FRANCO RUSSO.
Quando un amico carissimo come Piero La Ciura* mi ha chiesto di venire qui a parlarvi ho detto, come si fa tra amici, di sì. Subito e senza pensarci. Poi, come sempre, mi sono chiesto perché avessi detto di sì. Vanità? Sì, la cosa mi gratifica e mi rende fiero che sia stato chiesto a me. Spirito di servizio? Sì, ammiro il lavoro che fate e che state imparando a fare e credo vi si debba qualche cosa. Interesse personale? Sì, sono un forte fumatore non pentito ed è possibile che un giorno abbia bisogno di voi.
Poi mi sono scritto il titolo – che non ho scelto io – e mi sono messo davanti ad un foglio bianco che, come nei compiti in classe ai quali sono, per professione, abituato, aspettava di essere riempito di parole non banali.
La prima cosa che ho pensato mi ha fatto sorridere. Malattia, sofferenza, cura, morte…individua un percorso privo di speranza. Noi, possibili pazienti, ci aspettiamo che insorga la malattia, che determina sofferenza ma, con la cura,del medico e della medicina, ecco la guarigione e la vita e non la morte. Sorriso triste perché mi ha indotto a riflettere su come siamo oggi. Su come non accettiamo la malattia, la sofferenza, la diversità, la sconfitta, la bruttezza, l’invecchiamento, il disagio e su dove ci porterà il delirio di onnipotenza di cui siamo schiavi. Nascita, vita, lavoro, sofferenza, difficoltà, malattie, dolori e morte sono stati, per millenni, i passaggi naturali che hanno scandito quello che Montale chiamava “il male di vivere”. I nostri nonni “chiudevano serenamente gli occhi”, se ne andavano “circondati dall’affetto dei figli”, “raggiungevano, finalmente, il fedele sposo”, “nascevano a nuova vita”. Detto così sembra persino bello ed invitante ma non ci piace. Eppure i nostri vecchi, nella loro semplicità contadina che li abituava ad accettare le stagioni, il freddo ed il caldo, la neve e la siccità, la grandine ed il mancato raccolto, i figli che morivano da piccoli, la guerra e la ricostruzione, il bene ed il male della vita, hanno scritto, senza saperlo, bellissime pagine di una grande epopea. Forse è la loro letteratura quella che dovrebbe essere studiata.
Il foglio si sta riempiendo ma sto andando fuori tema e so perché. In realtà fatico a trovare un filo, un itinerario in tutto quello che ho letto in una vita.
Penso a Cronin ed ai suoi romanzi che disegnavano un mondo di sofferenze e di malattie riscattate da eroici medici che, nella tormenta di neve, di notte, raggiungevano a piedi sperduti casolari e, con il coltello da cucina e senza anestesia, realizzavano tracheotomie che salvavano il bambino malato. E penso che, a sedici anni, avrei voluto fare il medico per essere quell’eroe. Penso al medico del Far West, quello che estraeva pallottole con il coltello, disinfettando con il whisky, mentre Tex stringeva tra i denti una striscia di cuoio. Penso a quel mito dei giorni nostri che è il Dottor House così bravo, così crudele, così sensibile, così sofferente, così sgradevole. Penso all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master ed al cimitero sulla collina dal quale i morti accusano i vivi. Quei vivi che li hanno fatti soffrire, che li hanno torturati, che li hanno traditi, che li hanno curati male, che li hanno uccisi. Penso a Jones il suonatore che fu sorpreso dalla morte nei suoi novant’anni e con la vita avrebbe ancora giocato; lui che offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo. Penso a Socrate che, condannato a morte, mentre aspetta che gli portino da bere la mortale cicuta, canta il suo inno alla vita prendendo lezioni per imparare a suonare la cetra perché – dice – finché c’è la vita bisogna spenderla per imparare. Penso a Salvador Dalì che, vecchio e con una giovane e bellissima compagna al suo fianco proclama con proterva superbia: “Io, fino a prova contraria, sono immortale”. E la prova contraria è arrivata. Penso alla peste manzoniana ed alla raffigurazione cristianamente consolatoria e punitrice che ce ne dà l’Autore. La malattia incurabile che colpisce, democraticamente, giovani e vecchi, potenti e poveracci, medici e becchini. Ma penso anche alla Storia della colonna infame in cui il Manzoni testimonia come l’unione di giudici disonesti, di preti intolleranti, di medici ignoranti innaffiata dal fanatismo di un popolo terrorizzato porti a processi, torture e condanne a morte per poveri innocenti accusati di essere gli “untori”. Penso alla peste del Decamerone che Boccaccio rimuove raccogliendo sani e spensierati giovani che si raccontano, in un bel casolare di campagna, le novelle mentre la peste resta fuori. Penso al medico Corvo e al medico Civetta che, di fronte al presunto morto Pinocchio, dibattono: “Se il morto piange è segno che è in via di guarigione”, “ No, caro collega, per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace morire”. Penso all’Emilio di Rousseau che definisce la medicina “…l’arte più perniciosa perché non so da quali malattie i medici ci guariscano ma so che ce ne danno di peggiori: la vigliaccheria, la pusillanimità, la credulità, il terrore della morte; se guariscono i corpi, uccidono il coraggio”. Penso a Gina Lagorio che ne La spiaggia del lupo dice “Le malattie sono più intelligenti di noi, trovano la risposta dei nostri problemi prima della ragione”. Penso – e i versi mi ronzano in testa per averli imparati a memoria al liceo – a Pietro Metastasio in Adriano in Siria: “Non è ver che sia la morte / il peggior di tutti i mali:/ è un sollievo de’ mortali / che son stanchi di soffrir”. Penso a Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Pavese in cui la morte è “insonne, sorda come un vecchio rimorso o un vizio assurdo” ma che morire sarà “come smettere un vizio” ma anche allo sberleffo di Woody Allen: “D’altra parte se vogliamo vedere il lato positivo, morire è una delle poche cose che si possono fare stando sdraiati”. Ma penso a Montale che, per tentare di recuperare un rapporto con la moglie morta dice, con dolorosa ironia: “Avevamo studiato per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento./ Mi provo a modularlo nella speranza / che tutti siamo già morti senza saperlo”. Penso a Platone che nell’Apologia di Socrate fa dire al grande filosofo “E’ giunta l’ora di andare. Ciascuno di noi va per la propria strada: io a morire, voi a vivere. Che cosa sia meglio solo Dio lo sa”. Penso a Oriana Fallaci ed alle pagine meravigliose dedicate alle torture e alla morte di Giorgio Panagulis in Un uomo ma anche a quelle che lei stessa, fino alla fine, ha dedicato alla propria agonia, al cancro ed alla morte. E mi vengono in mente gli epitaffi famosi, uno su tutti, quello del grande poeta Pietro Aretino dettato da lui stesso: “Qui giace l’Aretin poeta tosco/di tutti parlò mal fuorché di Cristo/ scusandosi col dir – non lo conosco-”.
Seria, tragica, commovente, masochista, beffarda, irridente, pietosa, crudele, patetica, sadica, ridicola: così la letteratura di fronte alla sofferenza, al male, alle cure dei medici spesso inutili, alla morte.
Il filo si sta dipanando e mi pare di vedere con maggiore chiarezza una strada. Cosa posso dirvi che vi aiuti a riflettere sul vostro lavoro? Posso scegliere autori che, negli ultimi due o tremila anni hanno celebrato la malattia, la sofferenza, la morte con pennellate tragiche e dolenti. Posso raccontarvi di Giacomo Leopardi, malato e deforme, che morì giovane, invano curato da medici incapaci o impotenti ma che in trentanove anni di vita è riuscito a scrivere quasi le più belle pagine di poesia dell’umanità. O di Giovanni Pascoli malato e prigioniero di un corpo che gli chiedeva donne mentre doveva accontentarsi di un incestuoso rapporto con la sorella. Ma che pagine di dolcissima poesia sono sgorgate da quel cuore tormentato! O di Pavese che chiude con il suicidio una vita tribolata tra desideri inappagati e impotenze nascoste. O di Ungaretti che muore, ufficialmente, nel suo letto mentre, in realtà, il suo vecchio e grande cuore cede in un letto di un albergo di Bologna mentre sacrifica a Venere con una giovane fanciulla. O di Pasolini che trova la morte violenta mentre cerca amori a pagamento tra i ragazzi di borgata. Posso ma non voglio. Non voglio affrontare, seriamente, un tema che non è serio. Voglio provare a sorridere, a sorridere della malattia, della sofferenza, delle cure, dei medici, delle agonie vere e presunte ed anche della morte. Se affrontassi il tema seriamente dovrei concludere che la letteratura, ma anche la pittura, la scultura, la musica quando sono grandi sono legate a miserie, a malattie, a sofferenze, a follia, a manie, al suicidio. Dovrei dire che Michelangelo, se non avesse avuto il tormento del richiamo di Dio da far convivere con i peccaminosi slanci omo ed etero del corpo e dei sensi, non avrebbe scolpito meravigliose figure in violente torsioni nel tentativo dei corpi di liberarsi dalla propria materialità; dovrei dire che il divino Leonardo dipingeva, appagato, dopo essere stato con quello che lui chiamava il suo “demonietto”, un fanciullo che oggi gli varrebbe il carcere per pedofilia; dovrei dire che se Leopardi fosse stato un robusto ragazzo di buona famiglia e di molti amori non avrebbe mai scritto pagine di immortale poesia; che un Mozart ricco, sano, felice, non avrebbe composto la più bella musica mai sentita. Amori infelici, tormenti dell’anima e del corpo, rimorsi e rimpianti, bassezze e crudeltà, violenze e pazzie, malattie e suicidi sono stati nei secoli i sogni ai quali gli artisti hanno cercato di assomigliare e più ci sono riusciti più sono stati grandi.
Ma adesso sorridete con me.
Tra tutte le scelte arbitrarie che avrei potuto fare per individuare un autore della letteratura che rappresentasse, in modo pieno, malattia, sofferenze, cure e morte mi è sembrato simpatico focalizzarmi su Jean-Baptiste Poquelin più noto con lo pseudonimo di Molière e sul suo Malato immaginario.
Intanto la sua vita, le sue opere e la sua morte tratte da Vie de Molière par Voltaire in cui è il grande Voltaire, appunto, a giustificare la mia scelta.
Molière scrive, per farle rappresentare in provincia, commedie intitolate Il dottore innamorato”, I tre dottori rivali ma anche Il medico volante e soprattutto, l’ultima della sua vita: Il malato immaginario. Questo ci segnala una certa propensione per ambienti e personaggi della medicina, anche se lo stesso Voltaire ci racconta che Molière al re Luigi XIV che gli chiedeva “Avete un medico? Cosa vi fa?” rispose: “Sire, conversiamo, mi prescrive delle medicine che non prendo e così guarisco”.
Non guarisce ma muore, poco più che cinquantenne, nel 1673, di tubercolosi. E muore con lo sberleffo del grande attore. Si sente male in scena mentre recita la parte del malato immaginario, viene portato a casa assistito non da medici ma da due suore e soffoca in un rigurgito di sangue. Nei giorni precedenti aveva nascosto a tutti gli accessi di tosse che facevano presagire la fine. Una morte nobile e bella. Una morte superba ma anche la vendetta della Medicina così mirabilmente messa alla berlina nelle sue commedie? Ne Il malato immaginario si può individuare un quadrilatero formato da Argante, il sedicente malato, Beraldo, il fratello ragionevole e incredulo sui portenti della medicina, il dottor Purgone, il medico di poca scienza, pochissima coscienza e molta cupidigia e, infine, il Signor Fiorante, farmacista esoso, garbato e complice del medico. Mettendoli a confronto si dipana una storia ambientata a Parigi nel ‘600 ma forse anche in un qualunque paese italiano oggi. Così la commedia si apre con Argante che fa i conti di quanto gli costino clisteri emollienti “per rinfrescare le viscere del signore”, clisteri detersivi con rabarbaro e miele rosato “per spazzare e nettare il basso ventre del signore” e una “buona medicina purgativa di cassia fresca e senna levantina per evacuare la bile del signore” ma – conclude sconsolato il nostro – “questo mese ho preso otto medicine e dodici lavativi, l’altro mese dodici medicine e venti lavativi. Non mi meraviglio se questo mese sto peggio”. Idealmente gli risponde il fratello Beraldo “ la miglior prova che state bene è che con tutte le cure che avete fatto non siete ancora riuscito a rovinarvi la salute e che non siete ancora crepato con tutti i rimedi che vi han fatto prendere”. E aggiunge “non c’è nulla di più ridicolo che un uomo che voglia pretendere di guarire un altro uomo”. Secondo lui i medici “sanno parlare bene il latino, sanno il nome greco di tutte le malattie, e le definiscono e le classificano ma, in quanto a guarirle, è proprio quello che non sanno” e capita a fagiolo il farmacista Fiorante che, col clistere in mano, tenta di fare il suo dovere ma viene scacciato dal miscredente Beraldo e corre a lamentarsi dal dottor Purgone. Questi entra in scena con tutta l’autorevolezza della sua scienza: “un clistere che mi ero compiaciuto di comporre io stesso…un crimine di lesa Facoltà… vi avrei guarito in quattro e quattr’otto….avrei ripulito il vostro corpo e liberato completamente dagli umori maligni… mi bastavano ancora dieci o dodici medicine… vi abbandono alla vostra cattiva costituzione, ai disordini delle vostre viscere, alla corruzione del vostro sangue, all’acidità della vostra bile, alla corpulenza dei vostri umori… prima di quattro giorni diventerete incurabile… cadrete nella bradipepsia e poi alla dispepsia e poi all’apepsia e nella lienteria e poi nella dissenteria e nell’idropisia ed alla privazione della vita”. Naturalmente la storia finisce bene e il povero Argante viene fatto medico così da potersi curare da solo. E la cerimonia burlesca della laurea in medicina viene officiata da un gruppo di attori composto da otto portatori di siringa, sei farmacisti, ventidue dottori, otto chirurghi che danzano e due che cantano. La lingua prescelta è il latino maccheronico e ci rivela che l’oppio fa dormire “quia est in eo virtus dormitiva”, che “idropisia, apoplexia e paralisia” si curano così: “clysterium donare, postea salassare, postea purgare”, rimedi efficaci anche per polmoniti ed asma, per mali di testa e di ventre. L’investitura è la concessione “medicandi, purgandi, salassandi, exforandi, recidendi, tagliandi et occidendi impune per totam terram”. L’ipocondriaco, lo scettico, il medico autoreferenziale, il farmacista complice sono figuri e figure forse non del tutto estranee al nostro mondo.
Provo a tornare serio. In realtà la letteratura, rispetto al tema che affrontiamo, non è mai riuscita a scegliere tra terra e cielo, tra commedia umana e divina. Una parte importante della letteratura non ha mai considerato malattie, sofferenze, cure e morte come valori assoluti ai quali dedicare pensieri e parole. Sono sempre state solo strumento ed occasione per suscitare il pianto ed il riso, per commuovere ed indignare, per speculare e per calmare. Ma, più ancora, per allontanare, per nascondere, per neutralizzare, per rimuovere, parlandone, realtà brutte e sgradevoli. In fondo la letteratura non è forse anch’essa una malattia, che genera sofferenze, che richiede cure e, infine, che muore? Già, forse è questa la conclusione giusta: nel titolo dopo “malattia, sofferenza, cure e morte” non ci vuole la congiunzione “ e letteratura” ma, forse, un “= letteratura”.
E’ vero che altri autori, o gli stessi in altre opere, hanno provato a dare un senso alla vita ed alla morte, al dolore ed alla sofferenza, alla malattia ed al tormento. Hanno provato a cercare il mistero del vivere e a riscattarne il male accettandolo e nobilitandolo in vista di una possibile rinascita. Così il dolore, la sofferenza, il tormento diventano occasioni perché l’uomo sfiori il divino, perché percepisca la finitezza della sua esperienza di vita ed elabori la propria redenzione.
Per credenti o no la storia, ripeto la storia, di Gesù raccontata da tutti quelli che ci si sono cimentati, apostoli o sedicenti tali, che altro è se non un tentativo di dare un senso alla vita dell’uomo indicandone le miserie e le ingiustizie, nobilitando sofferenza e morte in vista del riscatto non di uno solo ma, addirittura, dell’intera umanità?
Come al solito è Dante che ci soccorre con la sua Commedia, non a caso Divina. Nei suoi versi non c’è solo la ricerca di un viaggio di redenzione del Poeta stesso ma anche il disegno che si assume il compito di chiudere il cerchio fino alla vita ultraterrena. O ancora la malattia del Re Pescatore (o Peccatore?) che, nell’attesa del Graal non ancora Santo ma solo Magico, vede l’avanzare della malattia e la dissoluzione del suo regno senza rinunciare alla speranza della cura e ad un progetto fragile e velleitario di guarigione e di redenzione. Così dialogano, idealmente, D’Annunzio ne L’innocente a cui fa dire che “L’uomo a cui è dato di soffrire più degli altri è degno di soffrire più degli altri” e Ungaretti che risponde “Non mi lasciare, resta, sofferenza”. E ancora il macabro umorismo di Giorgio Bassani che, ne Il giardino dei Finzi-Contini, ricorda “Nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta”. Tanti grandi e piccoli della letteratura hanno cercato il senso della vita, hanno interrogato la morte, hanno disperatamente cercato l’eternità e sognato di trovare il senso e la sintesi tra vita e morte. Forse il filo che li lega è la speranza – o l’illusione? – alla quale, letterati o analfabeti, tutti abbiamo bisogno di attaccarci. Quando, a prescindere dai libri che abbiamo letto e studiato, dai beni materiali e morali che possediamo, ci interroghiamo sul significato del nostro viaggio su questa terra abbiamo, tutti, un disperato bisogno di sperare. Sperare che non finisca, che ci sia un dopo o, almeno, che nel dopo resti un pezzo di noi: e facciamo figli, scriviamo libri, costruiamo case per lasciare un pezzo di noi qui. E quando riusciamo a vedere, con qualche lucidità, la pochezza del nostro viaggio tentiamo, con tutte le forze, di nobilitarlo e di dargli una speranza di rinascita, di redenzione, di luce. A costo di costruire un Paradiso che, secondo Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea, è quello che “…se l’uomo moderno osasse esprimere la sua concezione del paradiso, descriverebbe qualcosa di molto simile ai grandi magazzini del mondo, pieni di novità e gadget, e se stesso con una quantità di soldi per comprare quella roba”.
Chiudo queste disordinate considerazioni con un atto di superbia. Alcuni anni fa ho assistito, a ragionevole distanza, alla conclusione della vita di un sacerdote malato di cancro, don Alberto Bruno, Vicario di Caraglio. Dopo la sua morte gli ho dedicato queste parole: “… non mi era mai successo di andare così spesso a trovare una persona malata e di verificarne, ogni volta, il sereno coraggio. La prima volta ci sono andato per dovere, poi ci sono andato perché mi dicevano che a lui faceva piacere, alla fine ho capito che faceva piacere a me. Grazie, don Alberto per avermi, nobilmente, ingannato, facendomi credere di avere bisogno di essere incoraggiato da me, mentre ero io ad avere bisogno di vedere il suo coraggio”. Questo è stato il mio contributo a malattia, sofferenza, cure, morte e letteratura. E l’ho pubblicato sul bollettino parrocchiale di Caraglio.
* Intervento tenuto nel 2008 come introduzione a un corso di formazione per medici ed infermieri destinati a lavorare all’Hospice di Busca (CN) con i malati terminali. Il dott. La Ciura, oncologo, è primario dell’Hospice (tecnicamente: Unità Operativa Complessa Cure Palliative ASL CN1).