L’incredibile storia del profeta Mansur

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Ventottesima puntata – Non tutto è oro per un profeta

FRANCESCO PICCO

E fin qui, tutto era andato come previsto. E quando diciamo come previsto, intendiamo ovviamente dire previsto da Viktor. Quel che successe poi, di lì a poco, nessuno – nemmeno Viktor – era in grado di prevederlo. Tranne forse Mansur. Era o non era Profeta? E certo che lo era: così, almeno, fu decretato dal Khan di Amadiyah, che lo aveva mandato a chiamare con l’intento di smascherarlo e alla sua presenza era invece rimasto confuso, attonito, balbettante – e più lui balbettava, più il Mansur parlava sicuro e saldo, più le parole arabe gli sgorgavano copiose ed eleganti dalla bocca e – sembrava – dal cuore. Sicché tutta la corte del Khan, che all’inizio aveva accolto il sedicente Profeta con un brusio di compatimento ed eloquenti sorrisini di commiserazione, taceva ora sprofondando in un silenzio carico di attesa. In quel silenzio si sentiva solo il crepitare dei carboni accesi nei bracieri. Anche Mansur lo sentì; e mentre parlava, invocando la benedizione di Dio in lingua araba chiara, afferrò senza battere ciglio i tizzoni ardenti e li tenne a lungo nella mano serrata. Qualcuna delle dame di corte svenne, mentre il Khan si alzò dal suo trono per avvicinarsi tremebondo alla mano del Profeta straniero che non smetteva intanto di parlare, e che con noncuranza sovrumana si degnò di mostrargli la palma della mano perfettamente intatta, appena circonfusa di un leggero odore di carne bruciata. Dove Mansur avesse imparato questo trucco da zingaro, Viktor non riusciva a capirlo. Ma quando il Khan – pallido, balbuziente come un bambino impaurito – ordinò che al Profeta fossero date dieci monete d’argento, Viktor ebbe un sussulto e lasciò cadere la penna a terra per lo stupore. Non per l’imprevista generosità del Khan, noto in tutta la regione per la sua tirchieria immedicabile; no, non per quella, che era comunque straordinaria; bensì per l’assurda reazione del beneficiario, che ricevette le monete con un sorriso di scherno, le accartocciò – proprio così, come fossero state di latta – e mormorando incomprensibili preghiere in ebraico biblico le gettò in un braciere urlando che l’Onnipotente non ha bisogno di argento per far valere i suoi diritti di dominio incontrastato sul mondo. Detto questo, Mansur si strinse nel mantello, afferrò imperioso la mano di Viktor e uscì con lui dalla sala, mentre gli astanti gli gridavano di tornare indietro e riprendersi le monete.

Il Khan era attonito, incerto sul comportamento da tenere. In tutta questa incertezza, un unico dato sicuro si presentò come incontrovertibile sicurezza fattuale alla sua mente turbata: nel braciere c’erano dieci monete d’argento. Diede quindi ordine ai servi di recuperarle. Si assunse l’incarico un giovane persiano, che prese le monete con una molla da braci e le depose in un catino colmo di acqua ghiacciata. Le monete caddero ad una ad una nel liquido, sfrigolando rumorosamente fino a coprire il brusio dei cortigiani ancora sconvolti dalla scena a cui avevano assistito. Ma ai loro occhi, in rapida sequenza, se ne presentò subito un’altra, non meno sconvolgente. Il giovane servo impallidì, mentre controllava le monete nel catino. «Non sono più d’argento – esclamò – le monete sono diventate d’oro…». La sua voce fu coperta da un tonfo. Il Khan era svenuto. Metà dei cortigiani si precipitò fuori dalla sala, cercando di raggiungere Mansur e Viktor che però erano già svaniti nel nulla, in quelle strade di Amadiyah dove nei giorni seguenti sarebbero stati inseguiti invano dalla fama, dai fedeli di ogni religione monoteista, dai malati incurabili e dalle guardie del Khan.

(Continua)

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Illustrazione di Franco Blandino