Dante tra scrittura e politica (1302-1309) – 1

Lamberti Dante

PAOLO LAMBERTI.

Gli anni tra 1302 e 1309 sono il centro e della vita e dell’opera di Dante. In quelli precedenti abbiamo il poeta stilnovista, e il politico di secondo piano, ovvero una figura senza la statura del nostro Dante. Dopo rimane il formidabile autore della Commedia, che però lavora su di un progetto precedente. Invece è in questi anni che avvengono i momenti decisivi per l’uomo Dante, che da fiorentino provinciale si fa uomo europeo, e per il Dante intellettuale, che in anni così difficili riesce ad essere grande lirico, scienziato linguistico, educatore della nobiltà, e soprattutto concepisce la Commedia.

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Dopo il marzo 1302 Dante era uno sbandito. Non è solo il problema del pane altrui che sa di sale, è il rischio continuo di una morte per cappio o sul patibolo o nel rogo.
Quando i Bianchi sono sconfitti a Pulicciano nel 1303, un episodio che rientra nella guerriglia dell’alleanza tra Bianchi e Ghibellini, i prigionieri sono portati a Firenze, pubblicamente torturati e poi uccisi sul patibolo. Al termine della battaglia della Lastra del 1304 sia Bianchi che Bolognesi sono catturati, dopo che una parte di loro era arrivata sino alla zona del Battistero, da dove era stata respinta fuori Firenze. Furono impiccati agli alberi senza indugi né processi.
E anche un singolo sbandito, come Iacopo del Cassero (Purg. V. 64-84), se si trovava al momento sbagliato nel posto sbagliato poteva finire assassinato senza cerimonie, ad opera di Azzo VIII Este, già duramente rampognato nel De Vulgari Eloquentia, ma forse con la complicità del buon Gherardo da Camino.
Quindi analizzare il comportamento, le opere e le idee di Dante nel periodo tra l’esilio ed Arrigo VII richiede la conoscenza del fitto intreccio politico e personale in cui si muove e da cui dipende la sua vita: una mossa sbagliata, un verso troppo audace e Dante rischia la fine di Cecco d’Ascoli, sul rogo.

Le opere dantesche si possono comprendere pienamente solo immergendosi nel suo mondo, un lavoro secolare che negli ultimi vent’anni ha conosciuto, ad opera della dantistica italiana, vistosi progressi, grazie a studiosi come il compianto Umberto Carpi, Santagata, Gorni, Tavoni, Casadei e molti altri.
Si deve seguire lo svolgersi del pensiero dantesco, soprattutto nell’analisi della sua epoca, dal punto di vista politico, morale e religioso. Qui si coglie un filo rosso che porta Dante a evolvere il suo punto di vista e a maturare una visione del mondo sempre più complessa: questo filo rosso, di grande coerenza, parte dalla percezione di un mondo in via di disgregazione.
Dapprima il poeta lo misura in Firenze, nelle fazioni guelfe che lo portano al rimpianto di quella totalità guelfa che individua in Brunetto Latini, il maestro giovanile che nell’Inferno incarna il fallimento dei suoi ideali. Poi lo scontro con Bonifacio, seguito dall’allontanamento del papa da Roma, mostra la crisi dell’istituzione universale della Chiesa. Intanto l’esilio lo mette in contatto prima con il mondo feudale toscano, lacerato, come si vedrà, addirittura tra i vari rami delle famiglie; e con quello della Romagna, che sta diventando terra di tiranni; e poi con il paese che il Po e l’Adige riga, il Nord Est travagliato da quando Federigo ebbe briga.
Ma anche il regno del Sud, dopo Federico II e Manfredi, è allo sbando, in mano agli Angiò, ma con la Sicilia ormai aragonese. E l’Impero è in mano ai deboli e indifferenti Absburgo, mentre la Francia avida di Filippo il Bello rovescia l’ordine universale.
In questo quadro di disgregazione Dante supera l’ottica municipale e anche italiana, raggiunge uno sguardo universale, anzi oggi possiamo dire europeo, e coglie la necessità di opporsi alla faziosità imperante, percepisce il bisogno di un principio unitario. Oggi misuriamo il suo errore storico, nel maturare una visione incardinata su Impero e Chiesa, uniti ma direttamente derivanti da Dio: è il suo approdo, evidente nella Monarchia e ancor più nel Paradiso, sì Gerusalemme celeste, ma soprattutto luogo in cui Dante sarà cive di quella Roma onde Cristo è Romano.
Ma questa maturazione intellettuale deve fare i conti con la realtà quotidiana di uno sbandito: la grandezza di Dante è quella di scrivere pagine universali partendo da una quotidianità faticosa e spesso meschina, ma non per questo meno pericolosa; e queste pagine devono accordarsi alle situazioni, tanto che il comportamento di Dante tra l’esilio e la discesa di Arrigo potrebbe ad occhi maliziosi apparire trasformista. È invece la capacità di adattarsi senza tradire se stesso, ma insieme senza correre verso la propria distruzione. Primum vivere.

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Nella Epistula II ai conti di Romena (sui quali si tornerà) Dante lamenta la propria povertà, ma con parole diverse da quelle celebri del Convivio, III,5: «Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade». Qui invece scrive «inopina paupertas quae fecit exilium … equis armisque vacantem iam sue captivitatis me detrusit in antrum».
Dunque Dante non chiede asilo, denaro o libri, ma armi e cavallo. A quasi quarant’anni, a 15 da Campaldino, si risente la voce dell’equitator. Non eques: gli speroni d’oro sono tipici dei Magnati, e solo nel Paradiso, dopo aver maturato una ben diversa visione, Dante trasformerà in miles Cacciaguida, forzando probabilmente vaghe memorie di famiglia e facendo una certa confusione tra Corrado II, crociato mai stato a Firenze, e Corrado III, che fu a Firenze ma non in Terrasanta.
Il passo è da datare dopo il novembre 1304, essendo un biglietto di condoglianze per la morte di Alessandro da Romena, zio dei conti: la formula è quella feudale dei cavalieri chiamati dall’imperatore, ma rivela una richiesta di aiuto, da parte non del poeta, ma del feditore a cavallo.
Campaldino non è un episodio isolato: gli Aretini alle giostre del Toppo (Inf. XIII, 121) ci ricordano le chevauchée tipiche della guerra medievale, come quelle che Rambaut de Vaqueiras, il trovatore al servizio dei marchesi di Saluzzo, ricorda nei suoi sirventesi: galoppare per le nostre campagne e giungere in Liguria per saccheggiare e fare bottino. Anche Dante avrà avuto scaramucce nel 1288, avrà tagliato olivi ed estirpato viti, bruciato qualche capanna, e magari si sarà un po’ divertito con qualche contadina non abbastanza veloce nella fuga.
E il ricordo dei fanti patteggiati che escono da Caprona (conquistata dai fiorentini per conto di Nino Visconti: altra figura che tornerà, non solo nel Purgatorio ma nella vita di Dante) ci lascia immaginare un cavaliere arrogante che guarda dall’alto i fanti che passano spauriti tra due file di armati a cavallo, e magari sprona verso un soldato non abbastanza intimidito e con una piattonata gli ricorda la distanza che li separa.

Nella lettera perduta Popule mee, quid feci tibi?, ricordata da Leonardo Bruni e scritta per ottenere il rientro a Firenze, Dante ricorda la giornata di Campaldino, una delle non frequenti battaglie del Medioevo, «ove mi trovai non fanciullo nell’armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia». Era nella prima schiera, i feditori a cavallo, la forza d’urto fiorentina che però venne dispersa dalla superiore cavalleria aretina: e la lettera ricorda la temenza per questo primo rovescio, e la allegrezza perché i cavalieri aretini, secondo un inveterato vizio della cavalleria di tutti i secoli, si dispersero per il saccheggio, mentre quelli fiorentini, guidati da Corso Donati, colsero alle spalle la fanteria nemica e vinsero la battaglia.
Per essere schierato tra i feditori, Dante doveva comunque avere la possibilità di procurarsi almeno le armi, spada, scudo e cotta di maglia, anche se forse il cavallo era fornito da cittadini più ricchi.
Ma soprattutto doveva saperli usare: combattere da cavallo e saper cavalcare in battaglia non sono capacità che si improvvisano. Evidentemente oltre che scrivere poesie e dipingere (nella Vita Nova si descrive mentre disegna, e la Commedia testimonia una buona conoscenza di pittura e miniatura) doveva anche allenarsi cavalcando e tirando di spada. Possiamo immaginare con un Dino Frescobaldi, stilnovista ma anche guelfo nero e membro di una famiglia importante. Soprattutto con il primo amico, Cavalcanti. Poeta raffinatissimo, filosofo quasi eretico, ma anche uomo d’arme e di mano, che viene ricordato mentre cerca di ammazzare Corso Donati con una freccia, o assalta la sua casa con una torcia. Uno squadrista: ma in quei tempi felici gli squadristi scrivevano Donna me prega, non me ne frego.
Del resto al Bargello è conservato un sigillo di Cavalcante Cavalcanti, risalente al 1260 circa, che lo mostra ben diverso dall’accasciata figura di Inf. X. È  un cavaliere corazzato, con elmo e cotta di maglia, spada in mano, su un cavallo coperto anch’esso di cotta di maglia, con scudo triangolare con lo stemma a piccole croci fiorite.

Cavalcante - 1

Beatrice e Giovanna-Primavera non sono incompatibili con le spade, come lo Stilnovo convive con una poesia comico-realista con tratti un po’ da caserma: se Dante, nella Tenzone, dà a Forese del bastardo e del ladro, e Forese gli risponde dandoli del codardo con effetti diarroici, ci sono studiosi che pensano che la scrignutuzza, la gobbetta che fa morire non d’amore ma di risate Cavalcanti, possa essere addirittura Beatrice. E Lapo degli Uberti (in Guido, quando dicesti pastorella) insinua che la pastorella del celebre componimento cavalcantiano fosse … un pastorello.
Ma l’esperienza del feditore a cavallo richiede appunto un cavallo: e nella lettera ai conti di Romena un equus è appunto richiesto tra le righe: non un caballus o un roncinus con cui spostarsi, ma un cavallo da battaglia, un animale imponente e difficile da domare, abituato al fragore della battaglia.
Di qui nasce la similitudine del VI del Purgatorio, che va intesa non genericamente, ma proprio con l’ottica dell’equitator. Il cavallo/Italia è appunto un equus, che va guidato stando in sella e non tirato per la predella. Termine questo tecnico e preciso: è la sbarra di ferro che si pone in bocca al cavallo, dietro gli incisivi, ed è collegata da due sbarre al morso vero e proprio. Prenderlo di lato per tirare il cavallo provoca dolore, e la bestia è fatta fella, con esiti poco piacevoli per l’incauto che vi si trova davanti: soprattutto se l’incauto è abituato alle mule ecclesiastiche. Quanto è lontano il cavallo di Dante dalla mula di Don Abbondio! Come Dante da Manzoni.

Credo ipotizzabile che questo passo possa avere un’eco in un altro celebre passo, quello del Paradiso XII.
È curioso che Dante, che fa parlare i santi Benedetto, Pietro, Giacomo, Giovanni, non dia la parola a Domenico e Tommaso: non può essere solo per evitare di giudicare i loro successori (Benedetto lo fa); è come se dietro all’ammirazione per gli ordini, vi fosse in sottofondo la diffusa ostilità verso due ordini cresciuti troppo in fretta.
Soprattutto i Francescani offrono nel primo secolo di vita, al di là delle agiografie oggi troppo diffuse, un quadro non dissimile da quello dei primi decenni dell’URSS: fazioni, purghe, processi politici, omicidi. Il Falsembiante del Fiore è un francescano, e francescano è l’inquisitore Salomone da Lucca, che nel 1283 condannerà Farinata e la moglie Adaleta come eretici paterini, facendone esumare e bruciare i corpi: la pena di Farinata ne è sicuramente ispirata, ma a Dante non può essere sfuggito che il processo nasce quando gli eredi chiedono la restituzione dei beni. Infatti le condanne politiche sono reversibili (infatti fratello, moglie e figli di Dante recupereranno parte dei beni): quelle inquisitoriali no. E dato che i beni erano stati dati in usufrutto alla Parte Guelfa (una sorta di obbligazione garantita ante litteram), la sentenza assicura ai guelfi fiorentini la continuazione delle rendite.
Nell’invettiva contro la decadenza dei Francescani compaiono esplicitamente Matteo d’Acquasparta ed Ubertino da Casale. Anche questi trattano la regola francescana come il cavallo di Purg. VI; l’accostamento mi sembra ragionevole perché individuare in questi nomi due tra gli ecclesiastici che pongon mano a la predella rimanda alle esperienze dantesche.
Infatti Matteo d’Acquasparta non è solo il generale francescano che guida la fazione dei conventuali; è anche, insieme ad Egidio Romano, la mente teorica dietro la teocrazia di Bonifacio VIII con la sua Unam sanctam. Ma è soprattutto il paciaro che il papa manda a Firenze ufficialmente per riconciliare Bianchi e Neri, di fatto per favorire questi ultimi. Dante lo conosce sin troppo bene, e ricorda anche il fallimento della sua missione, sia quella ufficiale che quella clandestina.
Ma anche Ubertino gli è ben noto. Il mistico che scrive sulla Verna l’Arbor vitae crucifixae, cosi affettuosamente disegnato da Eco nel Nome della Rosa, in realtà sceso dalla Verna non solo è inquisitore severo, ma è il consigliere politico del cardinal Matteo Orsini, un Orsatto nipote di quel Niccolò III che tra i simoniaci scambia Dante per Bonifacio VIII. E il cardinale è inviato da Clemente V in Toscana per permettere ai Bianchi il rientro a Firenze: un rovesciamento di fronte cui non è estraneo il passaggio della finanza papale dalla banca degli Spini, Neri, a quella dei Cerchi. Con il pretesto della pace, i papi Benedetto XI e Clemente V vogliono indebolire i troppo forti Neri. Sarà proprio Ubertino nel 1306 a venire a Firenze per trattare con i Neri, Corso e l’emergente Rosso della Tosa: fallimento totale, ne seguirà un tumulto in cui bruceranno centinaia di case, tra cui tutte quelle dei Cavalcanti. E anche le speranze di Dante, che aveva già visto il fallimento del Cardinal Niccolò da Prato, mandato appunto da Benedetto XI; su di lui pesano i sospetti dei Neri, poiché aveva convocato i loro capi, con gran parte degli uomini d’arme, a Perugia; e dopo pochi giorni, in loro assenza, c’era stata la spedizione fallita con la battaglia della Lastra. Strana coincidenza.
Comunque di ecclesiastici incapaci di por mano alla predella Dante ha avuto amplissima esperienza.

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Nel 1302 Dante partecipa ai due incontri di Gargonza e di San Godenzo, in cui i Bianchi entrano in alleanza con i Ghibellini, tra cui troviamo Lupo Uberti, anche poeta, e i conti Guidi di Porciano, che sono proprietari dei due castelli. Il loro ramo spiega come mai nella rassegna delle bestie dell’Arno (Purg. XIV, 43) i Casentinesi sono detti brutti porci: non solo per l’essere genti di montagna rozze ed allevatrici di suini, ma proprio per sottolineare il distacco dantesco dagli antichi alleati.
Allearsi con i ghibellini è per i Bianchi varcare un confine senza ritorno: le lotte di fazione tra i Guelfi sono un conto, e prima o poi possono essere superate, ma per i Ghibellini non c’è ritorno; non a caso non ci sarà neanche per Dante, e neanche per ser Petracco, il padre di Petrarca.
E Dante ne è consapevole – credo – sin dai primi mesi; e lo espliciterà dopo pochi anni nel famoso congedo di Tre donne intorno al cor.

Dante è molto attivo nella costituzione della Universitas Alborum: nel diritto medievale una simile universitas ha piena esistenza giuridica e può stipulare trattati con entità statali. Dante ne è segretario, e svolge ruoli diplomatici che lo porteranno a Bologna, Verona, Forlì. Tuttavia l’esperienza gli si rivela presto negativa, sotto tre aspetti.
Dal punto di vista politico l’allargarsi dei suoi orizzonti lo porta ad osservare la vastità di una crisi che coinvolge comuni, regimi feudali e tirannidi.
Dal punto di vista personale ed economico la delusione deve essere ancora maggiore:  il passo sopra citato del Convivio deve riferirsi a questi anni, visto che traccia una situazione del passato. Parimenti la lettera ai conti Guidi di Romena esprime povertà e anche un certo risentimento; né va dimenticato che il primo approdo a Verona non è affatto felice: la lode del Paradiso è frutto dei legami con Cangrande, ma in Convivio IV, xvi, 6 si notano distacco e freddezza verso i Della Scala: «quali cose più fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in loro genere nobili: e così … Albuino de la Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio: che ciascuna di queste cose è falsissima».

Ma quello che Dante sente come colpa vera nasce dallo scoprire che non tutti i ghibellini fiorentini sono come Farinata. Il passo in cui egli rivendica la sua difesa di Firenze dopo Montaperti (Ma fu’ io solo, là dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, / colui che la difesi a viso aperto. Inf. X, 91-93) mette in luce due diverse anime: i ghibellini che come gli Uberti o i Lamberti vivono nella città, vi fanno politica e vi spostano i propri interessi. E quelli come i Guidi di Romena o di Porciano che rimangono famiglie feudali ostili non ai Guelfi ma al Comune in sé, anzi alla città in quanto centro di potere politico ed economico. È la stessa logica che aveva portato il Barbarossa a distruggere Milano. Ovviamente questo è inaccettabile per Dante.
Egli non partecipa poi alle spedizioni militari dei Bianchi, vuoi per essere escluso da uomini d’arme più esperti, vuoi per il suo valore diplomatico, vuoi per la lucida comprensione della fragilità militare della fazione.
Quando, molti anni dopo, Cacciaguida definirà compagnia malvagia e scempia … tutta ingrata, tutta matta ed empia la fazione dei Bianchi, dietro all’aggettivazione di carattere morale si notano non solo l’amarezza per l’ingratitudine personale, ma anche dietro a matta ed empia l’odio per il Comune in sé, e dietro a scempia la percezione della debolezza, non solo finanziaria e militare, ma di consenso  politico. Infatti quando nella confusa battaglia della Lastra i Bianchi fiorentini irrompono verso il Battistero, non sono gli uomini d’arme neri (in gran parte a Perugia) a fermarli, ma il popolo fiorentino spontaneamente sollevatosi.

Nasce qui un problema: come avviene il distacco dai Bianchi?
Un indizio risale a Brunetto (Inf. XV, 70-72):  La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l’una parte e l’altra avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l’erba. 
Spesso si spiega la terzina come una rivendicazione della fama dantesca, ma ritengo più probabile che sottolinei il pericolo corso da Dante: sbandito per i Neri, traditore per i Bianchi, la sua vita è appesa ad un filo.
Di norma si lega la rottura all’esito della battaglia della Lastra, e ai suoi prodromi: quindi Dante avrebbe rotto in maniera netta verso la metà del 1304, e gli anni successivi l’avrebbero visto riavvicinarsi ai Guelfi, con la lettera Popule mee, la canzone Tre donne e quello che Carpi chiama l’Inferno guelfo.
Tuttavia Tavoni, con altri studiosi, basandosi su Convivio e De Vulgari Eloquentia, ipotizza un processo più lungo e complesso: un distacco graduale, iniziato già con la battaglia di Pulicciano del 1303, che porta Dante a rompere con i Bianchi fiorentini e i Ghibellini toscani, ma gli permette di rimanere legato agli alleati, come i Bolognesi, i Della Scala e Scarpetta degli Ordelaffi, figura che tornerà spesso nella vita di Dante, anche nel periodo veronese di Cangrande: né manca chi ha pensato a lui per il veltro.

Il problema nasce dalla difficoltà di seguire i movimenti di Dante tra 1304 e 1306. Due sono le ipotesi possibili, che vedremo nella successiva puntata.