GABRIELLA MONGARDI.
L’amico Lorenzo, nel suo resoconto di “Aspettando Collisioni 2016”, ha argutamente rilevato come la programmazione della prima giornata, sabato 2 luglio, fosse all’insegna del comico, quella della seconda all’insegna del serio. Sarà stato un caso, ma è profondamente filosofico che l’intervento dell’archeologo, storico e scrittore Valerio Massimo Manfredi sulla ‘cosa’ più seria e tragica che ci sia data, il tempo, sia stato collocato nel cuore della programmazione ‘comica’ del sabato: quale arma infatti ha l’uomo per opporsi all’azione annichilente del tempo, se non il riso? Il riso che nasce dalla profonda consapevolezza e accettazione dei propri limiti e del Limite, da una sovrana padronanza di se stessi, e che tramuta l’angoscia in leggerezza…
Leggera, garbata e accattivante è stata la conversazione di Manfredi su “Tempo e tempi”, per dirla con Montale. Da valente narratore qual è, Manfredi ha intrecciato diversi fili nel suo discorso, dal tempo universale ‘esploso’ con il Big Bang, il tempo della fisica classica che scorre uguale per tutti, che viene misurato con gli orologi e con i calendari, al tempo soggettivo, il tempo come durata, la cui ‘velocità percepita’ varia a seconda delle esperienze vissute; dal tempo storico-politico in cui gli eventi sono legati dalla catena causa-effetto, al tempo dell’archeologo, che diventa qualcosa di concretamente materiale, che si scava e si tocca, si recupera, si riporta in vita…
Ma soprattutto si è soffermato sul tempo biologico/esistenziale, su quel segmento di tempo che inizia con la nostra nascita e si conclude con la nostra morte ed è segnato dal cambiamento, dall’invecchiamento: «L’uomo è l’unico essere vivente che sa di essere nato e di dover morire. Questo fa sì che il suo tempo sia permeato da un filo d’angoscia, che ci si rifugi nel carpe diem». In questo modo si affaccia il tema del kairòs, il momento opportuno, l’attimo che fugge, il tempo del destino, il tempo fuori del tempo: quello che rappresenta l’irruzione del caos nella nostra vita.
Il tempo però è anche il custode dei nostri ricordi, e senza i ricordi non c’è identità. È il passato che ci fa essere quello che siamo, che ci dà stabilità e consistenza, perché è tempo ormai fermo e definito. Manfredi cita lo storico inglese Toynbee, che nello studio della storia antica e delle lingue morte (greco e latino) addita l’antidoto al presente e alla sua troppo veloce fuga.
E poi il tempo nella letteratura. Dal ritratto di Dorian Gray che, nell’omonimo romanzo di Oscar Wilde, invecchia al posto del proprietario, a Mazzarò, il protagonista della novella di Verga La roba, che accumulando “roba” – le terre, le cascine, i raccolti, gli animali – non solo realizza la sua vendetta di povero sugli aristocratici decaduti, ma si illude di sottrarsi alla morte; all’Odissea, dove Ulisse e Achille riconoscono che la vita è l’unico vero tesoro che si possiede, e che è tanto preziosa perché ha termine.
Commenta Manfredi: «Alcuni dicono che è il tempo è oro associandolo al denaro: in realtà è oro perché la vita è la vera ricchezza dell’uomo. Il tempo che comincia e finisce è l’unico che abbiamo. E visto che è l’unico che abbiamo, dobbiamo spenderlo bene. Come un tesoro prezioso».
Senz’altro il tempo trascorso sotto la tenda ad ascoltare queste riflessioni è stato tempo ben speso…