PAOLO LAMBERTI.
Nel De Vulgari Eloquentia la lingua del sì è divisa in sette dialetti a est dell’Appennino e sette ad Ovest. Tale classificazione nasce evidentemente da uno sguardo posto sugli Appennini; non è solo linguistica, ma dimostra che Dante la crea a partire dall’esperienza personale, che in quegli anni lo vede appunto continuamente in movimento tra i valichi appenninici; non avrebbe potuto avere questo sguardo d’aquila chiuso tra le mura di una Firenze infossata nella valle dell’Arno. Ma è anche una classificazione politica: infatti Dante dall’Appennino non vede Firenze, Arezzo, Bologna o Forlì, ma guarda due antiche marche imperiali, la Romandiola e la Tuscia. E la sua intera vita politica si può sintetizzare in uno slogan: che la Tuscia non diventi una nuova Romandiola. Infatti nel 1278 Rodolfo I d’Absburgo concede a Niccolò III appunto la Romandiola, ovvero i territori dell’ex esarcato bizantino di Ravenna, che i papi da secoli rivendicavano. Può sembrare un accordo fuori del tempo, ma sarà a partire di qui ad esempio che il duca Valentino costruirà il suo stato, Giulio II prenderà Bologna o gli Este verranno cacciati da Ferrara; solo il 1860 segnerà la fine dell’efficacia di tale accordo. Dante (e molti con lui) teme che Bonifacio VIII abbia le stesse mire sulla Tuscia: ecco perché gli si oppone ancora a Firenze, e in quegli anni ancora fiorentini stringe legami con Bologna, città guelfa bianca che al proprio interno ospita ancora gli ultimi ghibellini della fazione dei Lambertazzi, con un accordo che si ripeterà dopo l’esilio dei Bianchi fiorentini.
Quindi non va sottovalutato il contenuto politico del De Vulgari Eloquentia, che emerge con chiarezza proprio nel celebre passo della lingua aulica e curiale: due termini squisitamente politici, che esprimono una visione di un’Italia che rimane comunque curia dell’Impero, anche se manca di un’aula.
Dunque una sensibilità imperiale già esplicita in un celebre passo del De Vulgari Eloquentia (I, xii) in cui Federico II e Manfredi sono definiti «illustres heroes, Fredericus Cesar et benegenitus eius Manfredus» a richiamare un periodo felice in cui curia ed aula esistevano, e si erano espressi anche linguisticamente e culturalmente nella scuola siciliana: così si trova spiegazione anche per l’attenzione dantesca per i Siciliani e la sua volontà di riproporre una lingua appunto illustre anche in assenza di un imperatore. E subito dopo il brano prosegue con una invettiva degna della Commedia, rivolta proprio a quei signori che avrebbero dovuto costituire la curia ma l’hanno allontanata: «Racha! Racha[1]! Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Azonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi ” Venite carnifices, venite altriplices, venite avaritie sectatores“?». Federico d’Aragona, Carlo II d’Angiò, Giovanni di Monferrato, Azzo d’Este sono accusati della corruzione dei valori imperiali, come avaritie sectatores, la colpa più grave per Dante.
Passo quindi di immediata polemica politica, che lascerà spazio dopo una decina d’anni ad una sua riproposizione più pacata e meditata nell’Antipurgatorio. Qui si trova la clamorosa e scandalosa salvezza di Manfredi: scandalosa non solo politicamente, perché contrasta il passo evangelico in cui Cristo conferisce a Pietro le chiavi di Paradiso ed Inferno. Ed è di nuovo un Manfredi eroe, a partire dall’aspetto fisico: ma è soprattutto un Manfredi italiano, figlio di Costanza d’Altavilla e padre di Costanza d’Aragona regina di Sicilia; chiara la polemica anti guelfa che vedeva in Manfredi un Tedesco, come canta Guittone in Or è stagion dopo Montaperti.
Poi segue la valletta dei Principi: e qui ritroviamo in forma idealizzata proprio l’aula che mancava nel De Vulgari Eloquentia. In alto, l’imperatore Rodolfo, negletto e che non move bocca, una presenza/assenza che di fatto ne conferma il ruolo imperiale pur nell’indegnità personale: caso simile a quello di Bonifacio VIII, dannato come persona ma in quanto papa indegnamente colpito ad Anagni. Sotto i re, Pietro III d’Aragona, che riprende il ruolo di Federico, e Carlo I d’Angiò; sotto ancora Guglielmo di Monferrato (niente Estensi: Dante non li sopporta proprio).
Una piramide ideale che ripropone l’ordine imperiale legittimato nell’aldilà: nel Purgatorio però, perché dietro la legittimità delle cariche si nascondono errori e peccati degli uomini.
Insistere sulla radice politica di un testo apparentemente erudito come il De Vulgari Eloquentia conferma il suo strettissimo nesso con il Convivio, il primo testo in cui Dante, a partire dalla fine del 1304, matura una prima idea imperiale, lasciandosi alle spalle le logiche comunali. Già nel I libro la scelta del pubblico è lontana dalla cultura comunale di Brunetto, piuttosto sembra anticipare il mondo di Sordello. L’attenta classificazione di coloro che possono o non possono sedere al convivio sbocca nella chiara indicazione della nobiltà; la polemica antinobiliare così viva tra gli Stilnovisti è messa tra parentesi, per favorire i membri di quella curia dispersa ma esistente che sarà tratteggiata nel De Vulgari Eloquentia; dal punto di vista lessicale nei due trattati emergono con forza, nelle due lingue, i termini nobiltà/nobilitas e i loro derivati. Ma è ovviamente il quarto trattato, sull’impero di Roma, a segnare la nuova sensibilità dantesca: non c’è qui l’urgenza del De Monarchia, è ancora una consapevolezza teorica, come dimostra la delusione dantesca verso i signori del Nord Est. Del resto i primi soggiorni veronesi sono stati deludenti, e gli Scaligeri, soprattutto Alboino, sono giudicati con severità.
In quale contesto nascono le due opere? Gli ultimi editori nei Meridiani Mondadori, Tavoni e Fioravanti, indicano anche Verona, dove si trova almeno dal maggio 1303 presso Bartolomeo della Scala; qui la biblioteca Capitolare offre nuove letture a Dante (Livio, Plinio). Ma è soprattutto Bologna il luogo in cui le due opere trovano il contesto più adatto: quello di «filosofo laico», ovvero un filosofo aristotelico che scrive in volgare per insegnare ai governanti illitterati (ovvero non professionisti della cultura) troppo impegnati nella vita pratica i princìpi con cui ricostruire l’Italia e portarla fuori dalle secche del municipalismo, delle fazioni, delle tirannidi; e fornisce loro i princìpi di una lingua nuova ed adatta, anche se in questo caso il pubblico è più quello dei litterati. È la stagione più razionalista di Dante, chiusa tra il lirismo della Vita Nova e il profetismo della Commedia, e rivolta ad una prospettiva mondana e civile: lo confermano la centralità dei termini ragione e ratio e delle loro aree lessicali nei due trattati.
In questa ricostruzione l’arco di composizione dei due trattati si allarga agli anni 1303-1306: questo comporta che Dante abbia iniziato il suo distacco dai Bianchi fiorentini già dopo Pulicciano, nel 1303, ma senza una rottura netta: anzi avrebbe continuato a gravitare nell’area degli alleati antifiorentini ed antiguelfi, iniziando così a frequentare il mondo nobiliare tra Forlì e Verona, per cui è iniziato il Convivio; ma l’approdo al De Vulgari Eloquentia e alle ultime parti del Convivio mostra un Dante più distaccato dalla nobiltà, capace, nel De Vulgari Eloquentia, di rivendicare la superiorità della cultura sulla nobiltà, e di rivolgersi ad un mondo di litterati come maestro di poesia e di retorica: siamo prima del febbraio 1305, data di morte di Giovanni di Monferrato, citato come vivo in De Vulgari Eloquentia I, xxii, mentre Conv. IV è posteriore al marzo 1306, data in cui muore Gherardo da Camino, presentato come morto. Se nella primavera del 1304 Dante è ad Arezzo, per le speranze suscitate dalla mediazione del Cardinale Niccolò da Prato, il suo fallimento e la sconfitta della Lastra spezzano gli ultimi legami con i Bianchi fiorentini. Ma a questo punto per Tavoni e Fioravanti l’approdo è Bologna, tra la metà del 1304 e gli inizi del 1306, quando i guelfi neri bolognesi rovesceranno i bianchi e cacceranno gli esuli fiorentini.
Bologna è l’unico luogo che associ il mondo dell’universitas, che offre il sostrato teorico alle riflessioni dantesche, ma anche quello delle artes dictandi, e Dante nell’esilio si guadagnerà da vivere come dictator, come rivela il corpus delle Epistole; infine è sede di una scuola di poeti volgari discepoli di Guinizelli: e questo spiega sia la lode al bolognese che la presenza di una serie di poeti emiliani (francamente oscuri) nel De Vulgari Eloquentia, grandemente lodati. E poi a Bologna Dante aveva stretto legami politici già negli anni ’90.
Credo che un indizio a favore di questa tesi sia poi la presenza di Cino da Pistoia. Infatti Cino è prima di tutto un illustre giurista di scuola bolognese, e qui ha una fitta trama di legami. Il suo ruolo nel De Vulgari Eloquentia è centrale: Cino e l’amico suo sono in fondo i soli due poeti capaci di usare la nuova lingua illustre. La formula richiama il primo amico della Vita Nova, ovvero Cavalcanti, qui sostituito da Cino. Non inganni però l’apparente umiltà della formula: il parallelismo delle due frasi, Dante/Cino vs. primo amico/ l’amico suo dimostra che il tratto marcato, la figura importante è quella non nominata: Dante si considerava inferiore a Cavalcanti, ma superiore e Cino.
Il legame con Cino, guelfo nero pistoiese, diventerà centrale nel 1306: all’inizio di quell’anno non solo cadono i Bianchi bolognesi, ma Moroello Malaspina caccia i Bianchi pistoiesi, permettendo a Cino di rientrare in città, e soprattutto stringendo con lui un legame che sarà fondamentale per Dante, che cerca di rientrare nell’ambito toscano e di trovare un accordo con i Neri, da cui nascerà «l’Inferno guelfo».
La maggior parte dei biografi danteschi però opta per una rottura brusca con i Bianchi nella primavera-estate 1304. In questo caso l’ipotesi bolognese appare meno condivisibile, e si pone il problema della destinazione dantesca dopo la rottura.
Carpi e Inglese sembrano indicare come probabile un approdo a Treviso, presso il buon Gherardo da Camino. Lo indicherebbero sia l’appellativo affettuoso di Purg., XVI, 121-140, sia l’onorevole citazione in Conv., IV xiv, 12; nonché il silenzio sulla sua uccisione del vescovo di Feltre e sull’ipotizzata, ma non provata, complicità nell’uccisione di Iacopo del Cassero.
I da Camino erano grandi rivali dei Della Scala, e questo rispecchierebbe la rottura con i Bianchi; comunque Gherardo è un mediatore, capace di portare Venezia e Padova ad un accordo nell’autunno 1304: e questo si accorda con la volontà dantesca di uscire dalle fazioni.
Soprattutto però Gherardo da Camino è amico ed alleato di Corso Donati, che sarà podestà a Treviso nel 1308, subito prima della morte. Dunque Dante a Treviso può rafforzare il legame con la fazione “magnatizia” dei Neri, quella di Corso, cui già è collegato tramite il matrimonio con Gemma, cugina del capoparte nero e non a caso rimasta a Firenze con i figli, nonostante l’esilio del marito.
In fondo Dante non stravolge la sua posizione: se il Convivio ha un profilo laico ed imperiale, è comunque rivolto al mondo nobiliare dei vecchi casati di investitura imperiale, contrapposti alle “populari persone” (Conv. I,xi,4), ovvero ai nuovi ceti comunali che vivono all’interno del sistema delle artes; e rivolgendosi di nuovo al mondo guelfo, Dante si orienta o verso i rami guelfi neri di antiche casate come i conti Guidi o i Malaspina, o verso la fazione magnatizia di Corso: la linea politica cambia, quella sociale molto meno.
Centrale in questa ricostruzione è l’analisi delle canzoni dantesche. È curioso come per secoli si sia letto un Dante non fedele ai manoscritti: c’è voluta la recente edizione di Gorni per tornare a leggere la Vita Nova divisa nei suoi 31 capitolo originali, e non in 47; e quella delle Rime di De Robertis per tornare alla sistemazione dantesca delle 15 canzoni, risalente proprio al 1304 circa, e a noi trasmessa da Boccaccio. Né si dimentichi che il testo della Commedia è ancora senza edizioni critiche: quella di Petrocchi segue una sola famiglia di codici, in una tradizione terribilmente contaminata, ma in cui si sta facendo qualche luce.
Questa svolta politica si esprime dapprima in due testi chiave: la lettera citata da Leonardo Bruni, iniziante con Popule mee, quid feci tibi? Si tratta di una epistola ufficiale, inviata ai priori: è però andata perduta, forse perché mal si accordava con l’immagine che Dante darà poi di sé. In essa Dante riafferma il suo guelfismo, rievoca la sua partecipazione a Campaldino, difende la sua politica, ma ammette la sua colpa: appunto il legame con i Ghibellini. Così la rottura con Bianchi e ghibellini diventa pubblica; nel Quattrocento Flavio Biondo leggeva la lettera nella cancelleria degli Ordelaffi: evidentemente erano stati i Neri a renderla pubblica, per indebolire i Bianchi attraverso quella che sembrava la defezione di un altro dei loro esponenti: si noti, uno che aveva strettamente collaborato con Lapo Saltarelli, il traditore dei Bianchi del 1301. Per i contemporanei, l’associazione doveva essere inevitabile: di qui l’aspro giudizio su Lapo nella Commedia!
Ma soprattutto è in Tre donne intorno al cor che si coglie la svolta: il testo esprime un orgoglio che non è privo di polemici echi politici, come si nota nell’ultima stanza:
l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
ché, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader co’ buoni è pur di lode degno. (vv. 76-80)
Qui la contrapposizione bianchi-neri è ancora esplicita: ai bianchi viene riconosciuto il valore di una scelta che era stata quella di Dante, ai neri non viene concesso neppure il loro colore, ma quel perso, misto tra rosso scuro e nero, che tornerà nella Commedia come colore infernale e del peccato.
Però l’ultima stanza mostra al termine già forti incrinature
s’io ebbi colpa,
Più lune ha volto il sol poi che fu spenta,
Se colpa muore perché l’uom si penta.(vv. 88-90)
che permettono a Carpi di pensare ad una datazione non al 1302, ma ai mesi a cavallo della Lastra: le lune/mesi ci portano a fine 1304/inizio 1305, in concomitanza con l’ipotizzato spostamento a Treviso. E culminano con il doppio congedo: gli ultimi studi sospettano che non sia uso raro in Dante inserire congedi per reinterpretare testi precedenti; così per la Montanina e Doglia mi reca. Qui insolito è il fatto che sia doppio: forse non perché scritti in date diverse, ma perché il primo nasce per tutti, ed è più ambiguo, mentre il secondo, che mostra toni umili e il riconoscimento della vittoria dei Neri, fa pensare che sia stato aggiunto per pochi interlocutori fidati, in mesi in cui Dante ancora si muove in ambienti bianchi: cambiare fazione richiede prudenza. Infatti colpisce il fatto poi che solo pochi codici conservino il secondo congedo.
Canzone, uccella con le bianche penne;
canzone, caccia con li neri veltri,
che fuggir mi convenne,
ma far mi poterian di pace dono.
Però nol fan che non san quel che sono:
camera di perdon savio uom non serra,
ché ’l perdonare è bel vincer di guerra. (vv. 101-107)
Se poi accettiamo la lettura di uccella non come verbo ma come sostantivo, e bianche sono le penne del petto del falcone, con cui colpisce la preda (non con becco ed artigli: i nobili lo sanno), otteniamo una coppia di sostantivi che incarna le forme più nobili dello sport nobiliare per eccellenza, la caccia: sembra di cogliere le speranze legate all’ideale unione di falchi bianchi e veltri neri (neri, stavolta, non persi, e il veltro è animale nobile, si pensi al Veltro).
Pentimento non per le scelte che hanno portato all’esilio lui e i Bianchi, ma per l’alleanza ghibellina; e da Treviso ai Malaspina ai Guidi di Dovadola l’accoglienza di Dante indica l’accettazione di questo pentimento nell’ambito dei Guelfi Neri legati al mondo della nobiltà; Però il tono è del tutto personale: Dante parla per sé, ormai lontano da ogni logica di fazione, e la sua nostalgia è del bel segno. Che non è Firenze, come spesso si chiosa: Dante non può dire che se non fosse per la nostalgia di Firenze non gli peserebbe l’esilio da Firenze. Neanche Guittone… Che Amore sia Eros e vi sia una spiccata componente erotica nella canzone è un dato di fatto, e politica e passione amorosa si associano come nella Montanina.
RITORNO A CORSO
L’ipotizzato approdo a Treviso non dura molto, perché Dante non ha buoni rapporti con Rizzardo, il figlio di Gherardo che gli succede verso il 1305; né Firenze appare interessata al pentimento dantesco.
Una nuova prospettiva invece gli viene offerta, come ricordato, da Cino, che si muove nel complesso mondo politico con una disinvoltura ben maggiore. Infatti il suo ruolo di giurista gli tiene aperta la pur bianca Bologna, dove è Magister Iuris ed inizia una carriera luminosa che lo porterà su cattedre di diverse università, come a Napoli dove incrocerà il giovane Boccaccio, poco interessato ai suoi insegnamenti giuridici ma molto alla sua attività poetica. Cino è il punto di incrocio tra i tre grandi del Trecento, e come giurista troverà spazio ancora nelle note della manzoniana Storia della Colonna Infame.
Ma Cino è guelfo nero, esiliato da Pistoia: la comune condizione di esilio lo lega a Dante, però a differenza di questo rimane saldamente inserito nella sua fazione; quindi rimane l’unico alleato che possa essere lodato nel laico ed imperiale De Vulgari Eloquentia e fungere da tramite con i guelfi neri.
Soprattutto perché lo introduce presso Moroello Malaspina da Girovagallo (da non confondere con altri tre Moroello Malaspina di diversi rami della casata). Cino era esule dal 1303 e grazie alla conquista di Pistoia nel 1306, ad opera di Moroello, poté tornare a casa. Questi era capitano dei Neri fiorentini e dei lucchesi nella guerra contro i Bianchi di Pistoia dal 1302 e come tale conquistatore di una roccaforte dei Bianchi, il castello di Serravalle, e ancora capitano della Taglia Guelfa dal 1306, carica con cui condusse a termine l’assedio di Pistoia nell’aprile di quell’anno. I suoi legami con Corso Donati sono stretti, ma è una figura che nessun nero fiorentino può permettersi di ignorare, nemmeno i “popolani” Toseschi.
La contrapposizione tra un Dante filosofo laico, proiettato su uno sfondo bolognese (sia di effettiva residenza, oppure solo come destinataria ideale), che si ritrova in Convivio e De Vulgari Eloquentia, e quella di un Dante che cerca un compromesso con la fazione nera di Corso, evidente nelle ultime canzoni della risistemazione da lui fatta della sua opera lirica post-Vita Nova, avviene all’ombra di un convitato di pietra: l’Inferno.
Datare l’inizio della Commedia non è facile: l’arco di tempo è molto vasto. La datazione tradizionale la pone tra 1304 e 1307; Inglese la ritarda all’autunno 1308, dopo la morte di Alberto di Asburgo o all’inizio del 1309, alla notizia dell’elezione di Arrigo VII, ritrovando nelle vicende imperiali il meccanismo che trasforma l’apprezzamento teorico per l’Impero nel Convivio in ansia profetica.
Al contrario Carpi ritiene da non trascurare la notizia boccacciana di un inizio ante-esilio, di un primo abbozzo ancora pienamente fiorentino, che avrebbe fornito una ideale base di partenza per quello che lui chiama l’Inferno Guelfo, ovvero i canti, dominati da fiorentini, che vanno sino a Gerione; il suo volo segna non solo uno stacco topografico, ma un mutamento radicale di atmosfera, con un graduale abbandono della centralità fiorentina.
Effettivamente Boccaccio è di solito ben informato, e da un punto di vista biografico-politico la sua ricostruzione ha senso. Gemma Donati rimane a Firenze e ottiene di recuperare la propria dote; vi ritrova gli abbozzi danteschi e li affida a Dino Frescobaldi, esponente prestigioso dei Neri ma anche uno del tradizionale gruppetto “stilnovista”; e questi li farebbe trasmettere, nel 1306, a Moroello Malaspina in Lunigiana tramite Cino da Pistoia; per questa via arriverebbero nelle mani di Dante, impegnato nel riavvicinamento ai Guelfi, e questi ne trarrebbe occasione per un’opera che si rivolga, almeno agli inizi, al pubblico fiorentino.
Carpi offre un’apertura di credito anche alla lettera di frate Ilaro e alla sua citazione di un incipit latino della Commedia: tuttavia Tavoni mi sembra aver dimostrato con sicurezza che almeno una decina di parole od espressioni di questi due esametri e mezzo derivano dalla prima Ecloga di Giovanni del Virgilio e dalla prima di Dante in risposta, ormai al termine della vita del poeta: quindi almeno questa notizia va esclusa; sul resto della lettera, rimangono dubbi.
Comunque la tesi di Carpi di un Inferno Guelfo (i canti I-XVII) appare ben motivata: Guelfo, non Nero. Dante infatti, come in Tre donne, vuole cancellare la sbandata verso i Ghibellini e riaffermare la sua appartenenza al guelfismo, ma continua a rifiutare le logiche di fazione.
Carpi ipotizzando una riscrittura dei primi canti individua in un passo di Inf. II una dichiarazione di guelfismo ben lontana dai temi imperiali del Convivio:
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto[Enea]:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero. Inf. II, 20-24
Il passo è discusso, Nardi riporta la santità di Roma al volere di Dio, proprio per non contraddire il Convivio; l’idea di Carpi di una redazione ante-esilio riporterebbe il testo al Dante guelfo fiorentino, che qui, come nel caso di alcune canzoni, rileggerebbe secondo la necessità presente opere di una stagione precedente; con qualche imbarazzo, come dimostra l’inciso a voler dir lo vero.
A segnare la scrittura di questo prima parte dell’Inferno, ma a lasciare una memoria che continua sino almeno agli inizi del Purgatorio, è il mondo in cui si muove Dante: sono i suoi ospiti, i suoi commensali, i loro interessi a suggerirgli alcuni dei passi più noti, a fornirgli notizie che altrimenti non sapremmo come avrebbero potuto giungere a Dante.
Così il poeta incontra nel Casentino Guido dei Guidi di Battifolle, marito di Gherardesca figlia di Ugolino: ancora nel 1311 è presso di lui e scrive per conto della moglie l’epistola XI. Incontra la sorella di Buonconte da Montefeltro; e Margherita Malatesta, figlia di Paolo, sposa di Uberto Guidi dei Guidi di Romena, destinatario dell’Epistola II: è da questa fonte privilegiata che nascono quei particolari che rendono così singolare il canto V, una vicenda altrimenti a stento testimoniata da altre fonti.
Dietro l’epos romantico della lettura desanctisiana, il canto appare molto più complesso: ha ragione Freccero collega lo svenimento di Dante più che alla pietà al turbamento personale per le responsabilità del poeta d’amore (galeotto fu il libro e chi lo scrisse), quasi ruffiano del peccato. Ma va notata l’importanza della Romagna, che nel panorama politico dell’Inferno precede persino la Firenze di Ciacco: segno che il pubblico è quello dei nobili a cavallo dell’Appennino. Colpisce poi il silenzio di Paolo: imposto dal primato cortese di Francesca, si spiega normalmente. Ma forse anche una cortesia verso Margherita, cui risale forse anche la curiosa condanna di Gianciotto: non tra i violenti, dove dovrebbe finire un omicida d’onore. Ma tra i traditori dei parenti: quindi più di Paolo che di Francesca; Margherita conosceva bene le rivalità dei fratelli per il possesso della contea di Giaggiolo, e suggerisce a Dante un motivo ben più prosaico di un marito tradito.
A questa stagione risale anche un complesso nodo legato agli Angiò: odiatissimi, si pensa. Ma Dante ancora nel Purgatorio ostenterà la sua familiarità con Carlo Martello, porrà nella valletta dei principi Carlo I dal maschio naso insieme al membruto Pietro III d’Aragona, marito della buona Costanza figlia di Manfredi; e non esita a rimproverare di persona Niccolo III per la requisizione delle decime a scapito di Carlo d’Angiò
Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito. Inf. XIX, 97-99
Questa attenzione agli Angiò deve essere stata confermata dal soggiorno presso i Guidi di Dovadola; da essi veniva Guido Guerra, figlio della buona (ancora!) Gualdrada, ma anche comandante delle truppe fiorentine a Benevento.
Ultimo esempio di quanto la Commedia risenta del mondo che circonda Dante, è il nodo della Sardegna. Nino Visconti, giudice Nin gentil (Purg. VIII, 53), potente nobile dei Visconti di Pisa, giudice del Giudicato di Gallura, guelfo e acerrimo rivale del nonno materno Ugolino della Gherardesca, muore giovane senza eredi maschi, ma lasciando la figlia Giovanna. Alla sua mano aspirano molti, tra cui Moroello Malaspina, che la vuole per il figlio. A lui si oppongono Genova e Pisa: Dante parteggerà per il suo ospite, e così spieghiamo sia la presenza di figure come Ugolino o Branca D’Oria tra i dannati peggiori, ma soprattutto il fatto che ad ognuna di queste figure viene aggiunta un’invettiva gemella che colpisce le due città:
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona, (Inf. XXXIII,79-80)
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi? (Inf. XXXIII, 151-153)
Il marito diventerà però poi proprio il Rizzardo da Camino figlio di Gherardo che forse allontanerà Dante da Treviso: probabilmente con l’aiuto degli odiati Este! Comunque il Giudicato di Gallura diventerà pisano, di diritto dal 1308.
VERSO LA FRANCIA?
Tutta questa fatica per riavvicinarsi ai Guelfi è vana. Nel 1308 Corso viene ucciso e i Guelfi Neri passano sotto il comando dei Della Tosa, ostilissimi ai Bianchi e poco sensibili al mondo nobiliare; poi Lucca, che probabilmente Dante frequenta sotto la protezione di Moroello, nel 1309 su richiesta di Firenze bandisce i Bianchi. Sappiamo che Dante frequenterà ancora il Casentino tra 1309 e 1311, ma le sue tracce si fanno confuse.
La lettera di Frate Ilaro, per quanto controversa, ci mostra un Dante “oltramontano”. Ammesso che sia affidabile, le ipotesi possibili vedono il poeta dirigersi verso il 1309 oltre le Apuane a Genova, dai Fieschi da cui giunge la moglie di Moroello. Oppure è qui che meglio può essere collocato il viaggio in Francia su cui la tradizione insiste, anche sulla scia del Vico degli Strami (Par. X, 137) in cui Sigieri … silogizzò … invidiosi veri. Potrebbe anche ipotizzarsi che in questo viaggio Dante abbia portato con sé il Fiore: ammettendone la discussa paternità, sarebbe un testo probabilmente giovanile non più presentabile ad un pubblico italiano che conosceva l’autore della Vita Nova e del Convivio, ma ancora appetibile in una Francia in cui il Roman de la Rose, di cui il Fiore è riscrittura, godeva di ampia notorietà. Così forse si potrebbe risolvere una delle obiezioni più forti all’autenticità, ovvero che l’unico manoscritto arriva dalla Francia.
In Francia o altrove, arriva al Dante la notizia prima dell’elezione di Arrigo VII, poi della sua discesa in Italia. L’imperatore passa da Susa, e Dante lo incontra a Vercelli probabilmente il 17 dicembre 1310; con lui giura fedeltà all’imperatore anche Moroello. L’incontro a Vercelli potrebbe far pensare ad un rientro dalla Francia, mentre la presenza di Moroello lascia immaginare legami che non si sono mai allentati.
In ogni caso con Arrigo si chiude la stagione dell’exul immeritus, del Dante che in ogni modo, dalla spada alla penna all’implorazione cerca di tornare a Firenze. D’ora in poi l’ottica dantesca è universale, e il ritorno a Firenze non una necessità ma un dovere dei fiorentini. Sono loro a doversi pentire di tutta la loro azione, come dimostra l’Epistola all’amico fiorentino, in cui Dante sdegnosamente rifiuta di tornare a piedi nudi e con la corda al collo, more cuiusdam Cioli (probabilmente Ciolo degli Abati, appaltatore condannato nel 1291).
Invece sarà lui a dettare le condizioni del ritorno in Par. XXV, 7-9
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
Il Dante profeta non è più guelfo o ghibellino, implorante o armato. È il profeta, e solo come profeta potrà tornare.
[1] Termine di disprezzo evangelico, cfr. Matth, V, 22.
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Sitografia
http://dante.dartmouth.edu/
http://www.worldofdante.org/index.html
http://www.treccani.it/biografie/
http://www.classicitaliani.it/dante/critica/Fenzi_Dante_ep_3.htm
Bibliografia
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Alighieri Dante, Rime, a cura di Domenico De Robertis, Firenze, [Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale], 2002, vol. 3, pp. 225-235.
Umberto Carpi, L’Inferno dei guelfi e i principi del Purgatorio, Milano 2013.
Guglielmo Gorni, La canzone “montanina”, «Letture classensi», 24, 1995, pp. 129-150.
Giorgio Inglese, Vita di Dante. Una biografia possibile. Roma 2015
Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Roma-Bari 1993.
Marco Santagata, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna 2011.
Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Milano 2012.
Mirko Tavoni, Qualche idea su Dante, Bologna 2015.
QUI la prima parte del saggio