YVONNE FRACASSETTI e MICHELE BRONDINO.
È una storia tutta mediterranea quella che l’editrice italo-francese Teresa Cremisi racconta nel suo primo romanzo La Triomphante. Un romanzo in gran parte autobiografico che fa il bilancio di una vita fatta di migrazioni attraverso un mare che continua ad essere “ce que le font les hommes” (Braudel), un mare dove la Storia continua a calpestare le storie degli uomini, a fare e disfare il loro destino, fino a diventare il cimitero liquido di oggi. E’ una storia di esilio quella della protagonista adolescente nata ad Alessandria d’Egitto in una delle tante famiglie europee dell’epoca coloniale, fuggita in Italia con i genitori nel 1956 quando Nasser nazionalizza il canale di Suez , si riappropria del proprio Paese e vuole guidare il mondo arabo verso l’emancipazione dall’Occidente. Albert Camus ci ha insegnato che al di là delle differenze sostanziali imposte dalla Storia, l’esilio, qualsiasi esilio, rimane per tutti una lacerazione dell’anima, una separazione interiore che ognuno deve affrontare e gestire con il proprio bagaglio. Il bagaglio della giovane Teresa Cremisi sta tutto racchiuso nella prima frase del romanzo - J’ai l’imagination portuaire – e nella convinzione che l’essere nata in un porto segnato dalla Storia, une charnière du monde, à la croisée de tous les chemins, abbia costituito la carta vincente da giocare per farsi strada nella grigia e orgogliosa Europa dove la diversità è percepita con diffidenza.
In un momento in cui l’esplosione delle migrazioni nel mondo convive con i peggiori fanatismi e con il riaccendersi dei nazionalismi esasperati, la leggerezza con cui Teresa Cremisi parla dell’inconsistenza delle sue origini e della frammentazione della sua identità, è un balsamo per l’anima e uno straordinario strumento di speranza per la ragione.
Non parla di nazionalità ma di passaporti. Il padre imprenditore ha un passaporto italiano che, durante la guerra, per sfuggire agli inglesi, lo costringerà a rifugiarsi nelle campagne del delta del Nilo, anni belli in cui condivise la vita dei contadini egiziani. La madre, fantasiosa e artista, possiede un passaporto britannico anche se non ha mai messo piede in Inghilterra e, negli stessi anni di guerra – che concedono alle donne margini temporanei di libertà – impara a guidare le ambulanze e i veicoli fuoristrada. Tutto questo per significare che il mondo originario della piccola Teresa non è fatto di radici che sprofondano in una storia antica e monolitica ma del “sentimento che tutto è provvisorio” e che “è inutile farsi illusioni”. L’appartenenza, che è il filo rosso del racconto, viene quindi svuotato da ogni dimensione simbolica. La differenza non stava nella o nelle nazionalità ma nel fatto di possedere o no un passaporto, ciò che distingueva gli europei dall’egiziano comune.
Si fa acuta l’analisi dell’autrice quando osserva che questo flou della nazionalità, questa inconsistenza dell’appartenenza corrispondeva ad una percezione della ricchezza e della povertà altrettanto instabili: “eravamo ricchi ma coscienti che era una fortuna o un caso. La ricchezza non era la conseguenza di un lavoro meritevole … neanche la ricompensa di una virtù o di uno stato definitivo che poteva assicurare un futuro confortevole. … L’equilibrio era instabile”. Un’ osservazione sulla quale la futura manager, “guerriera del capitalismo” continuerà a meditare : “il legame , così evidente nel mondo occidentale, tra il lavoro, il merito, la riuscita sociale da una parte, il denaro dall’altra, non era scontato per loro, non esisteva”.
La loro patria, come la loro lingua, non fu data ma scelta e fu la Francia. Mais une France si douce, si méditerranéenne, si lumineuse. La Francia del sud dove madre e figlia trascorrevano ogni estate e dove li raggiungeva il padre tornando dal suo giro d’affari in Italia, per riprendere con loro la nave che da Genova li riportava in Egitto. La Francia di cui scelsero la lingua quotidiana che Teresa perfezionò presso la scuola di Notre Dame de Sion ad Alessandria. Non a caso l’autrice si rifà a La lingua salvata di Elias Canneti e parla di lingua “scelta” visto che oltre l’italiano e il francese parlava il greco con la balia e l’arabo con il fedele Mohammed e non riuscì a capire che lingua parlassero tra di loro i nonni nati l’uno a Costantinopoli, l’altra a Ceuta, o ancora a Bagdad da un padre anglo-indiano. Con la stessa leggerezza sceglie la sua religione, verso i dieci anni , stanca di essere l’unica, a scuola, fra cristiane e musulmane, a non aver religione: chiede di essere battezzata e i suoi genitori, sorpresi, ritengono sia “una buona idea”.
Questo è il bagaglio con cui la giovane Teresa affronterà il mondo occidentale: il sentimento che non c’è appartenenza che tenga, che tutto è provvisorio e che la strada te la devi costruire ovunque con le tue proprie mani: l’esilio diventa allora una sfida aperta.
Nonostante una certa agiatezza economica, partono come molti esiliati, con tre valigie che non contengono “nulla della loro vita anteriore”, con i loro risparmi nascosti negli orli dei vestiti, sufficienti per assicurare gli studi alla figlia e una prima sistemazione a Milano dove il padre ha trovato lavoro, ma comunque insufficienti per evitare di deprimersi nelle stanze anguste di un appartamento troppo stretto dove padre e madre finirono i loro giorni come “due naufraghi su una zattera” senza rivedere più il loro paese, l’Egitto. Il naufragio, la giovane Teresa lo evita, certo, con la vitalità della gioventù ma anche grazie all’assenza di radici sedimentate, monolitiche e gelose della propria identità, che avrebbero ostacolato la sua apertura al mondo e grazie al messaggio di Stendhal nella Chartreuse de Parme, quando il conte Mosca avvisa Fabrizio in partenza per l’Italia che la flessibilità è un’arma straordinaria, che “le regole, i codici, gli usi e costumi, come quelli del whist, sono un gioco, niente di più”. Un vero trattato di sopravvivenza dice la giovane Teresa che, per superare le difficoltà di adattamento a Milano, metterà in pratica questo prezioso insegnamento: capire l’ambiente in cui sei capitato, se couler dans le moule (calarsi nello stampo), fino a dissimulare le differenze se queste non piacciono. Non è un tradimento né una capitolazione, è la ricerca di un equilibrio per non essere esclusi, un “esercizio di mimetismo”, un balancier perpétuel , costrittivo certo, ma via maestra per capire l’ambiente nuovo e farsi accettare.
Non così disponibili, i suoi genitori , disinvolti e autonomi ad Alessandria, finiscono “incollati l’uno all’altro in una sinistra solitudine” mentre a lei, camaleonte intelligente, perfettamente consapevole e stratega del suo gioco, si aprono tutte le porte a scuola, all’università e infine nel mondo del lavoro dove da giornalista assumerà rapidamente responsabilità manageriali e incarichi di prestigio, prima a Milano da Garzanti poi a Parigi da Gallimard e Flammarion, che la porteranno alla direzione dei maggiori gruppi editoriali europei.
Il successo nella carriera non acceca Teresa Cremisi che fa nelle pagine de La Triomphante un bilancio lucido del suo percorso di esiliata: l’Orient de ma jeunesse, confessa, con i suoi profumi e i suoi colori inebrianti, è finito come i gioielli di famiglia in un cofanetto. A forza di prudenza, “mai trionfante, sempre prudentemente dissimulata”, ha vinto, ma con” il temperamento alterato e i sogni anestetizzati”. Si è adattata al cambiamento come “una pianta rampicante alle fantasie del suo giardiniere”. Intanto, anno dopo anno, l’Occident de mes espoirs al quale si era adattata con caparbietà, si è ridotto “a una successione di uffici in un universo urbanizzato e monotono … ad un’assimilazione grigia ottenuta a forza di serietà e rinunce”. La lucidità rimane il tratto saliente della sua analisi ed è convinta, come Camus che lo aveva capito ma non vi si sottomise (Je ne suis pas né pour accepter l’Histoire) , che è soltanto le jeu de l’histoire qui décide; mentre accenna appena, ma con dolore, allo sfascio del suo Oriente, fa una lettura lungimirante della crisi dell’Occidente che l’ha piegata: “Anche da questa parte del Mediterraneo il mondo stava per restringersi; il vigore e lo slancio della storia passata avrebbero lasciato il posto ad un ragionevole ripiegamento, progressivo certo, ma irreversibile. La faglia sulla quale ero vissuta si rivelava essere una frattura appena camuffata. L’inizio del crollo”.
La volontà di integrazione non è mai servile né accecante; i legami con l’Italia non le impediscono di fare una lettura molto lucida, talvolta spietata, delle contraddizioni della società italiana; l’ammirazione per la lingua e la patria scelta, la Francia, la sua cultura, lo spessore del dibattito intellettuale non perdono quota anche se, ormai figura di spicco dell’editoria francese, si vede negato il diritto alla cittadinanza francese. Ma ogni battaglia, persa o vinta che sia, è oggetto di riflessione, tappa di un percorso personale di appropriazione di se stessa. Spiega così il suo desiderio di ottenere anche la nazionalità francese: “Correvo dietro ad un simbolo famigliare mentre mi davo le arie di un’Europea socialmente ben sistemata. Correvo come una matta perché le nostre storie, così incerte e sbrindellate, trovassero uno zoccolo definitivo. Perché gli itinerari a zigzag delle generazioni precedenti avessero un fine. Per tornare al porto”.
Come non ricordare il fascino del Mediterraneo in Camus: “ Sono cresciuto nel mare … poi ho perso il mare… Da allora aspetto, aspetto le navi del ritorno, la casa delle acque, il giorno limpido” (La mer au plus près). Non possiamo certo pronunciarci sulla dimensione esistenziale della nostalgia della protagonista, ma le ultime pagine del romanzo lasciano pochi dubbi in merito al desiderio di rifare a ritroso il percorso fino a ritrovare le sensazioni del paese d’origine. L’autrice non ha ancora deciso, ma la protagonista de La Triomphante, quando giunge l’ora, si lascia alle spalle la carriera, si ritira ad Atrani, un villaggio sperduto della costa amalfitana dove cuoce al sole sugli scogli, dove raccoglie i ricci della sua infanzia, sente il vento cambiare, annusa gli effluvi dei limoni e aspetta le navi. Torna alla passione inculcatale dal padre: le navi; le aspetta, le spia, le studia su Internet, dà “un nuovo slancio alla sua passione infantile”. La sua preferita è La Triomphante, una corvetta del XIX sec. che sfida le onde, a vele spiegate. C’est le bateau de sa jeunesse, ma, soprattutto è il nome che l’ha sedotta, l’idea di poter “imbarcare a bordo di una nave francese che le avesse assicurato i trionfi dell’avvenire”. C’è da prendere e da lasciare sempre e ovunque; la Francia l’ha affascinata ma non le ha concesso il sigillo della nazionalità (se le nostre fonti giornalistiche sono esatte, l’autrice, grazie a François Hollande, ha recentemente acquisito la cittadinanza francese). Ma non importa, “ Sono stata fortunata – conclude la protagonista – ma non c’è stata Triomphante per me”.
Eppure sì, il suo trionfo è stato quello di non soccombere all’esilio, di non irrigidirsi in “identità assassine” (A. Malouf), di fare delle incertezze delle sue origini, della fragilità delle sue radici, un viatico per aprirsi al mondo, per lasciare sempre una porta aperta al destino, per non arroccarsi in categorie o ideologie definitive. Ha dimostrato che la sfida del l’esilio si può vincere non solo con il lavoro e la tenacia, ma con la flessibilità, la comprensione del l’ambiente che ti accoglie, la certezza che nessuno possiede la verità. L’esilio e il confrontarsi ad altro diventano una necessità: lascia Milano, “per cambiare paese”, cambia ambiente, cambia mestiere, si rimette continuamente in questione, come la corvetta che solca i mari e le vele che captano i venti. Questo è il trionfo, adattarsi e non insabbiarsi : vivere in bilico, non più fondersi nella società ma saper “guardare il mondo” consapevoli del gioco e “vivere l’avventura”.
Il trionfo sta nel viaggio, non nel risultato. Anche questo Teresa Cremisi aveva captato dal suo conterraneo, il poeta alessandrino C. Kavafis, un altro dei suoi fari, quando nei versi della poesia Itaca dice:
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.