GABRIELLA MONGARDI.
Falliti di tutto il mondo: Toulouse, France, è la vostra città; la sua cattedrale, St. Étienne, la vostra chiesa. No, non voglio fare un discorso religioso, parlo semplicemente da architetto, da “sacerdote del Bello”. Assolutamente laico, per non dire ateo. Un architetto fallito? Forse. Almeno, prima di scoprire St. Étienne a Toulouse, nei momenti di depressione mi consideravo tale, misuravo lo scollamento tra vocazione e talento, l’inadeguatezza del secondo rispetto alla prima, e il mio bilancio professionale tendeva decisamente verso il passivo. Ora non più.
Per mestiere mi occupo prevalentemente di ristrutturazione di interni, un po’ per scelta, un po’ per necessità. Quando mi sono laureato, negli anni ’90, e ho aperto un mio studio, i clienti volevano al massimo risistemare le loro vecchie case – e forse anch’io non mi credevo capace di progetti più ambiziosi, alla Renzo Piano o Daniel Libeskind o Zaha Hadid: niente musei o grattacieli o interventi urbanistici nella mia vita, niente di vistoso che lasci un segno nello spazio pubblico – solamente interior design per abitazioni private. Ho stile, buon gusto, so ascoltare i clienti e assecondare le loro richieste – perché le case, una volta finite, devono piacere a chi le abita, mica al progettista. A me, basta che piaccia la mia, di casa: un appartamento elegante, lineare, essenziale. Il living, preceduto da una breve anticamera, è il cuore della casa: ampio, accogliente, luminoso grazie a un’immensa vetrata affacciata sui prati e sulle montagne, scandito dall’arredamento in zone-funzione: cottura-pranzo, lettura-meditazione, musica-conversazione. Da lì, un corridoio aperto introduce la zona notte (due bagni, due camere da letto, il mio studio) e dà accesso a un piccolo giardino, cioè a un living en plein air, per la bella stagione.
Mia moglie – a ragione – mi accusa di debolezza, di mancanza di fiducia in me stesso, di scarsa autostima; avrebbe voluto che diventassi un archi-star, che il mio nome riecheggiasse in tutto il mondo – ma non era la mia strada, evidentemente. Ho passato almeno metà della vita ad arrovellarmi su quale fosse la mia strada per il successo, poi ho capito.
L’ho capito a Toulouse, entrando in St. Étienne da una porta laterale: una chiesa che sorprende e sconcerta, sia all’interno che all’esterno (così il dépliant illustrativo), perché è il risultato di una giustapposizione di edifici amputati e incompiuti, costruiti nel corso dei secoli, a partire dall’XI fino addirittura al XX.
Ma le nostre vite, a parte la loro durata di gran lunga inferiore, sono forse qualcosa di diverso? Una vita non è forse un edificio che si costruisce nel corso del tempo, come una giustapposizione di progetti per lo più “amputati e incompiuti”? A partire dall’adolescenza siamo obbligati a progettare il nostro futuro, scegliendo un indirizzo di studi o un lavoro anziché un altro, innamorandoci di quella donna, di quell’uomo anziché di un altro: ma dei nostri progetti, quanti andranno a buon fine? Quanti dei nostri sogni diventeranno realtà? Anche se ci illudiamo che sia il contrario, in realtà è la vita a decidere per noi – il caso, o il destino se preferite, si diverte a scompigliare le nostre carte, a scompaginare i disegni a noi più cari, a farci toccare con mano che non siamo padroni di noi stessi: e quando questo succede ci sentiamo falliti. Ma è proprio così?
Ecco: St. Étienne a Toulouse, France, è la dimostrazione “vivente” che il risultato finale può essere bello, affascinante, anche se è sghembo, bislacco, asimmetrico, nato da tanti singoli “fallimenti”. Della prima cattedrale, romanica, tra il 1100 e il 1200 fu costruita solo una navata, tanto larga quanto alta, a causa dell’assedio. Sì, perché Tolosa, una delle roccaforti degli Albigesi, fu assediata da Simon di Montfort durante la “crociata” voluta nel 1209 da papa Innocenzo III contro quegli “eretici”. Alla fine del ’200 risale il gotico “coro dei canonici”, disassato rispetto alla navata: testimonia il progetto di una grandiosa cattedrale il cui compimento avrebbe dovuto comportare la demolizione della navata – ma i lavori furono interrotti dalla morte del vescovo che li aveva voluti e da difficoltà finanziarie. Nel 1500, e poi ancora all’inizio del ’900, si cercò di raccordare il coro dei canonici e la navata romanica con dei pilastri che simulassero una sorta di transetto, con il risultato che lo sfasamento è ancora più accentuato…
“Sorprende e sconcerta” sì, St. Étienne di Toulouse, ma proprio per questo “è riuscita”: riesce infatti a donarci un nuovo punto di vista sul mondo e su noi stessi, perché ci obbliga a trovare un nuovo assetto, nuove coordinate conoscitive. Se un’opera d’arte è sempre in qualche modo uno specchio, nessuno specchio rimanda di noi un’immagine più fedele e profonda di questa – e ci riconosciamo progettisti serenamente perdenti, indispensabili Architetti di un Disegno necessariamente incompiuto, e proprio per questo indicibilmente bello… Altro che falliti!