FRANCO RUSSO.
Ho sempre pensato alla vita come un viaggio circolare che parte da un punto e, inevitabilmente, cammina per raggiungere il punto di partenza. Il diametro del cerchio, maggiore o minore, determina la lunghezza della vita stessa e, probabilmente, tale lunghezza è già disegnata da un Grande Architetto, proprietario di molti compassi, nel momento della partenza. Tutto questo, naturalmente, mi immalinconisce un po’, soprattutto adesso che, all’incirca, ho già annerito – o sbiancato – più di trecento gradi sui trecentosessanta disponibili. E non è un pensiero apotropaico – come dicono quelli che hanno studiato – ma puro realismo. In compenso è vero che, declinando le forze, quasi tutte, se ne acuiscono altre: nel mio caso, mi pare, la lucidità con cui riesco ad analizzare la mia vita. E se la guardo con tutto il distacco possibile la vedo tirata da due grandi cordoni: la ricerca del sacro e il senso dell’onore e del dovere. Molta filosofia, una spruzzata di religione, uno stecchino di etica e tre olive di metafisica. Il tutto abbondantemente cosparso di superbia.
Tra i vizi dei vecchi c’è il rimpianto per il buon tempo andato che, spesso, per il fatto di essere andato sembra più buono. Così mi chiedo – pur non essendo un grande frequentatore di chiese – perché mi piacesse di più la messa in latino con il prete che celebra di lassù. Qualche anno fa ho letto “Basta con la messa creativa – in chiesa silenzio e preghiera”: Il Prefetto della Congregazione del Culto Divino, Cardinal Llovera, responsabile, per nomina di Benedetto XVI, della liturgia, intendeva allora, in linea con il programma dettato dal Papa, tornare alla tradizione frettolosamente accantonata nel dopo Vaticano II. Ho annotato alcune delle sue frasi virgolettate che mi paiono significative.
“Troppo frettolosamente la tradizione è stata vista come un ostacolo e si è scelto un rinnovamento liturgico frutto di immaginazione e creatività”.
“In tante celebrazioni non si pone più al centro Dio, ma l’uomo ed il suo protagonismo e il ruolo principale è dato all’assemblea”.
“Dobbiamo ravvivare lo spirito della liturgia: la croce al centro dell’altare, la comunione in ginocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, la bellezza nell’arte sacra”.
“Il vero riformatore è chi obbedisce alla fede, non chi si muove in modo arbitrario e si arroga molte discrezionalità sul rito”.
“Offriremo criteri ed orientamenti per l’arte, il canto e la musica sacri”.
“Dobbiamo ravvivare il senso del Sacro e del Mistero, rinnovare e migliorare il canto liturgico, coltivare il silenzio, dare più spazio alla meditazione”.
Sono andato a riprendere questo scritto e ne ho tratto conferma del perché continuo a pensare al Papa emerito come un grande filosofo tedesco più preoccupato di Dio che degli uomini mentre il papa in servizio mi pare un gesuita piemontese preoccupatissimo degli uomini e molto meno di Dio. E il primo sapeva perfettamente coltivare il mio senso del sacro, il secondo no. Ma qui mi fermo perché la mia convinta superbia non vorrebbe dover insegnare al papa a fare il papa. Eccolo, allora, il mio senso del sacro: le bellezze della natura, l’arte, la letteratura, la tradizione ed il quarto comandamento. Già, ne sono consapevole da qualche anno: il punto di congiunzione tra sacro e profano è, per me, “onora il padre e la madre”.
Ho sempre pensato al vivere come un patrimonio che riceviamo in eredità da chi ci ha preceduto, genitori ma non solo, che ci ha lasciato il compito di consegnarlo ai nostri eredi un po’ meglio di come l’abbiamo ricevuto. E che questo valga per le case, per la letteratura, per i monumenti, per il Pensiero ma anche per il lavoro.
È, però, evidente che ciascuno di noi, pur nella incompiutezza del proprio lavoro su questa terra, finisce per ricercare riti e simboli del territorio del sacro ma, al tempo stesso, cerca la costruzione pratica della virtù, quella che, anche etimologicamente, contiene i concetti di onestà, di fierezza, di onore e di dovere. Penso alle religioni del lontano Oriente che, apparentemente, accantonano cosmogonie teocentriche e promesse soteriologiche, ma che, comunque, non possono rinunciare a fondare pratiche e precetti su una spiegazione coerente dell’esistenza dell’uomo, del suo destino cosmico, del dibattersi del bene e del male: e questa spiegazione coerente è, in fondo, il trasparire di quel Dio del quale anche queste religioni parlano, sebbene senza nominarlo. Ecco perché ho attraversato la vita cercando un posto dove trovare una raccolta di principi, di credenze, di metodi, di valori ai quali ispirare, felicemente, il mio operato. Ed ho vissuto il desiderio del “sacro” come l’aspirazione a saperne di più, a impadronirmi del significato di vita e di morte, e a soffrire al pensiero che il cervello funziona al 30% mentre vorrei almeno il 33%.
Il tutto, ho detto all’inizio, abbondantemente annaffiato di superbia. Allora eccomi: un “malandato e superbo anziano”. Così anziano che sono andato a cercare “superbia” sul Dizionario dei Sinonimi e dei Contrari di Niccolò Tommaseo, 1892. Nelle dieci pagine dedicate alla superbia ed ai sinonimi (presunzione, alterigia, orgoglio, ambizione, arroganza, sicumera, burbanza, vanità, vanagloria, albagia ecc.) mi è particolarmente piaciuta questa frase: “Per modo d’eccezione, direbbesi che l’uomo giusto va superbo delle persecuzioni patite per la verità. Quando il gloriarsi che fa l’uomo è nobile e puro e si solleva al fine superiore a quello del comune amor proprio, allora andar superbo prende un senso non tristo”. Chissà perché mi ci sono ritrovato. E, giusto per trovare qualche altro nobile complice, ho provato a pensare ad un superbo peggiore di me. Tal Dante Alighieri che avendo frequentato – e si vede e si sente – la superbia, le manifesta qualche interessata indulgenza. Incontrando nella selva le tre fiere bolla con parole durissime la lonza e la lupa mentre trascura di fare altrettanto con il leone che rappresenta appunto la superbia. E mentre riesce ad individuare figure titaniche per gli altri peccati capitali, da collocare all’Inferno, trova solo figurine di secondo piano per superbia ed invidia. Uno dei primi clamorosi conflitti di interesse della letteratura.
Attraversiamo la vita circondati da benpensanti, privati ed Istituzioni (penso subito a Chiesa, Stato e Scuola) che ci richiamano e ci sollecitano alla moderazione: dobbiamo essere giusti, umani, sinceri, benefattori verso ogni specie di persone e soprattutto buoni padri, buoni figli, buoni fratelli, buoni mariti, buoni cittadini. Niente di eroico ma, in realtà, andando avanti ci si rende conto che le richieste sono sempre più alte e più forti e più impegnative. Ambizioni e voglie non godono di buona stampa e allora nuotare controcorrente richiede una bella fiducia in sè e nelle proprie capacità. Tacere ed accettare di avere torto anche quando si ha ragione o imparare da quelli a cui si è insegnato o riuscire a vincere anche quando si perde e a perdere anche quando si vince sono operazioni complicate se non si ha molta considerazione di sè. Alzare continuamente l’asticella e provare a superarla richiede una bella autostima. Ecco perchè mi viene da pensare che la superbia sia una virtù e che l’unico modo per attraversare, degnamente, la vita sia di essere suberbo. Superbo nel senso di provare a superare sempre i limiti, anche i propri. Per riprendere l’amato Dante tirato in ballo prima, come è pensabile che uno speziale qualsiasi potesse concepire un’opera soprannaturale come la Commedia se non fosse stato sostenuto da una Superbia Assoluta? E se, e sottolineo il se, nella mia vita ho salito dei gradini l’ho fatto soprattutto perché sono superbamente superbo. E per questo mi è toccato attraversare la vita contraddicendo tutti quelli che, sbagliando, mi hanno accusato di essere presuntuoso. Non presuntuoso ma orgogliosamente superbo. Infatti: alcuni anni fa, il venerdì santo, ho mandato un messaggio ai miei amici che diceva “Tanti auguri e smettetela di piangere; domenica risorgo” ovviamente, come previsto e voluto, questo ha scatenato una serie di risposte divertite ma anche indignate e scandalizzate. L’anno dopo attesi la domenica di Pasqua e scrissi agli stessi: “Tanti auguri e smettetela di piangere; mio figlio è risorto”. E, in risposta a scandalizzatissime reazioni l’anno dopo ho scritto: “Tanti auguri da Franco Russo, perché di più non si può”.