni e rendere evidente, nei suoi famosi ritratti, i moti dell’anima. Sofonisba e le sue sorelle sono le prime pittrici importanti dell’era moderna. Anzi, le prime in assoluto.

«Siamo agli inizi del Cinquecento: gente laboriosa piena di utili iniziative, famiglie benestanti, dignitose, ma soprattutto molto severe per quel che riguardava i costumi e anche i buoni studi. Non aveva dubbi sull’educazione della prole, per esempio, il nobiluomo Amilcare Anguisciola, maturo gentiluomo, quando gli nascevano, l’una dopo l’altra, sei, dico sei, femminuccie in attesa del maschio che finalmente venne e si chiamò Asdrubale. (…) egli rimediò a questa invasione di bambinelle con un programma ben preciso, già annunciato da nomi eroici: Sofonisba, Minerva, Europa…(…) probabilmente le piccole Anguisciola non giocavano affatto, sapendo bene di dover studiare pittura, musica, letteratura, scienze (…) L’esperimento del signor Amilcare riuscì specialmente per quel che riguardava la pittura.

(…) Anche Sofonisba aveva capito molte cose: che, innanzitutto, le conveniva figurare come una damigella che dipinge, più che come una pittrice di mestiere. Inoltre che la sua bravura nel far ritratti valeva una fortuna. Come i nostri contemporanei sono instancabili fotografi sfornando autoritratti e ritratti di tutti i familiari, così nel tardo cinquecento, dai re ai signorotti, tutti aspiravano a farsi dipingere: fin dal suo primo sboccio Sofonisba era assediata da committenti ragguardevoli. (…) cominciò coi ritratti del padre, delle sorelle, del fratellino (…) Ma non credessero – par di sentirla – i signori ammiratori, che altro che ritratti non sapesse fare (…) e ciò che aspettava si produsse, cioè un invito alla corte di Spagna. (…) L’importante fu che l’accolsero onorevolmente e subito la misero all’opera: ritratti del re, della regina, e persino del disgraziato don Carlo vestito da “lupo cerviero”.

La vita di corte non la imbarazzò, sapeva muoversi, inchinarsi a chi di dovere, mantenersi in dignità riuscendo gradevole. Piovvero regali, denaro, gioielli, infine un abito tempestato di perle, quasi un vestito di nozze, giacchè le loro maestà le proposero uno sposo, nella persona di un loro cortigiano, don Fabrizio Moncada, siciliano. Lei non fiatò e, lombarda purosangue, con quella sua faccetta impavida, accetto il pretendente che se la portò in Sicilia. (…) Seguitava a dipinger ritratti (…) Presumibilmente non ebbe figli e rimase vedova in età ancor giovanile (…) cedette al desiderio di un ritorno in patria, fra i suoi. S’imbarcò, dunque, e – le sorprese non erano finite – scelse una galea genovese comandata da Orazio Lomellini, nobiluomo e marinaio. (…) il viaggio era lungo e Sofonisba ebbe tutto il tempo – finalmente – d’innamorarsi, persuasa di avere incontrato l’uomo della sua vita. Divenuta dama genovese, seppe presto di esser capitata in una città in pieno fervore pittorico (…) la novità di una nobildonna che sapeva maneggiare con successo il pennello li eccitò di certo in modo particolare. Pur fedele al compito dei suoi ritratti, lei prese l’abitudine e il gusto della conversazione pittorica (…) Pare che fra gli ascoltatori, al tempo della avanzata vecchiaia di lei, il giovane Van Dyck fosse tra i più assidui. (…) Piace ravvisarla in un bellissimo ritratto, ritenuto autoritratto, che ci sembrerebbe più giusto attribuire alla mano del giovane fiammingo».

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