FRANCO RUSSO.
Sì, confesso, sono goloso, golosissimo. E non la considero una colpa. E nemmeno un vizio o un peccato. Ma mi rendo conto che, in qualche modo, dovrò articolare delle difese rispetto al sopracciglio sdegnosamente inarcato da parte di apprendisti e sofferenti neovegani, di irriducibili salutisti e di frati trappisti aspiranti all’immortalità. Così provo a fare un giro nella letteratura per trovare qualche avvocato difensore. O almeno qualche complice.
Parto da lontano e sbatto subito la faccia su un severissimo censore, San Paolo, che prima definisce i golosi “ coloro il cui dio è il ventre” e poi pontifica “nessuno sia profano come Esaù che, per una vivanda, cedette il suo diritto alla primogenitura”.
Bene, incasso e, a testa alta, mi rifugio in Dante a rileggere del povero Ciacco. Intanto la figura che emerge, plasticamente, come negativa non è il dannato bensì Cerbero al quale il poeta destina parole durissime. Salvo obbligarlo a placarsi con una manciata di terra. Ed anche le parole indirizzate a Ciacco “…il tuo affanno mi pesa sì, ch’a a lagrimar mi’nvita…” manifestano quasi simpatia e tenerezza. Le stesse che aveva manifestato per Francesca. Ma della simpatia di Dante per i peccati di incontinenza forse dirò ragionando sulla lussuria.
Manzoni, nel capitolo in cui il povero Renzo si trova, suo malgrado, coinvolto nella guerra del pane, scrive “Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi c’era e c’è tuttavia un forno che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono”. Ecco, lasciando da parte per ulteriori approfondimenti le non del tutto disinteressate insolenze del Manzoni sul povero dialetto milanese e la contemporanea celebrazione del toscano, il nodo è in quel “c’era e c’è tuttavia”. Infatti il Forno delle Grucce, vivente il Manzoni, era del tutto operante. E le fortunate edizioni, a fascicoli, dei Promessi Sposi del 1827 e quelle definitive degli anni quaranta avevano, evidentemente, creato una delle prime pubblicità occulte. E gli affari, per il fornaio, andavano così bene che era solito mandare dei dolci in omaggio allo scrittore. Il quale lo ringraziò con una lettera, ritrovata, nella quale rispondeva al donatore che “il regalo lo aveva lusingato nella gola e nella vanità “. E allora don Lisander è dei nostri.
Beh, appena iniziato questo viaggio tra gola e letteratura mi rendo conto che non c’è partita, anche perché possedendo uno scaffale di libri di cucina avrei solo l’imbarazzo della scelta tra la “Cucina dei conventi”, quella di Abramo o il “Grande dizionario di Cucina” di Alexandre Dumas. E ripescando in quel che ho letto mi viene in mente la cena di Trimalcione di cui, se non ricordo male, mi era rimasta impressa una ricetta: “si prenda un maiale e si metta al suo interno un agnello e, all’interno di questo un pavone e all’interno ancora un piccione, al suo interno si ponga un tartufo; si cuocia, lentamente, allo spiedo ungendo il tutto di abbondante olio e cospargendolo di spezie; a cottura ultimata si apra il tutto e si gusti il tartufo. E si buttino le carni sotto i tavoli per il pasto dei servi”. Vero che la storia o le storie ci raccontano di un imperatore Claudio, golosissimo e maniaco dei funghi il cui preferito era il Reale, l’Amanita, non a caso, Cesarea. Non è certo ma è verosimile che la premurosa moglie Agrippina, ansiosa di procurare il trono al figlio Nerone, gli servì nell’apposito piatto, detto appunto “boletarius” una fornitura completa e mortale di Amanita Falloides. Periscano, dunque, i golosi.
INTERMEZZO
Vi servo, se volete, il sorbetto che funga da pausa tra le troppe portate di questa cena.
Fino qui ho scritto, di getto, in un giorno di ottobre e adesso – siamo a metà novembre – non riesco ad andare avanti. Beh, l’impianto di questa insalata di peccati e virtù era abbastanza chiaro: parlare bene dei peccati e male delle virtù provando ad essere un po’ originale e politicamente poco corretto o, addirittura, corrotto.
Ma non riesco ad andare avanti perché, in realtà, mi sforzo di pensare ai golosi ma mi vengono in mente gli insopportabili gourmet ed i dannati chef. Le trasmissioni televisive in cui imperversano sedicenti sapienti che “ripropongono”, “reinterpretano” “disegnano” la filosofia (sic!) del vitello tonnato o del risotto alla milanese. Quelli che “degustano”, “assaporano”, “titillano”, “individuano”, “percepiscono” aromi di sandalo, di cuoio marocchino, di crisantemi orientali, di rafano, di viole d’autunno, della sacra pantofola di papa Francesco e, naturalmente, un retrogusto di note di Mozart. Il tutto in un calice di vino comprato alla Coop. Quelli che spacciano per spezzatino della nonna, eredità segreta di famiglia, la ricetta rubata su internet. Quelli che, mentre mangiano al ristorante, continuano a raccontare di altri cibi e di altri ristoranti. Quelli che, a nome del popolare e democratico, si fanno pagare un po’ di più alimenti normali battezzati, in inglese, Mangiaitaliano e aprono locali negli Stati Uniti ma solo nelle città clintoniane, ça va sans dire. Quelli che fingono di cucinare, in diretta, piatti preparati prima. Quelli che telefonano alle trasmissioni televisive per sapere che cosa si può mettere al posto dell’ossobuco per cucinare l’ossobuco alla milanese o come si può fare la bistecca alla fiorentina per i vegani, o se si possono usare le penne rigate al posto del riso per fare gli arancini. Politici, attori, scrittori e cantanti in decadenza – e decadimento – che rubacchiano ricette qua e là, ne fanno un libro pubblicato da editori compiacenti e poi si presentano a presentarlo da Fabio Fazio per una marchetta in eurovisione. Quelli che “io solo cozze di Spezia, solo gamberoni di Sanremo, solo acciughe di Monterosso, solo lardo di Colonnata, solo gorgonzola di Novara, solo l’olio del Garda, solo i pistacchi di Bronte, solo il cioccolato di Modica. Ma tu sei per gli arancini o le arancine?”.
Tempo fa avevo letto un articolo di un saggio che spiegava che, in realtà, i sapori che avvertiamo , il dolce, l’amaro, l’acido ed il salato non sono i soli. Ce n’è uno, il buono, che si forma tra cervello, palato, lingua e cuore nella nostra infanzia. E’ quel mistero miracoloso per cui le patate fritte della mamma, il minestrone della zia, gli gnocchi della nonna ci fanno decidere che è buono. E quel buono è quello che ci accompagna per tutta la vita e che continuiamo a cercare, invano, nei piatti confezionati, con infinito amore, da mogli gelose del tuo passato gastronomico.
Bene, tutti quei personaggi mi hanno fatto passare la voglia di essere goloso e anche di tessere l’elogio della “golosità”. Mi riservo, per l’ultima parte della mia vita, la ricerca di cibi semplici e frugali della mia infanzia: ris, patate e por, polenta, patate fritte ma anche lesse schiacciate con la forchetta e condite con olio e una noce di burro, insalata di pomodori, l’ula. E, nei giorni di festa, il bollito con la testina ed il bagnet vert. E quando vorrò festeggiare occhi e ritrovare l’anima farò un salto a Vienna per assaporare Il banchetto nuziale, La festa al villaggio, La lotta tra Carnevale e Quaresima dell’adorato Bruegel. E i golosi? Vadano all’inferno. Come è giusto che sia.