GABRIELLA MONGARDI.
Volendo parlare di “fuoco” nella rubrica di Narrativa, la mente corre inevitabilmente a Il fuoco di Gabriele D’Annunzio (1863-1938).
Uscito nel 1900, Il fuoco sembra un precursore di Morte a Venezia, che Thomas Mann pubblicherà dodici anni dopo, visto che i due libri intrecciano gli stessi motivi: Venezia, la musica, l’arte, l’amore, la morte… Chissà se lo scrittore tedesco lo conosceva, o se si esprime in entrambi lo Zeitgeist primonovecentesco, sospeso tra naturalismo ed estetismo, decadentismo e superomismo, classicismo e sperimentalismo?
Non è questa la sede per un’analisi comparata dei due romanzi, andrei ‘fuori tema’: mi concentrerò perciò sull’opera di D’Annunzio e sul tema del fuoco, che dà il titolo a tutto il romanzo e alla sua prima sezione, L’Epifania del fuoco, pur ritornando ovviamente anche nella seconda, L’impero del silenzio. “Ovviamente”, perché il romanzo – come la musica wagneriana di cui parla – è costruito con la tecnica dei leitmotiv.
Spiega il protagonista Stelio Effrena alla sua amica, la Foscarina: «Sai tu che cosa sia un Motivo? Una piccola sorgente da cui può nascere una greggia di fiumi, un piccolo seme da cui può nascere una corona di foreste, una piccola favilla da cui può nascere una catena d′incendii senza termine: un nucleo produttore d′infinita forza insomma». Già qui troviamo la metafora ignea a indicare il germe dell’ispirazione, e più volte ritorna nel romanzo la catacresi “il fuoco sacro dell’arte”. Il culmine è in queste righe dedicate a Giorgione: Giorgione rappresenta nell′arte l′Epifania del Fuoco. Egli merita d′esser chiamato ‟portatore di fuoco”, a simiglianza di Prometeo.
Altrettanto scontato – e inevitabile – è l’abbinamento tra il fuoco e la passione amorosa: è la Foscarina a citare il verso di Gaspara Stampa Vivere ardendo e non sentire il male, come programma di vita di una donna innamorata, ella pure artista, pronta a votarsi interamente all’arte dell’amato: “Io sarò contenta di vederti vivere, di vederti gioire. E fa di me quel che tu vuoi!”.
Ma il fuoco, come vuole Eraclito (a cui risale il titolo di quest’articolo), è artefice di mutamento, cioè di vita (Veggo dinanzi al fuoco mutarsi tutte le cose, scrive D’Annunzio), ed è anche il simbolo dell’inesauribile energia vitale di Effrena, il calore della sua anima appassionata e veemente che traspare a traverso il cristallo della sua parola.
Nella fucina di un vetraio a Murano, assistendo alla forgia del vetro, ‟Virtù del fuoco!” pensava l’animatore, sottratto all′inquietudine dalla miracolosa bellezza dell′elemento che gli era familiare come un fratello dal giorno in cui aveva trovata la melodia rivelatrice. L’officina del vetraio diventa un tempio dove si celebra un rito sacro: il vetraio, come lo scrittore, è il “Maestro del Fuoco”.
Nella sede del fuoco, furono avviluppati dall′alito igneo, si trovarono davanti alla grande ara incandescente che diede ai loro occhi un barbaglio doloroso come se le ciglia d′un tratto avvampassero.
‟Scomparire, essere inghiottita, non lasciar traccia!” ruggiva il cuore della donna ebro di distruzione. ‟In un attimo quel fuoco potrebbe divorarmi come un sermento, come un fuscello”. Ed ella si avvicinava alle bocche aperte per ove si scorgevano le fiamme fluide, più splendide del meriggio d′estate, avvolgere i vasi di terra in cui fondevasi il minerale informe che gli artefici attorno disposti dietro gli anzipetti attingevano con una canna di ferro per foggiarlo col soffio delle labbra e con gli ordegni dellarte.
È in pagine come questa che rifulge il miglior D’Annunzio: saldamente ancorata alla realtà, la sua parola la descrive con una precisione inaudita e insieme la interpreta, la impreziosisce, la trasfigura.
Altrettanto trionfale la descrizione dei fuochi d’artificio a Venezia, alla lettera “ l’Epifania del Fuoco”, in una pagina di altissimo virtuosismo verbale. Ma come in ogni scrittore di genio, la cura per la parola non è fine a se stessa. Non solo esprime infatti una commovente devozione per lo strumento umano per eccellenza, la lingua, che ci mette in contatto con gli altri, ci apre al mondo, ci spiega a noi stessi; la straordinaria duttilità e ricchezza del lessico dannunziano si risolve – e si dissolve – in una musica misteriosamente ammaliatrice, ultimo vero approdo di qualunque arte.
Folgori di gioia crepitarono nel cielo. Mille colombe ardenti s′involarono dai pinnacoli di San Marco, messaggere del Fuoco.
– L′Epifania del Fuoco! – esclamò la Foscarina, uscendo sul Molo, dinanzi allo spettacolo allucinante. […]
Tutte le apparenze innumerevoli del Fuoco volatile e versicolore si spandevano pel firmamento, strisciavano su l′acqua, si avvolgevano alle antenne delle navi, inghirlandavano le cupole e le torri, ornavano le trabeazioni, fasciavano le statue, gemmavano i capitelli, arricchivano ogni linea, trasfiguravano ogni aspetto delle architetture sacre e profane nella cui chiostra il bacino profondo era come uno specchio malioso che moltiplicava le meraviglie. Attoniti gli occhi non più distinguevano i confini e le qualità degli elementi ma erano illusi da una visione mobile e smisurata ove tutte le forme vivevano d′una vita lucida e fluida, sospese in un etere vibrante; così che le snelle prore ricurve su l′acqua e le miriadi di colombe d′oro pel cielo sembravano gareggiar di leggerezza nel volo consimile e attingere le sommità degli edifizii immateriali. Era veramente un tempio edificato dai genii alacri del Fuoco quello che nel crepuscolo era parso un argenteo palagio nettunio construtto a similitudine delle tortili forme marine. Era veramente, ingigantita, una di quelle dimore labirintee fondata sul ferro degli alari, alle cui cento porte appaiono i presagi bifronti e fanno gesti ambigui alla vergine che spia; era, ingigantita, una di quelle fragili reggie vermiglie alle cui mille finestre s′affacciano per un istante le principesse salamandre e ridono voluttuosamente al poeta che medita. Rosea come una luna occidua raggiava su la triplice loggia contigua la sfera della Fortuna portata dagli omeri degli Atlanti; e nasceva dal suo riflesso un ciclo di satelliti. Dalla Riva, da San Giorgio, dalla Giudecca, con un crepitìo continuo, fasci ignei di steli convergevano all′alto e vi si schiudevano in rose, in gigli, in palme, in paradisiaci fiori, formando un giardino aereo che struggevasi e rinnovellavasi di continuo con fioriture sempre più ricche e strane. Era come una vicenda rapida di primavere e di autunni superni. Una immensa pioggia favillante di petali e di frondi cadeva dalle dissoluzioni celesti e avvolgeva tutte le cose nel suo tremolìo d′oro. Scorgevasi lungi, verso la laguna, per entro gli squarci che s′aprivano in quel folto, avanzarsi una flotta pavesata: una torma di galere simiglianti forse a quelle che navigano nel sogno del lussurioso dormente il suo ultimo sonno in un letto pregno di profumi mortali. Come quelle, forse, esse portavano cordami composti con le capellature rattorte delle schiave predate nei paesi di conquista, tuttavia stillanti d′olio soave; come quelle, avevano le stive cariche di mirra, di spicanardo, di belzuino, di eleomele, di cinnamomo, di tutti gli aromati, e di sandalo, di cedro, di terebinto, di tutti i legni odoriferi in varii strati. Gli indescrivibili colori delle vampe, ond′esse apparivano pavesate, evocavano i profumi e le spezie. Azzurre, verdi, glauche, crocee, violacee, di mescolanze indistinte, le vampe sembravano sprigionarsi da un incendio interiore e colorarsi di sconosciute sublimazioni. Non altrimenti avvamparono forse, negli antichi furori del saccheggio, i riposti serbatoi d′essenze destinati a macerar le spose dei principi sirii. Or così, nell′acqua cosparsa delle materie fuse che gemevano per le carene, la flotta magnifica e perduta s′avanzava verso il bacino lentamente, quasi fossero ebri sogni i suoi piloti e la conducessero a consumarsi, in conspetto del Leone stilite, come una gigantesca pira votiva da cui dovesse l′anima di Venezia restar profumata e stupefatta per l′eternità.
– L′Epifania del Fuoco! Quale impreveduto comento alla vostra poesia, Èffrena! La Città di Vita risponde con un prodigio al vostro atto di adorazione. Ella arde tutta, a traverso il suo velo d′acqua. Non siete pago? Guardate! Milioni di melagrane d′oro pendono ovunque.
Ondivago e fluttuante come la fiamma, Il fuoco si rivela un testo di straordinaria modernità, quasi un antiromanzo, proprio per quelli che si potrebbero considerare di primo acchito dei difetti, ossia la staticità, l’esilità della struttura narrativa, la preziosità oscura del linguaggio.
Ma descrizioni spettacolari come quella delle Dolomiti al tramonto, viste dalla Laguna, riscattano qualunque ‘difetto’, per il sentimento del Tempo e della Natura cui danno umilmente voce, nell’antitesi tra l’antica città dell’uomo e la città enorme e sola dell’Alpe, eternamente giovane.
Il sole stava per toccare la gigantesca acropoli delle Dolomiti. La falange delle nuvole si scompigliava come se combattesse, trapassata da innumerevoli dardi splendenti, e si copriva d′un sangue meraviglioso. Le acque allargavano l′immensa battaglia combattuta intorno alle torri inespugnabili. La melodia s′era disciolta nell′ombra delle isole già discoste. Tutto l′estuario s′ammantava d′una magnificenza cupa e guerriera come se una miriade di vessilli vi s′inclinasse. E il silenzio non attendeva se non un clangore di trombe imperiali.
La donna non trovò parole nel suo sgomento improvviso. Entrambi tacquero; e fissarono le punte aguzze della catena lontana che fiammeggiavano come se allora fossero uscite dal fuoco primordiale. Lo spettacolo di quella grandezza deserta ed eterna moveva nei due spiriti un sentimento di misteriose fatalità e quasi un terrore indistinto ch′essi non sapevano né vincere né scrutare. Venezia era oscurata da quella massa di porfidi roventi: giaceva su le acque tutt′avvolta in un velario violaceo ond′emergevano i suoi steli marmorei, lavorati dagli uomini per custodirvi i bronzi che danno il segno delle preghiere consuete. Ma le opere e le preghiere consuete degli uomini, ma l′antica città stanca d′aver troppo vissuto, ma i marmi disgiunti e i bronzi consunti, ma tutte quelle cose oppresse dal peso delle memorie e periture s′umiliavano al paragone della tremenda Alpe affocata che lacerava il cielo con le sue mille punte inflessibili, città enorme e sola, forse in attesa d′un giovine popolo di Titani.