Tinoshi – Andrà Tutto Bene (E Altre Bugie)

Tinoshi - Cover

LORENZO BARBERIS.

“There shall be no love lost.”
Ben Johnson,
Every Man out of His Humour
(1598)

“Andrà tutto bene (e altre bugie)” di Tinoshi, edito dalla Manfont Comics è un albo molto interessante, fin dal titolo, in bilico tra un garbato e sognante idealismo e le stilettate (sottili, ma proprio per questo più acute) di realismo a volte anche un po’ amaro.

Fin da subito appaiono in cover i quattro suoi personaggi ricorrenti, come quattro Beatles ad Abbey Road: guida il corteo lo stesso Tinoshi, seguito dalla Scrittrice, dalla Cinica e in chiusura dal Dormiglione.

Tinoshi, finora autore soprattutto di webcomics (qui il suo sito), li identifica anche con quattro emoticon tra le più ricorrenti di internet: tristezza, allegria, rabbia, perplessità. Una moderna dottrina degli umori, insomma (nell’ordine: melanconico, sanguigno, bilioso, flemmatico).

Quattro sono i personaggi, quattro le vignette di ogni striscia, secondo il modello assoluto della striscia americana, codificatasi verso gli anni ’50-’60: i Peanuts (il primo fumetto, secondo l’Eco di “Apocalittici e integrati”, ad aver pienamente raggiunto lo statuto dell’Arte).

Quattro vignette dunque disposte in quadrato, che in questo libro si compongono a formare una sorta di tavola con otto vignette per pagina (2 X 4), anche se ogni strip conserva la sua autonomia.

Il riferimento ai Peanuts appare anche nel personaggio aggiunto a quest’albo, il Gabbiano, tratteggiato con tre tratti che ricordano l’estrema sintesi visiva del Woodstock di Schultz.

Ma poi tanto altro rimanda a quel mondo, sia pur trasformato con personaggi più adolescenti e con lenti a tratti meno sognanti e più ciniche: l‘amore impossibile (non per la next door girl dai capelli rossi, ma per una modella svedese) del protagonista, un adorabile inetto come Charlie Brown (anche se l’amico-spalla non ha la vivace intelligenza di Linus Van Pelt, ma è appunto più dormiente).

La Scrittrice, apparentemente gentile ma poi raffinatamente perfida, può ricordare Sally Brown (ma i rapporti parentali sono diversi), mentre la Cinica ci potrebbe richiamare la Lucy in una transitoria fase goth-adolescenziale.

E poi la Scrittrice scrive come Snoopy, e stimola Tinoshi a scrivere alla Modella come Charlie fa con l’amico-di-penna. E altre connessioni si potrebbero trovare (le giravolte dei personaggi di fronte allo stupore, ad esempio).

Ma, appunto, Tinoshi usa le convenzioni create dai Peanuts con fedeltà ma autonomia. Non è un’opera manierista: dei Peanuts resta quanto questo fumetto ha inscritto a fuoco nelle convenzioni della striscia. Non è nemmeno una decostruzione intenzionale e caustica come South Park (il cui esasperato cinismo, volutamente senza momenti lirici, è per paradosso più rassicurante).

La cosa diviene evidente nel tratto, che ha perseguito altre vie: certo c’è qualcosa di nipponico, influenza inevitabile per la generazione degli ’80 cui Tinoshi pertiene (e come dichiarato fin dal nom de plume, del resto). Un segno nipponico sia in alcuni stilemi (ulteriormente sintetizzati), sia in una certa estetica zen, rarefatta, da haiku della battuta (magari haiku piemontese, come quelli del poeta Nicola Duberti, ma sempre haiku nella impalpabile, ricercata leggerezza). Nipponico è anche l’uso insistito ed efficace delle retinature.

C’è anche, soprattutto, B.C. Wizard of Id di Johnny Hart, come colto correttamente nella bella introduzione al volume di Roberto Totaro, il creatore di “Nirvana”. Il tutto mescolato con una buona consapevolezza della storia dell’arte novecentesca, astutamente dissimulata e senza vistosi, barocchi citazionismi, o forse più presente come background inconscio che come costruzione intenzionale.

La duplice esplosione a p.82, ad esempio, rimanda a Roy Lichtenstein; p.104 quasi fa il verso al Warhol più famoso, negli elementi d’arredo (la macchina per scrivere) si coglie una sintesi cubista (che era più evidente nelle precedenti strisce isolate, in personaggi come lo Sciamano ad esempio); la nitidezza di certi equilibri visivi (soprattutto sul finale) sembra orecchiare Mondrian, e qua e là c’è qualche citazione – a livello di testo – degli impressionisti.

L’esile trama che collega tra loro le varie strisce (altro retaggio dei Peanuts…) scorre così fluidamente verso l’ultima pagina; la cosa che più colpisce, come già accennato, è la capacità di mantenere l’equilibrio di una levità garbata anche quando non si esita a mostrare qualche affondo più amaro (e non solo – e non tanto – quando la Cinica sembra riscrivere lo Pseudo-Neruda alla luce nera di Poe), dissimulandolo subito nel sorriso sghembo dell’umorista.

Nel complesso, quindi, un piccolo albo molto gradevole, una collezione di delicati haiku sabaudi in bilico tra la divertita ironia e un certo pessimismo melanconico che sembra a volte trasparire.