LORENZO BARBERIS
“Nel debito di affiliazione” è una raccolta poetica di Lorenzo Mari, uscita per “I codici del ’900″, della casa editrice L’Arcolaio, a cura di Gian Franco Fabbri. Tra tutte le arti, quella di cui mi è meno facile scrivere è forse la poesia, ma l’opera mi ha colpito e queste brevi note, più che come una recensione, valgono come una “scheda di lettura” che mi serve per raccogliere, personalmente, le idee.
Le note di pre-lettura di Giacomo Cerrai decifrano il titolo in modo interessante, mostrando il complesso piano di lettura (che caratterizza molto poi della poesia di Mari, ma tra le righe, e in modo raffinatamente “non enigmistico”, quindi, a differenza del titolo, in modo poi meno sistematico nel corpo del testo).
Debito e Affiliazione sono potenzialmente sinonimi, specie in ambito letterario: “Mari ha un debito con Ungaretti” ad esempio, è analogo a “Potremmo ricondurre l’affiliazione di Mari alla lunga scia della lirica ungarettiana” (“affiliazione” ci sposta subito in un versante più aulico, meglio, di burocratese della parafrasi).
Messi insieme, i due termini però collidono e, come colto nella prefazione, “Debito” diviene qui carenza (come nell’idiomatico “debito d’ossigeno”), mancanza di una affiliazione. Notiamo che abbiamo due parole derivative da altre più primarie, che possono avere un valore particolarmente significativo con riferimento alla poesia: Debito da Dovere, Affiliazione, come annotato, da Figlio.
Una lettura (probabilmente sovra-interpretativa: ma la poesia, un po’, lo porta) potrebbe leggere anche il titolo come, semplificando, “Il dovere di un figlio”, sempre nel senso simbolico di figliazione di una lunga tradizione poetica che, come diceva il Montale nel discorso del Nobel del 1975, va sostanzialmente morendo (in Montale c’era forse anche un po’ la civetteria di porsi così, autorevolmente, come Ultimo Poeta).
La dedica tuttavia rimanda all’idea di Crisi evocata nella pre-lettura di Cerrai: “attraversando la stessa crisi”, quindi una poesia di una età storica “critica” (a molti livelli, non solo squisitamente letterari).
I debiti (di affiliazione?) sono quindi molteplici, a partire dall’antiporta dell’opera: in esergo, due poesie di altri due poeti, Giuliano Mesa (1957-2011) e Simone Cattaneo (1974-2009), di cui Cerrai metteva in evidenza l’importanza del “Chissà”, keyword comune alle due poesie; di quella di Mesa è anche il titolo della lirica – e di una sua raccolta.
Di nuovo, un non-dire poetico, un rimandare fatalistico al “Chi Sa?” scettico che possa esserci una risposta. Una poesia dove non c’è più, insomma, un Vuolsi Così Colà Ove Si Puote Ciò Che Si Vuole (e di più non dimandare, soprattutto): un’assenza di parole assolute che si trascina nel lungo Novecento, sempre più afono: se c’è un sottile ossimoro nell’indicare due ipotetici, se non maestri, “riferimenti” col rito dell’esergo, questi maestri non offrono la parola che mondi possa aprire.
Interessante anche la foto di Marco Boccaccini scelta per la copertina dell’opera. L’associazione dell’immagine con il concetto del debito di affiliazione immediatamente sembra far riferimento al poggiare di uno dei due personaggi sull’appoggio dell’altro; tuttavia notiamo subito come l’immagine è sottile. I due sono due artisti di strada, il che significa due figure sospese tra l’iniziato e il truffatore (un po’ come il Bagatto dei tarocchi). Il costume dei due è orientale – l’essenzialità zen dell’ermetismo? – ma sullo sfondo si intravvede il Colosseo (i classici, ma anche le rovine dei classici, o la cartolina dei classici) e, ovviamente, i passanti non li degnano di uno sguardo, italici o stranieri che siano (mi resterebbe da decifrare il senso della presenza del tizio a braccia conserte con una specie di imitazione della maglia dell’Inter, ma è probabilmente quel tot di ineffabile della poesia).
La prima lirica è, significativamente, omonima della raccolta e costituisce una riflessione sul senso di questa assenza di affiliazione (per paradosso, l’opera è poi ricchissima di riferimenti come citazioni in testa alle varie poesie). Vengono evocati il “padre” e il “nonno” (la linea patrilineare sarà, in modo piuttosto logico e attendibile, un robusto fil rouge della raccolta), e al “debito” poetico di “servire a qualcosa” si oppone la nudità del non-senso:
(…) E con il vuoto
dell’incavo nudo, dei nudi semi,
contribuire, infine, a
piovere il niente – oppure
a colmare la terra.
La parola lirica di Mari è sempre molto levigata, elegante ma sottilmente antiretorica, al punto di offrire pochi appigli al florilegio critico, alla ricerca di momenti quasi crociani di “eccellenza poetica” da raccogliere e sottolineare, a meno di non operare decontestualizzazioni forzate.
Si percepisce una esattezza della parola studiata con attenzione, ma difficile da evidenziare, col rischio di una gonfiezza dell’analisi che riveli la goffezza di una disamina faticosa di quello che, nella parola poetica è sintesi (ovviamente: sintesi tutt’altro che semplice).
Le citazioni sono molto puntuali e molto tecniche, dichiarazione di una lectio difficilior del debito poetico. Nomi che sarebbe ingeneroso definire “minori”, e che tuttavia non vengono a costituire una mappa per il lettore non-specialistico, ma solo una “mappa interna” per l’autore e per una cerchia più iniziatica (al limite, per il lettore comune vengono ad essere possibili spunti di lettura).
Non che manchino riferimenti a una texture testuale più ampia.
“Tunnel sotto la clinica” mi ha fatto ad esempio pensare ai “Sette piani” di Buzzati, coniugati con l’idea che toccato il fondo (il mortifero primo piano) si può ancora scavare, oppure all’opposto una via di fuga da quelle claustrofobie novecentesche (elemento coadiuvato dall’idea di una “clinica per soli ipocondriaci”: la finezza di Buzzati è di tenerci fino all’ultimo il dubbio che il suo malato – certo simbolico – sia in verità davvero un ipocondriaco caduto in un paranoide complotto). Ma qui può essere un’inferenza mia.
“Punto gotico”, tuttavia, con la sua leggera ma (proprio per questo) caustica satira di chi “finge nuove resistenze”, pare una più intenzionale messa in discussione della “Linea Gotica” dei CCCP (e le lirics di Lindo Ferretti hanno una parola in effetti scavata ed attenta, in quel periodo). Le lucciole delle Langhe (che ricorreranno) sono invece citazione precisa, di Calvino, la chiusa dei “Sentieri dei nidi di ragno”, dove le lucciole, come gli uomini, se le osservi da vicino, “sono brutte bestie anche loro”: ma da lontano l’affresco della Resistenza, che da vicino ha le sue brutture (dette nel romanzo) è grandioso.
Mari invece, naturalmente, indugia e indulge nello sguardo impietoso delle carni dei padri, un esposizione della “carne della memoria” (“carne” è termine-chiave importante, anche nel finale).
Dantesco mi suona invece “Figlio di questo e quella”, Manto e Tiresia: il ventesimo canto li contiene entrambi, fedifraghi indovini, ma poi c’è il ”Mantua me genuit” di Virgilio, e Tiresia, con la sua ambiguità sessuale, nella riflessione sui padri, non è probabilmente un caso (e certo può rimandare a “Le mammelle di Tiresia” di Apollinaire, che parte da questo paradosso). Non a caso del resto, virgilianamente, si richiama un “limbo tratto dall’inferno”, dove Mari può essere quasi assurto a “settimo tra cotanto senno”.
L’unico omaggio a un caposaldo universalmente riconosciuto avviene en abime, citando Attilio Zanichelli (1931-1994) che cita Franco Fortini nell’esergo di “Anche il nostro viso”; e il tema del “debito assente” incombe anche su questa lirica:
Il conteggio / è amaro: chi di noi è partito, chi resta, / le mani impegnate a tirare linee / sulla mappa.
Si arriva a Intermittens, cinque stanze di una poesia (sintetizzando con la sintesi da umile prof. dell’ITIS) sulla guerra e, ovviamente, contro la guerra.
Ritorna il rimando alle Langhe di Fenoglio, con una citazione interna piuttosto precisa e scoperta:
e non è che siano del tutto scomparse le lucciole
(si dice che restino in sicilia, sulla linea gotica, nelle
[ langhe) –
è che più non si distinguono le gocciole
di luce, nell’abbaglio continuo, dalle gocciole di
[ sangue –
un rimando che precede la strofa decisiva, che chiarisce le intermittenze del titolo:
ma noi intermittiamo
più non trasmettiamo
certo non siamo forti – claudichiamo –
ma ancora noi intermittiamo
La poesia non come trasmissione ma come intermittenza, parola spezzata, imperfetta, da Montale in poi. Un tema che torna nella conclusione, tra gli scoppi di mine anti-uomo (la connotazione che ci pare più contestualizzata al contemporaneo, con l’orrore – tra i tanti… – delle mine antiuomo e le loro assurde devastazioni) e la debole resistenza dell’intermittente segnale poetico.
gli scoppi di mina – contro l’uomo –
avvengono ineludibili,
tra roccia e calcare –
se ancora intermittiamo, noi, fragili,
con un movimento involontario
infine: é per non scappare
Sulla guerra – che è uno dei temi sottesi a quest’opera, tra i meno dichiarati forse – ritorna “La fatica di smettere i panni di guerra”, e anche “Tutto al tutto, niente al niente”. Resistenza, guerra, memoria possono essere sotto-parolechiave che identificano il “debito” nel senso del “debet”, ciò che deve la poesia, o meglio, ciò che dovrebbe: infatti il rimando è sempre o a landmark ormai universali (la Resistenza; e in modo indiretto) o generico (“la guerra”, ma non appaiono esplicitamente nuove “primavere hitleriane”).
Mi si rafforza così il riferimento, certamente scaleno rispetto alla tradizione poetica (e non credo voluto dall’autore) di certe pagine del già evocato Buzzati sulla guerra, non tanto “Il deserto dei tartari” ma certi racconti, da “Il mantello” in giù (e in particolare, è ovvio, “La canzone di guerra”) che nell’apparente spirito di rassegnazione contadina misto al suo ambiguo fantastico italiano sono tra le più atroci pagine contro ogni retorica bellicista, proprio nel loro spogliarsi di ogni retorica.
Il tema centrale del “debito di affiliazione” è precisato, pare, in poesie interne al corpo del testo sul “padre” che va scarnificato, come “Topografia necessaria” e “Vertebra”.
Anche “Non sono i piedi gonfi” parla di padri e figli, con un riferimento edipico rimarcato da quella “sfinge” che appare nell’opera. Un parricidio (ma, curiosamente, in “Vertebra”, c’è un rimando ad Adamo più che altri passi della Bibbia, che pure offrirebbe spunti a volontà) che è anche scarnificazione poetica, “montaliana”, da “Ossi di seppia” privati della polpa vitale del mollusco che era in loro.
“Tutta la parola” quasi rovescia “Non chiederci la parola”, parola iper-presente, parola-assente:
Di sventramento e di matrice
della tragedia, tutta la parola
è complice – o almeno
questo è ciò che ci si racconta:
E c’è un’eco, forse, tra la scarnificazione poetica e lo sventramento della tragedia.
Il tema del “debito” (messo in risalto dal forte enjambement sulla fine della prima strofa) col “padre” torna anche in “Un asso nella manica”, in cui le “lenti del padre” diventano il simbolo di una visione codificata nei secoli (simbolo molto freudiano, tra l’altro, il Freud analista del Sandmann per essere precisi).
Se al gioco delle lenti presiedono
i secoli, cosa vorrò mai dire di mio
a quel punto, anche avendo
un asso nella manica.
La difficoltà del dire poetico, dunque, e quindi il rischio insito di un debito affiliativo (come dipendenza poetica) che diviene “debito d’ossigeno”, impossibilità del dire pur avendo qualcosa da lasciare, “un asso nella manica” appunto.
Con una certa circolarità, all’Adamo implicito di “Vertebra” pare rimandare anche “Metamorfosi”, poesia che si apre col forgiare con la terra (radice, anche etimologica, dell’Adama biblico).
Ma poi la poesia apre, con molteplici altre connessioni, altri spiragli, altre parole chiave che la riconnettono ad altri testi, e che si iniziano a vedere dopo una certa percorrenza del testo: la “crepa” che si insinua nella terra-cotta, e che appare con evidenza in “Crepa, paese” (dove fin dal titolo contiene i due possibili sensi, in fondo collegati, di “spaccatura” e “morte”). Ma anche la “merda” ricorrente nelle liriche (e che spicca nella prosa rarefatta e ricercata di Mari, come quelle “unghie merdose” di Taide dantesca).
Altro riferimento frequente, nel discorso del debito, è “capitale”: ma quasi ogni parola, oltre che essere debitamente (appunto) scelta con cura, sembra inserirsi in un tessersi di rimandi interno all’opera (e probabilmente esterno, col richiamo dei debiti citati). Un lavoro per cui torna utile la fruizione moderna del testo letterario, in word processor, in cui la ricerca delle keyword nella finestra di dialogo di Acrobat Reader non è sterile esercizio di stile, ma ricostruzione di una fitta trama effettivamente presente.
La conclusione della raccolta va a “Come nelle favole (volpi e faine)”, che si chiude con un inno alla carnalità fiabesca del mondo degli animali antropomorfi, che qui diviene metafora del profondo disagio esistenziale che attraversa tutto il lungo Novecento. La chiusura è abissale, con una anafora che ha un che di ungarettiano. E con queste parole chiudiamo questa ricognizione (inevitabilmente parziale e imperfetta) di un’opera che nella sua ricca stratificazione può restituire molto al lettore appassionato ed attento.
ci si getta in acqua,
ci si getta a fondo –
poi ci si guarda,
pavidi, negli occhi,
sperando di discernere gli eguali:
sul fondo c’è chi stramazza
sul fondo c’è chi chioccia
sul fondo c’è chi sbatte le ali.
*
(Immagine di copertina: Marco Boccaccini 2012 )