GABRIELLA MONGARDI.
I Contes indiens di Stéphane Mallarmé – scritti nel 1893, pubblicati postumi nel 1927, e riproposti recentemente in abbinamento al “Sole 24 Ore” (Racconti indiani, trad. it. a cura di C. Manfredi, Passigli, Firenze 1991) – non ci fanno scoprire un improbabile Mallarmé narratore (troppo esigente, troppo ‘assoluta’ la sua concezione della lingua, per approdare alla prosa narrativa), ma un Mallarmé ‘editor’ che, sollecitato dalla sua amica Méry Laurent, ha corretto da par suo l’opera di Mary Summer (1842-1902) Contes et légendes de l’Inde anciennes, dando nuova veste linguistica a quattro dei sette racconti di quella raccolta. E che veste!
Si è trattato di una vera e propria riscrittura: e non poteva essere altrimenti, essendo l’editor un grande poeta e un grande ammiratore, da lontano, dell’India, di cui avvertiva tutto il fascino estetico, filosofico e… linguistico. Mallarmé poeta infatti porta a compimento il processo di svalutazione dei moduli poetici tradizionali e di ampliamento dei confini del poetabile iniziatosi in Francia con Baudelaire e proseguito con Verlaine e Rimbaud, e insieme inaugura una nuova fase: la parola in lui acquista un potere magico, incantatorio, creatore di realtà; diventa parola ‘assoluta’, liberata da tutte le incrostazioni che l’uso ha depositato su di essa, in grado di approssimarsi al mistero che occhieggia al di là delle cose. La poesia per Mallarmé è lo strumento privilegiato di spiegazione dell’universo. La tecnica da lui impiegata nella sua opera poetica richiama il dhvani caratteristico della poesia in sanscrito: cioè quella particolare risonanza, quella suggestione che distingue la poesia dalla lingua della comunicazione quotidiana, utilitaristica. Del resto, sanscrito significa “lingua divina, perfetta”, in opposizione alla prakrta, la lingua corrente, poco curata, e questo culto di un idioma divino non poteva non toccare da vicino il maestro dei simbolisti.
La lingua di Mallarmé, in questa riscrittura, è una lingua raffinata e sensuale, in cui si raccoglie e palpita tutta la musica misteriosa dell’India, con le sue vibrazioni arcane; una lingua ‘lirica’ perché in realtà non narra, ma evoca con pennellate impressionistiche figure e azioni, illuminandole con lampi di enallagi, metafore, similitudini, iperboli fantastiche, di profonda suggestione – una scrittura ‘quantica’, in cui al tessuto continuo del reale si sostituisce la coscienza che le cose esistono solo quando lo scrittore le nomina. E la storia si costruisce per successivi bagliori, nell’interazione tra la parola e l’evento, impalpabile eppure potentissima nell’avvincere a sé tenacemente il lettore.
È questa la prima sorgente del lirismo di queste pagine, perché di narrazione lirica si tratta. Eppure non c’è niente di autobiografico in questi racconti, nessun andamento diaristico o di confessione, nessun io narrante: le allusioni al proprio vissuto sono filtrate fino a divenire irriconoscibili attraverso un gioco di specchi tra personaggi e scrittore, che dissolve l’io biografico nel momento stesso in cui lo dissemina nel testo. Ma la fiamma della lirica traluce attraverso l’intensità della scrittura, la sintassi rivoluzionaria, lo splendore delle immagini, le tematiche…
La seconda sorgente di lirismo è l’India stessa: un’India favolosa, mitica, in cui la passione lirica per eccellenza, l’amore, trova il modo di dispiegare tutta la sua sovrumana potenza. Come nel romanzo greco di età ellenistica, come nei romanzi in versi medievali della Tavola Rotonda, i protagonisti sono principi e principesse e l’amore è sottoposto a prove: suoi alleati la giovinezza, la bellezza e la nobiltà d’animo degli amanti, che trionfano di tutte le difficoltà.
Il primo racconto, Il ritratto incantato, si apre con un’agnitio: un bambino di stirpe regale, creduto morto nella foresta, Upahara, si presenta dopo anni alla sua nutrice, diventata per il dolore un “fantasma di donna” e con il suo aiuto ritrova la bella Sundari, che gli era stata promessa in moglie, prima ancora della nascita, dalle loro madri che erano amiche. Il momento culminante, il primo incontro tra i due innamorati, è di nuovo un riconoscimento: «Ti riconosco, tu che io conoscevo già prima di nascere. […] Tu mi appartieni dai tempi dei tempi». La conclusione con movimento circolare ritorna “nel piccolo tempio alle porte polverose della città” dove la storia era incominciata, e sottolinea il cambiamento avvenuto in Upahara, che grazie ad un’abile e spregiudicato stratagemma (quello del ritratto incantato che dà il titolo al racconto) “si è riconquistato”.
Nel secondo racconto, La finta vecchia, l’amore compare invece in secondo piano, come corollario inevitabile della giovinezza e della bellezza: in primo piano sono la forza d’animo, l’astuzia, la solidarietà sororale di due principesse adolescenti, orfane di madre, che per sfuggire alle angherie della matrigna lasciano il loro palazzo e vanno nella foresta, luogo di mille pericoli. Il peggiore è però la loro separazione, che terminerà quando le due principesse sorelle scopriranno di aver sposato due principi fratelli. Il racconto è punteggiato di massime: «Ogni giorno portava con sé il suo tormento»; «Avendo una grande opera da compiere, niente la scoraggiava»; «Dopo tante avventure avevano meritato la felicità che è muta», che ne disegnano la parabola (dal tormento alla felicità) e ne danno la chiave interpretativa: rimanere fedeli al proprio sogno segreto, senza mai perdersi d’animo.
«Gli uomini, degni di rimanere tali, se li sfugge la prosperità non si abbandonano a se stessi e sanno, un giorno o l’altro, trionfare sul destino avverso» è la conclusione del quarto racconto, l’unico che ha per titolo i nomi dei protagonisti, Nala e Damayanti, e come tema centrale la potenza dell’amore umano, che osa opporsi al volere degli dei, ne paga il prezzo con la perdita di tutto, perché «ogni felicità non fa che allontanare di qualche giorno l’angoscia, non la distrugge», ma infine ritrova lo splendore, la pienezza in un “bacio sempre, passato, futuro, perpetuo” grazie alla “sublime immolazione del vero amore”: «lei stessa si dimentica e cerca scuse a chi la precipitò nell’infelicità».
Il trionfo sulla sorte ostile è il tema anche del terzo racconto, Il morto vivente. La protagonista femminile, Lakshmi, deve lasciare il regno natio per le calunnie della cognate e vagando terrorizzata nella giungla trova riparo nel monumento sepolcrale di un principe, Chandra-Rajah, che per un incantesimo ogni notte torna in vita per due ore. Il macabro del tema è dissolto dal senso profondo di mistero che la storia sfiora nel suo ardore di conoscere, e dalla consapevolezza che “l’amore trae dalla morte la sua maestà più alta”: in una variante nuovissima dell’intreccio di amore e morte.
In questo lavoro di editor Mallarmé trova anche l’occasione per riproporre, prendendo a prestito una maschera di alterità orientale, motivi ricorrenti nella sua poesia, il tiro di dadi, intorno a cui ruota il calligramma Un coup de Dés jamais n’abolira le Hasard, e il cigno. Il cigno (che nella tradizione indù rappresenta Brahma, l’Assoluto) nella poesia Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui è il poeta – prigioniero del lago gelato della mancanza di ispirazione, della perfezione impossibile, della poesia non raggiunta – che nel vano tentativo di prendere il volo protende il suo bianco collo verso il cielo. Entrambi i motivi ritornano nell’ultimo racconto, Nala e Damayanti: i dadi come emblema della passione del gioco che causerà la rovina di Nala, e strumento della vendetta degli dei, disprezzati da Damayanti per amor suo; il cigno come messaggero d’amore – la passione assoluta che riempie la vita, come la poesia…
I Contes indiens di Mallarmé, nati come letteratura di secondo livello, si rivelano quindi “variazioni sul tema” elegantissime e ispiratissime: a riprova che la bacchetta magica della poesia trasfigura tutto ciò che tocca in alcunché di ricco e strano – parola di Montale (e di Shakespeare).