SILVIA PAPI
Libero e lieve
Io correrò felice
Nei campi d’estate
Abbiamo avuto la fortuna di ricevere in dono un bel libro, fuori produzione e a tiratura limitata, che racconta la storia di Hachiemon, uno dei tanti nomi con cui amava farsi chiamare il celeberrimo pittore giapponese Hokusai, vissuto a cavallo tra la seconda metà del 1700 e la prima del 1800.
Il grande artista ci viene in aiuto per introdurre una riflessione sul concetto di arte che vogliamo proporre a chi ci legge.
La parola “arte” nella lingua giapponese non esisteva – leggiamo dall’introduzione – e venne introdotta nel loro vocabolario solo verso la fine del XIX secolo come traduzione di un termine presente nelle lingue occidentali. Per esprimere quello che noi intendiamo con questo termine coniarono i termini geijutsu e bijutsu che, ritradotti, significherebbero qualcosa come: la tecnica del bello, lo strumento raffinato, la maestria di una particolare espressione artistica. Fin dall’antichità e prima del contatto con l’Occidente i giapponesi esprimevano con il termine do – michi, che in italiano può essere tradotto con “via”, un insieme di sensibilità, espressività, tecnica, stile, modi di vedere e operare che diviene la forma della vita intera. Con questo si intende dire che tutta la vita di chi ha scelto quella via è inglobata in una pratica. Abbiamo così la via della scrittura, shodo, la via dei fiori kado, la via del tè sado, e la via del guerriero che racchiude le cosiddette arti marziali, bushido. Ci viene detto quindi che l’arte nel Giappone antico era un percorso che implicava un rapporto integrale della persona e della sua vita con l’espressione artistica e che, in questa concezione, arte e religione si sovrapponevano, perché la religione – la via di Buddha, butsudo, – non è da intendersi come un credo, comunque non solo, ma soprattutto come un modo di indirizzare e vivere la propria vita tutta intera.
Questa concezione la ritroviamo perfettamente espressa nell’opera di Hokusai per il quale vita e attività artistica, come viene spiegato bene nel libro, sono, appunto, “non-due”. Il termine “non-due” è uno dei modi per scrivere il nome del monte Fuji, simbolo centrale del Giappone oltre che dell’opera del grande artista, ma è anche una parola chiave del buddismo dell’estremo oriente. La “via di mezzo” annunciata da Sakyamuni Buddha in India, in Cina e in Giappone prende anche il nome di non-due, intendendo con questo il superamento di ogni dualismo antitetico senza bisogno di evocare un’unità che potrebbe essere fonte di un principio di autorità molto estraneo allo spirito libero del buddismo.
Sappiamo bene che nel Giappone contemporaneo la situazione non è più così e gli artisti del Sol Levante si sono del tutto conformati alle modalità occidentali, estetiche ed economiche. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, ci sembra importante pensare a quell’antichità. Crediamo che la crisi che ci avvolge si esprima abbondantemente anche nell’arte – del resto come potrebbe essere altrimenti – e che il mercato ormai sia il padrone indiscusso – abbiamo avuto modo di ribadirlo diverse volte – anche di quel territorio, divenuto spesso arido e inospitale.
Un modo per arrestare il declino potrebbe stare forse proprio in questo: nel coraggio di tirarsi fuori – per chi sente l’arte come via – dal “mondo/modo prestabilito” e mettere tutta la propria vita in una pratica, consapevoli che la strada intrapresa non avrà un punto di arrivo o una meta con ricompensa finale. È la storia della vita di una persona che si racconterà allora attraverso quella pratica, fatta di infinite sfumature, intoppi, luci e drammatiche ombre. Una vita, così com’è.
Che sia questo il messaggio del grande Hokusai? Abbiamo la presunzione di pensarlo.
Invitiamo chiunque sia interessato a conoscere La bella storia di Hachiemon e della sua arte – ovvero: una nuova lettura di Hokusai – libro curato da Bruno Gallotta con introduzione di Jiso Giuseppe Forzani di fare riferimento a questa e-mail: associazione.dogo@gmail.com
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