Frontiera

maione

ANNA STELLA SCERBO

È responsabilità della società far sì che un poeta sia un poeta”[1]

Vanto e vergogna della nostra storia
il Sud è una ferita insoluta
nella carne segnata di sconfitte
di Sud potremo vivere o morire […]
 
… Quaggiù la vita è un’isobara causale […]
dove ardenti, nel cono allusivo
d’una luna bugiarda
planano i venti dai tropici del mito […]
 
… sfuggito di mano al Creatore
Questo lembo di terra indeciso
se appartenere all’Africa o all’Europa
Tra l’una e l’altra libero
d’essere marocchino o norvegese
restò sospeso come una frontiera
salino, inamovibile diaframma […]
 
Pina Majone Mauro, ha scritto questi versi. A lei che è poeta, radici e appartenenza hanno affidato la responsabilità di farsene depositaria e messaggera, e di vivere del ricordo, del dolore e del canto.

Il poeta è testimone e anticipatore della storia, della propria e di quella della sua terra. Nella crisi del cambiamento della funzione sociale del poeta stesso, egli da eroe-guida, diviene coprotagonista della storia comune e ne risponde in quanto coscienza narrante. La narrazione in versi di una Calabria verso la quale vale l’affermazione di Giuseppe Berto riguardo la predisposizione a capirla, pena la mancata coscienza dei suoi mali e soprattutto la mancata empatia e commozione con la sua stessa anima, diventa in Pina Majone amore e compassione.

Sappiamo bene come la poesia, che quei mali ha rappresentato, si sia guadagnata i soli meriti legati alla narrazione e al canto di una storia di sudditanza e di dolore e di una costante, quanto inesaudita, voglia di riscatto. Da sempre, non poesia di letteratura ma poesia minore di un’identità sottoposta senza fine all’insulto di una Storia altra. Inchiodata ai principali temi sociali, culturali e storici del nostro Meridione, conclusa e costretta nei confini geografici e ideali che per destino o per volontà le sono stati assegnati non avrebbe conosciuto niente altro che un rassegnato ripiegamento su se stessa.

Pina Majone Mauro, come pochi altri autori del Mezzogiorno, si è sottratta a questo destino di emarginazione. Si avverte, in lei poeta, la stessa sofferenza, in comunione d’animo, delle contrade, dei luoghi, degli uomini. Sofferenza di ricordi laceranti e mai sconfessati a sé e nello stesso tempo mai del tutto confessati. Al punto che dolore e dolore si incrociano, si riconoscono si fanno unico canto, di sé e della propria terra:

[…] questo mare canterà la sua canzone / colonna sonora forse un po’ stonata / al film muto dell’ultima carezza / alla provvisorietà del nostro addio[…]-

…forse la fame, forse un sogno antico / ti portarono lontano da te stesso / da me che ancora avevo / tante cose da dirti[…] tra noi si fecero muro di dolore / […] chiamo la notte a testimone /  che ogni tua partenza ogni mio addio altro non erano per noi che l’anagramma / di ogni sicuro ritorno”.

In quanto poeta, Pina Majone, è sapiente. Per questo, si lega al viaggio profondo, dove riposano le coincidenze tra i sentimenti e gli eventi del passato e quelli che si rinnovano nello svolgersi inarrestabile dei giorni, nella dinamica sempre inconclusa del fare esperienza.

In quanto poeta, Pina Majone è responsabile del canto della vita. È la vita che le interessa. Che sia scacco o sofferenza, interpreta, interiorizza, rappresenta l’Odissea magnifica e terribile di ogni uomo. Non le è dato evitare l’appuntamento con la vita, mancare all’appello che l’attende nei luoghi vivi della sua presenza nell’esistere. Nell’affermazione di Aristotele, sui primi filosofi greci i quali, “poeticamente” pensavano, lavora la vicinanza innegabile tra filosofia e poesia. Nel corso del tempo sembra che le loro strade, in molti momenti vicini, si siano allontanate, ciascuna a raggiungere mete estranee l’una all’altra. La conoscenza, filosofia e poesia, attraversa i territori di tutti i saperi e, in una “soggettività nomade” com’è quella della Majone, esponente dell’intellettualità femminile che si è costruita anno dopo anno, si sono create connessioni e vicinanze tra le proprie sofferte esperienze e quelle che dall’esterno dissolvevano certezze, avanzavano dubbi, segnavano la crisi irreversibile di idee e sentimenti:

[…] come petali fra pagine ingiallite / cibo per i lepismi che divorano / con la follia dei poeti / le nostre storie inedite  /  che quando si mutarono in poesia, /  non furono più lette da nessuno […].

Ed è qui che Majone misura le cose con lo sguardo di uno “che sa” e nello stesso tempo “non sa” e apprende che “tutto ciò che è vero è altro da sé ”. Si inoltra, allora, in un tentativo né facile né dagli esiti scontati. Indagare il mistero che è dentro alla sua terra, alla sua storia, dentro di sé:

 …non è dall’altra parte /  dell’Universo la terra promessa / dalla tua nuova patria forestiera [….] e mi riprendo quel cielo di mezzo /  che in quella nostra notte mai vissuta /  precipitò sul prato […].

Non il Fenomeno ma il Noumeno è il suo traguardo.

Rendere credibile il mistero dell’esistenza, senza la quale la poesia fallirebbe il suo compito, ridotta a non avere contenuti, a privarsi di ogni senso possibile. La sua poesia, metafora o puntuale descrizione, è quella dell’uomo che attende una rivelazione sull’esistenza. Della sua terra, di sé. Lo sguardo, su tutto ciò che nella sua anima o nel mondo si muove, è quello di chi non vuole ridurre a qualcos’altro ciò che sente, ciò che vede, ma di chi continua, con minuziosa dedizione, a fare del proprio destino un destino di poesia. Anche il Cosmo, infinitamente lontano, nello svolgersi quasi metafisico del verso, è chiamato in causa dalla creatura che chiede complicità e ammissione:

[…] nel silenzio delle zolle dove invano / cercasti la supernova che una notte / calda d’Agosto puntava su di noi / astigmatica astrale previsione / per sigillare quel falso giuramento / fatto a dita incrociate sulla bocca.

Majone, nella mappa delle proprie smarrite geografie interiori, nel fiume carsico dei suoi giorni, ricerca ciò che visibilmente possa riabilitare a sé i luoghi della sua anima, ciò che possa farle toccare le sponde della sua patria più intima. Dopo il troppo andare verso mete di solitudine e di dolore, di irriconoscente rifiuto:

 […] quando il tempo del sogno è compiuto /  quando siamo rimasti in pochi /  ostinati a rincorrere /  un cielo che si è sempre negato / alla nostra orgogliosa pochezza… /  Gli anni sono corsi via come il Libeccio / ma la partita non è ancora chiusa / forse è ancora possibile fermarli / ascoltare la voce del Poeta.

È in questo ascoltare che si avverte come il poeta diventi poeta impegnato. Sottilissimo il confine tra poesia lirica e poesia sociale. Se il poeta denuncia un disagio personale, racconta implicitamente il suo tempo, la sua appartenenza ad una storia, ad una terra, alla nostra storia, alla nostra terra e inizia così la ricerca, la denuncia. Comincia il canto. Ed è canto d’amore. Strumento in grado di affermarne identità e coscienza non solo di questa storia e di questa terra ma di ogni storia di ogni terra alla quale, in qualsiasi latitudine, siano toccati in sorte il dolore, la sottomissione, l’offesa.

È un impegno ineludibile, a cui la Majone nega la dimensione del vittimismo, di ogni passiva rassegnazione che sola porterebbe a limiti angusti e chiuderebbe inevitabilmente orizzonti dovuti al salvataggio di un tesoro nascosto nelle profondità del mito:

[…] La nostra verità non fu la storia /  a raccontarla ma il mito che va / sulle scorciatoie del vento […]

… con Efesto dio zoppo e deforme /  che fece di un cratere la sua reggia / ed Eolo che abitò l’ isole dolci  /  fummo signori dei fuochi e di venti […]

[…] scende Selene ad ogni plenilunio / a contemplare Endimione dormiente / nell’antro dell’eterna giovinezza.

Né evita, poiché la sua è voce di donna, i meandri, più ardui da definire ma pulsanti di eguale forza, del ricordo. “Proustiana” memoria dell’intelligenza, è rivivere, ripetere con l’anima le esperienze:

…né puoi avere scordato / che da bambino scalavi le stelle / e sognando di giorno progettavi / castelli di sabbia in riva al mare […].

Proprio perché voce di donna, in un’epoca di parole liquide, oziose, buone per tutti gli usi, parole che immiseriscono il pensiero, che ammalano di insensatezza il linguaggio, la voce della Majone, è voce della chiarezza, dello svelamento della realtà, del disincanto.

Senonché il destino della voce che si fa parole di poesia, è quello che conduce, quasi inavvertitamente, o come scelta voluta dalla coscienza del poeta, verso i territori dell’indeterminatezza, verso lo sfumare di linee precise a favore di uno sguardo più penetrante. È allora che l’andamento dei versi della Majone raffigura quasi un muoversi di interminabile bellezza e terrore nella profondità, categoria assoluta, questa sì, delle viscere di quella terra che tutta contiene, madre dolorosa e paziente, uomini, storie, e i loro dolori e le loro speranze:

[…] Così questa voce che viene / dall’involucro uterino della terra / scivola sul pendìo […].

La Natura, quella della sua terra, mare o cielo, profondità o altezza si svela all’autrice che nella verticalità del verso, acquista vibrazioni di musica:

 …per scalare il cielo impossibile / di questa terra bestemmiata e persa / leghiamoci in cordata  / legata al filo, potrei recuperare / dagli arditi dirupi di granito […] la visuale a oltranza di un negato infinito […]

“[…] umile e preziosa cresce l’erica /  alla carezza del vento / ai bordi di un cielo promesso / scie di comete già passate.

Ogni immagine di lontananza si muove intorno a due fuochi. La parola e il ritmo. È questa rotazione, questa ellissi che avvicina o allontana, volta per volta il dolore, la nostalgia, la perdita.

Facile sarebbe, perciò parlare di musicalità nei versi della Majone. Facile ma non vero per i suoi versi. Ciò a cui lei obbedisce è il pulsare di sensibilità e ragione che non confliggono, ma si organizzano in una sintassi dagli echi leopardiani e meglio ancora montaliani, per cui il messaggio è reso più intenso e le atmosfere più lontane e quasi incantate:

il tempo allineò le nostre notti / alla voce del mare /  alla fase calante della luna / al lume pietoso delle stelle / e le infilò come perle bucate al nostro sogno assurdo e ricorrente […].

Viene chiesto molto alla parola nelle poesie della Majone, caricata com’è di un’ulteriore responsabilità, quella di viaggiare entro confini e limiti ma ancor più di cercare orizzonti nuovi alla sua stessa parola di donna poeta. Parola materica e parola, nello stesso tempo, sopravvissuta al sogno e all’urto col reale, parola di cose e di suoni che le rinnovano e perciò stesso affrancata dalla necessità di essere disciplinata dalla punteggiatura:

[…] è nero il nostro pane ma è dolce / caldo di forno, acceso con l’amore / né azzimo, né sciocco scrocchia in bocca / generoso e gentile /  tenera la mollica, aspra la crosta […]

[…] s’ammiela lo zibibbo /  di ambrosia serotina /  s’arrubbizza l’uva marcigliana / dolcissima e sanguigna […].

Il reale è reso nel suo respirare, poiché la realtà è visionata a fondo e perciò stesso è visione d’oltre da sé stessa. Pina Majone ha abitato l’eco del mondo, del proprio e di quello della propria terra, e lo ha tramutato in un in-cantato universo poetico:

[…] questa da cui ti guardo / è una notte d’Agosto che ci attende /  è una stellata pensile sull’acqua /  è l’astro bugiardo che mai cadde /  nel prato dei nostri desideri […].

La sua, ne siamo certi, è voce che viene da lontano e porta lontano, poiché condividiamo la verità di Marina Cvetaeva – Il poeta da lontano conduce la parola – la parola conduce il poeta lontano.

Pina Majone Mauro, Frontiera, Calabria Letteraria Editrice http://www.calabrialetterariaeditrice.it/poesia/frontiera.html

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NOTA BIOGRAFICA a cura di Nicola Avigliana
La poetessa calabrese Pina Majone Mauro, professoressa di Lettere e ricercatrice storica, è nata nella Locride, ma vive da tempo tra Lamezia Terme e Roma, dove è conosciuta per la sua attività di docente, pubblicista e poeta.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Spessori (Ed. Temesa – Roma 1987), Diapason (Ed. Rubbettino – Soneria Mannelli 1997), La mia Isla Negra (Ed. Fermenti – Roma 2000), Brevis et Cetera (Ed. Lepisma – Roma 2005).
Opinionista e critica letterario, ha collaborato alla rivista Calabria 2000 con brevi saggi su personaggi illustri; i suoi articoli hanno trovato spazi favorevoli su altre riviste e giornali come Calabria Letteraria, Il Veltro, Il Corriere di Roma.
Insignita di “Medaglia d’oro Calabria” a Roma nel 1998, ha vinto molti e prestigiosi premi partecipando attivamente alla vita culturale della sua Regione e a quella della Capitale.
Le sue poesie, presenti anche in diverse antologie, sono state tradotte in greco dall’indimenticato poeta Febo Delfi (Atene 1987) e in rumeno dal prof. R. Magherescu, che ne ha fatto oggetto di studio fra gli studenti di Cultura Mediterranea alla Università di Costanza (Romania).
Particolare attenzione si deve al suo impegno civile, con decisione e forza morale, in difesa dei valori di civiltà e cultura da sempre presenti nella sua amata Calabria, documentandone i pregi e le ricchezze nei vari campi dell’arte e della scienza. Nelle sue liriche di eccellente fattura e di profondi significati si coglie l’eco soffusa della grande civiltà classica dell’antica Grecia, con i suoi miti, le sue leggende e i suoi valori.


[1]Questa e altre indicazioni, che in verità suonano come precetti, sono contenute negli atti della Conferenza delle Riviste Americane sulla Responsabilità Sociale della Poesia e degli Scrittori del 1984. L’autrice è Grace Paley, scrittrice, poetessa e attivista americana di origini russe.