« Consideratene un pezzo, uno solo, che arde nella stufa di casa. Lo vedete, bambini? Quel tocco di carbone era un tempo una pianta verde, una felce o una canna vissuta un milione di anni fa, o forse due, o magari cento. Riuscite a immaginare cento milioni di anni? Nel corso della vita di quella pianta, ogni estate le sue foglie assorbivano tutta la luce che potevano, e dentro di sé la pianta trasformava la luce in energia. In corteccia, in rametti,in steli. Perché le piante mangiano la luce, un po’ come noi mangiamo il cibo. Ma poi la pianta morì e cadde, probabilmente in acqua, e marcì diventando torba, e la torba rimase chiusa in seno alla terra per anni e anni, lungo ere in cui periodi come un mese o un decennio o persino una vita intera non erano che un soffio d’aria, uno schiocco di dita. E alla fine, la torba si seccò e diventò dura come pietra; poi qualcuno l’ha cavata dalla terra, e il carbonaio l’ha portata a casa vostra, e forse voi stessi l’avete messa nella stufa, e stasera la luce di quel sole – una luce che ha cento milioni di anni – sta scaldando la vostra casa…[…] Aprite gli occhi, conclude l’uomo, e guardate tutto quello che potete prima che si chiudano per sempre […]»
Così, grazie alla magica voce di una radio riparata alla buona, Werner Pfenning, promettente ed ingegnoso orfanello tedesco, scopre un giorno di poter lasciar dissolvere e trasformare i confini dello squallido Zollverein minerario, dove vive con la sorellina Jutta, in un mondo complesso e fascinoso. Da allora in poi le trasmissioni radio diventeranno la sua risorsa più profonda ed insieme la sua condanna ed il suo tormento, dato che, appena quindicenne, dovrà fare i conti con la seconda guerra mondiale ed ancor prima con il massacrante e spersonalizzante addestramento presso l’Istituto di Educazione Nazionalpolitica, Schulpforta.
Allo stesso tempo, Marie-Laure Leblanc, francesina lentigginosa, affetta da cataratta congenita bilaterale e perciò cieca dall’età di sei anni, convive con il pesante fardello del proprio particolare rapporto con la luce, non solo legato alla cecità ma pure al Mare di Fiamma, un diamante che si favoleggia maledetto, creato dalla dea della Terra per il suo amato, il dio degli Oceani: «Un pezzo di luce del mondo all’inizio del mondo. Prima che cadesse.» O meglio, come si legge ad un passo dalla conclusione del romanzo: «Un cristallo all’interno di un filone di suoi simili. Carbonio puro, ogni atomo legato ai suoi quattro vicini equidistanti, connesso perfettamente, ottaedrale, di una purezza suprema. Ḕ già vecchio, vecchio in modo imperscrutabile. Trascorrono innumerevoli eoni; la terra si sposta, si scuote, si stiracchia. Un anno, un giorno, un’ora, un potente flusso ascendente di magma raccoglie un filone di cristalli e lo porta verso la superficie, ardente un chilometro dopo l’altro; la vena si raffredda dentro un’enorme xenolite di kimberlite, e lì rimane in attesa. Per secoli e secoli. Pioggia, vento, chilometri di cubi di ghiaccio. Il substrato roccioso si scompone in macigni, i macigni in pietre; il ghiaccio si ritira, si forma un lago e galassie di molluschi d’acqua dolce aprono i milioni di gusci al sole e si richiudono e muoiono e il lago cola via. Sorgono boschi di alberi preistorici, cadono, si risollevano, via via. Fino a un altro anno, un altro giorno, un’altra ora, quando un temporale ghermisce da un canyon una specifica pietra e la scaglia dentro una pioggia rumorosa di materiale alluvionale, dove finalmente attirerà, una sera, l’attenzione di un principe che sa cosa sta cercando.
Viene tagliata, levigata; per un attimo passa di mano in mano.
Un’altra ora, un altro giorno, un altro anno. Un blocco di carbonio non più grande di una castagna […]».
Tra i due adolescenti, non più di cinquecento chilometri di distanza che, nella progressione narrativa, si accorceranno fino ad annullarsi del tutto durante il devastante bombardamento alleato della bretone città di Saint-Malo (agosto del 1944).
Ma pure tutta una serie di personaggi, figure e situazioni intermedie, contingenze storiche e sociali, intrecci temporali, flash-back e flash-forward, che si dipanano lungo un ampio arco temporale, dal 1934 al 2014, nelle 509 pagine dell’edizione italiana di Tutta la luce che non vediamo, con cui A. Doerr ha vinto il Premio Pulitzer nel 2015.
“Una voce ammaliante, una scrittura cristallina, una musica carica di emozioni” commenta The Washington Post, dalla quarta di copertina, con un giudizio su cui si può in larga misura concordare.
Eppure non riesco a sottrarmi al sospetto che la tirannia di un plot da conchiudere secondo i dettami più correnti abbia finito col sopire in qualche caso la felicità narrativa del testo.
Sarò più chiara.
Citando E. Trevi, A. Asor Rosa ha da recente sottolineato come “la letteratura abbia smesso di pensare” e che l’unico compito che lo scrittore oggi si assegna sia quello dello story-teller.
Nel caso in specie, è vero che la complessità dell’intreccio sembra a tratti inficiare la linearità della fabula, ma non sta tanto in questo il punto. In fondo, la trama potrebbe venir considerata come un’esemplificazione/amplificazione dell’elaborato modellino-congegno di legno architettato dal fabbro Leblanc per proteggere la figlia. E di marchingegni è fatta, a ben vedere, tutta la modernità, che consente ad onde di ogni tipo (che non vediamo) di congiungere vite ed emozioni pure a grandi distanze. Un ingegnoso meccanismo biologico può anche essere considerato il guscio dei molluschi che finiranno per divenire l’oggetto della ricerca e della passione di Marie-Laure, consentendole di cogliere l’arco sconfinato dei millenni dietro di sé.
Ḕ anche vero che la conclusione del romanzo, ambientata in una contemporaneità parigina ante Isis, attraversata da una virtualità superficiale, che della guerra ha finito per fare un passatempo da video-game, pare comunque indirizzata a restituire il senso geometrico delle storie e delle vite, proponendo che l’aria possa essere una biblioteca e un archivio di ogni vita vissuta, ogni frase pronunciata, ogni parola trasmessa, che ancora riecheggi […] Risorgiamo nell’erba. Nei fiori. Nelle canzoni.
Vero è ancora che i momenti di maggiore suspence o di cruciale scioglimento non avverrebbero senza la volontà dell’autore – di ogni autore – di “rivaleggiare con Dio” (come sostiene Vargas Llosa), e di creare, in piena legittimità col proprio ruolo, l’universo parallelo che più gli aggradi. Eppure, mi chiedo, fino a che punto si possa tendere il verosimile senza sfiorare il feuilleton, a seguito (forse) delle sollecitazioni di un editing scaltro fino a rasentare la banalizzazione nazional-popolare.
In altri termini, non sarebbe stato molto meglio se i due adolescenti non si fossero incontrati? Non nel modo in cui lo fanno, quantomeno. Cosa sarebbe venuto a mancare della simmetria che li accomuna, frutto della precisione narrativa che ad intervalli regolari di due, tre pagine per volta, alterna le vicende dell’uno a quelle dell’altra, ma soprattutto della loro uguale condizione – questa sì convincentissima -, di giovani vittime alla mercé di adulti deprivati di scrupoli e coscienza? Credo si sarebbero ancor meglio proposti come eroi della resistenza e dell’attaccamento alla vita, agli affetti, alla verità al di là degli slogan e delle propagande. Due adolescenti intelligenti, coraggiosi e forti, nel vorticoso flusso della follia della violenza. Simmetrici affatto, a dispetto degli opposti schieramenti di fronte, senz’altra geometria che quella della vita e del suo alchemico mistero.