GABRIELLA MONGARDI.
“Eidola”: fantasmi, immagini – ma anche: icone, idoli… “Fantasmi” e “immagini” sono le due traduzioni fornite dal vocabolario di greco, “idoli” ne è la traslitterazione italiana, “icone” l’equivalente moderno. Sta al lettore scegliere quale significato giudica più adatto, l’autore si fa da parte, gli cede la parola. Allo stesso modo, spessissimo la cede ai personaggi con cui dialoga in questo libro – personaggi tratti per lo più dal mito e dalla letteratura, a volte dalla storia, figure comunque fuori del tempo, che la poesia rimodella a simboleggiare problemi di sempre.
Carmina docta sono queste liriche di Casarino, e non potrebbe essere diversamente trattandosi di un poeta-professore, per cui la cultura in generale, e la cultura classica in particolare, è una passione profonda e vitale, una vera e propria fede. Il lettore non-classicista non deve però temere: il miele della poesia – cioè sicuro senso del ritmo, musicalità e limpidezza di dettato, amabilità di lingua – rende questi testi ‘facili’ e godibili per tutti. Proprio la forma poetica è la prova che non si tratta di sterile erudizione fine a se stessa, ma di un colloquio ideale con immagini mitiche, con cui l’autore si confronta e di cui si appropria attualizzandole – ‘idoli’ nel senso migliore del termine, perché alla venerazione, alla commovente devozione loro tributata si accompagna la lucidità critica che ne riconosce anche le debolezze.
La galleria di quadri è aperta da Arianna che consegna all’uomo moderno il filo per non smarrirsi nel labirinto di natura cultura tecnica e scienza, cioè la capacità di raccordare passato e futuro – lo stesso filo che il poeta ha tenuto saldamente in mano nel costruire la sua raccolta e che il lettore a sua volta non deve smarrire, se non vuole incorrere in un clamoroso errore di interpretazione: quello di considerare il libro un insieme di liriche isolate anziché un “poema mitologico” unitario, articolato in 40 “canti brevi”, a loro volta raggruppabili in un prologo, un epilogo e sei sezioni.
Il prologo è affidato, oltre che alle voci di Arianna e Teseo, a quelle di Gesù (perché in lui si sussume la nostra sorte) e di Giuda, che ne racconta la storia come testimone incompreso.
Le prime tre sezioni, tematiche, portano il discorso sullo scorrere del tempo, sull’uomo e sulla poesia. Il primo a parlare del tempo è ovviamente il Tempo stesso, Crono, veloce e vorace, di cui sono ancelle l’Aurora (Eos) e la Luna (Selene); Sileno e Titone rappresentano due aspetti dell’invecchiamento, leopardianamente indicato come la sorte peggiore per l’uomo. Prometeo, Eracle e Filottete compendiano il destino dell’uomo: siamo esseri strani, / che basta un nulla per eliminare / dalla terra e che si credono, stolti, / padroni di ciò che non crearono. Ma per quanto le sofferenze e le fatiche siano insensate, nessuno / è inutile su questa mesta terra, se sa essere d’aiuto a chi insensatamente soffre. Dal dolore e dall’amore sgorga la poesia, impalpabile come il tarassaco, che adorna gli angoli con lievi fili come Aracne: eppure con Orfeo diventa unico lamento infinito / che misura lo spazio e sonda il tempo, grazie a Mnemosyne mantiene intatti bellezza, amore e senso – ma nell’invocazione alla Musa il poeta piange l’armonia perduta.
È giocoforza allora risalire alle sorgenti della poesia occidentale, a Omero e ai suoi poemi epici da un lato, alla tragedia attica dall’altro – è quello che avviene nella quarta e quinta sezione. Quella di Casarino è una rivisitazione commossa dei personaggi classici, vincitori o vinti, uomini o donne, divenuti tutti emblemi di una condizione eterna, universale, di tutto / ciò che variando sempre si ripete. Particolarmente intense le voci sofoclee di Antigone e Creonte, inconciliabili: lui ostinato a ribadire che non può esser la morte ad annullare / ciò che dà senso al nostro stare qui; lei ormai assorta in una prospettiva di non-appartenenza, votata a una dimensione ‘altra’: Maggiore è il tempo che dovrò passare / laggiù tra i morti […] Laggiù nessuno imporrà l’obbedienza.
A entrambi sembra rispondere la Vestale che apre la sesta sezione dell’opera, quella dedicata a personaggi storici (una Vestale romana, il filosofo scettico Pirrone, l’imperatore Marco Aurelio, Pico della Mirandola) o appartenenti alla letteratura moderna (Margutte, Faust, Totò Merumeni). La Vestale non ha nome, è solo una ‘funzione’: è una delle sacerdotesse che nel tempio della dea Vesta sorvegliavano il fuoco sacro, ma le sue sono parole ‘definitive’. Nel fuoco che eterno deve restare / la giustificazione di ogni morte: nella cura del fuoco, della luce, del calore (il positivo, anziché il negativo) il senso di ogni vita; anche il senso delle biblioteche immense di Pirrone, del “recitare bene la propria parte” consigliato da Marco Aurelio, dell’accettare l’imperfetto e l’incompiuto come vogliono Pico e Margutte…
Nelle due liriche dell’epilogo lo sguardo del poeta si volge al presente, dove non scorge se non sradicamento, egoismo, tenebre che nuovamente s’affoltano: la chiusa è quindi desolata, la voce della poesia è troppo debole per impetrare la fine della difficile crisi. Ma il semplice fatto che si componga ancora poesia – e la si legga – è benefico perché, come scrive Leopardi: «La vera poesia aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità».
(Il testo riprodotto è la prefazione al volume di poesie del professor Stefano Casarino, edito a Mondovì dagli “Spigolatori”. QUI la presentazione fattane da Yvonne Fracassetti, QUI la lettura di Lorenzo Barberis.)
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Della raccolta Eidola pubblichiamo la poesia, profonda e arguta, dedicata al nostro Margutte
MARGUTTE
Le cose vanno lasciate a metà.
Soltanto ciò che è imperfetto può esistere,
solo quello che non è terminato
non muore. L’incompiutezza è l’essenza
dell’unica possibile saggezza.
Ridi dei sistemi e dei dogmi,
delle ideologie che hanno ipotecato
il futuro; sbeffeggia i folli credi
che impongono stragi e attentati.
Una grande risata caccerà
il male che devasta le coscienze.