Dialogo sulla scuola

1913

GABRIELLA MONGARDI – FRANCO RUSSO – GABRIELLA VERGARI.

Non amo i treni anzi, per la verità, mi sono recentemente reso conto che potrei anche viaggiare piacevolmente in treno se lo stesso fosse mio ed io l’unico passeggero. In realtà non amo gli sconosciuti compagni di viaggi. Purtroppo, qualche tempo fa, ho dovuto affrontare un Torino-Firenze per un importante appuntamento. Prenoto rassegnato a non poter fumare per qualche ora e inoltro preghiere al dio dei viaggiatori Mercurio e, ad abundantiam, anche a San Cristoforo che non è protettore degli automobilisti ma di tutti i viaggiatori, perché lo scompartimento sia vuoto. Naturalmente non è successo e trovo, una dirimpetto all’altra vicino al finestrino due signore. Vestite bene, di bell’aspetto, più giovani di me – che non vuol dire giovani – e, soprattutto, senza appendici di frugoletti urlanti. Saluto con garbo e loro rispondono e poi, dopo trenta educati secondi di silenzio, riprendono il discorso interrotto dal mio arrivo. Ahi, parlano di scuola. Naturalmente evito di qualificarmi per il mestiere fatto fino a qualche anno fa e, un po’ provocatoriamente, estraggo l’ultimo di Pansa “Vecchi, folli e ribelli” per segnalare la mia intenzione di non partecipare alla conversazione. Missione parzialmente fallita perché, nonostante l’educato tono basso, non posso fare a meno di ascoltare. Capisco che una delle due è in pensione e l’altra in servizio, che una è piemontese e l’altra siciliana e che stanno andando a Roma. E, curiosamente, ciascuna delle due si rivolge all’altra chiamandola Gabriella. Cerco di leggere ma continuo a rileggere le stesse tre righe e fatico a concentrarmi. Evidentemente sentire parlare della scuola – di come è diventata, di come era, i presidi della pensionata, i colleghi della sicula – nonostante le mie resistenze mi prende. Ma, per fortuna, le parole a mezza voce delle due non mi disturbano e, senza accorgermene, la testa parte e mi ritrovo a pensare alla “mia” scuola.

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Primo ottobre 1952: mi avvio per l’esordio della mia carriera scolastica in prima elementare. Prima “mignin” dicevano i grandi. E, se non ricordo male, il “mignin” era l’antenato delle merendine, un wafer incartato che costava dieci lire ed era diventato il simbolo della classe frequentata dai più piccoli. Più tardi avrei appreso che da altre parti, forse soprattutto a Milano, i bambini, nel loro primo giorno di scuola, erano detti i “remigini” in onore di San Remigio che, a quei tempi era ancora santo così come la scuola iniziava sempre il primo ottobre, giorno appunto di San Remigio. Oggi i “mignin” non esistono più, San Remigio è scomparso dal calendario e forse non è nemmeno più santo e la scuola inizia quando pare a pensosi burocrati regionali. E non ci sono più madri, padri e nonni che tenendoli per mano e a piedi tiravano, spingevano, incanalavano chiassosi bimbetti con il loro grembiule nero, il solino bianco rigido per i maschi e di stoffa, qualche volta ricamato per le femmine ed il fiocco blu, rigorosamente annodato con la “rosa” i cui “petali” erano assolutamente simmetrici. Dalla terza in avanti il grembiule, per i maschi, era sostituito dalla blusa, sempre nera ma con taschini da grandi ed applicati, sulla manica destra, i “gradi” scritti in numeri romani, III, IV, V. Per le bambine sempre il grembiule bianco o blu o rosa. Oggi, in genere, tutto questo è sostituito da orrendi scuolabus e, soprattutto, da mamme che, con l’automobile, vorrebbero riuscire ad accompagnare i pupi fin nel banco. Se fossi importuno potrei raccontare tutto questo alle mie due compagne di viaggio, ma no, meglio di no. Ho il timore che, dopo aver inflitto loro i miei ricordi, non reggerei la reciprocità. E mi rituffo nei miei pensieri.

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Primo ottobre 1960: mi avvio per l’esordio della mia carriera scolastica al Liceo Classico “Pellico” di Cuneo. Quattordici anni ma giacca, camicia e cravatta. Si sa che la giacca è di rigore, la camicia non obbligatoria ma gradita, la cravatta non indispensabile ma molto apprezzata. Le povere fanciulle sfoggiano l’eleganza nel tragitto casa-scuola perché, appena dentro, accedono al locale “spogliatoio” dove indossano castigatissimi grembiuli, rigorosamente neri. E la regola di giacca e cravatta per i maschi ha il corrispettivo per le femmine: sotto il grembiule obbligatori gonna o vestito, proibiti i pantaloni, e vietatissimi i peccaminosi jeans. Con una sola lodevole eccezione: le – allora – abbondanti nevicate. Desiderate e invocate dalle fanciulle erano l’occasione per sfoggiare pantaloni “alla sciatora” e scarponcini, le più modeste e vereconde, ma i primi eleganti e coloratissimi pantaloni made in Limone Piemonte accompagnati dai primi doposci di pelo per le più ardite e libere. E, in quelle occasioni, nei corridoi del severo liceo i proff. chiudevano un occhio sui grembiuli neri distrattamente sbottonati per esibire … i pantaloni. Ricordo che, in terza liceo, anno 1965, le precorritrici dell’imminente sessantotto, al termine di un garbato ma fermo confronto con il preside riuscirono ad ottenere il permesso di indossare i pantaloni durante le lezioni pomeridiane. Concesso, ma confermato il divieto assoluto dei jeans.

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Anche questo ricordo potrei condividerlo ma, in realtà continuo a pensare per conto mio e, reso il giusto tributo alla malinconia del rimpianto per il tempo che fu, se volessi provare a ragionare con le due signore sulla scuola italiana del dopoguerra, materia sulla quale instancabili continuano a disquisire, mi piacerebbe parlare, forse scandalizzandole un po’ e con scelta, naturalmente arbitraria, della fine anni quaranta e anni cinquanta, elevazione dell’obbligo scolastico a quattordici anni, 1964, del ’68, dei fenomeni di fine millennio: sostegno, istituti comprensivi, immigrazione. Magari provando a leggere i fenomeni cercando la risposta alla domanda da un milione di dollari: cosa voleva fare e cosa faceva, a cosa serviva la scuola dei primi cinquant’anni di repubblica e cosa è, cosa fa, cosa vuole oggi. Mi piacerebbe buttare giù qualche affermazione, per il momento apodittica, consapevole del rischio del linciaggio che subirei da parte delle compagne di viaggio che, dai discorsi che ho orecchiato, mi paiono molto più “moderniste” di me e, forse, persino un po’ di sinistra.

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Potrei dire che la scuola italiana del dopoguerra nasce da un infelice accordo tra comunisti e cattolici: i primi ponevano attenzione alla creazione di posti di lavoro con uno sguardo particolare al mondo femminile; i secondi, ancora affezionati alla sposa e mamma angelo del focolare e sostegno della famiglia, volevano che le donne italiane potessero continuare ad essere l’arco portante di un rassicurante sistema di buoni sentimenti. Così nasce la femminilizzazione degli insegnanti: ti do un lavoro, ti pago poco e ti chiedo pochissimo, lavori solo qualche ora al mattino, hai tre mesi di vacanza, contribuisci all’economia della famiglia ma hai il tempo per continuare ad essere sposa, mamma, nuora, figlia e di tenere accesa la fiaccola. Oggi la percentuale di insegnanti al femminile è, all’incirca, del 99% nella scuola dell’infanzia, del 90% nella elementare, del 75% nella scuola media e del 60% nella superiore. Può darsi che, per scolari e studenti, identificarsi quasi esclusivamente o prevalentemente con un mondo al femminile non sia una situazione priva di conseguenze negative.
La legge è del 1962, operativa dal 1964 e porta l’obbligo di istruzione a 14 anni. Prima era a 11. Le conseguenze sono l’abolizione dell’avviamento professionale e la necessità di dover, dall’oggi al domani, raddoppiare il numero dei docenti. Prima chi concludeva la scuola elementare aveva tre opzioni: smettere di studiare e andare a lavorare, ad imparare un mestiere come si diceva allora, indirizzarsi all’avviamento, un’ottima scuola propedeutica all’inserimento nel mondo del lavoro spesso attraverso il passaggio dell’apprendistato oppure frequentare la scuola media. Questa prevedeva, allora, lo studio del latino fin dalla prima e, per esempio, dell’Iliade in prima, Odissea in seconda ed Eneide in terza, era assolutamente selettiva e, naturalmente, accompagnava alla scuola superiore studenti dotati di un notevole livello di conoscenze e competenze. La situazione del 1964 fu la istituzione in tutti i paeselli della Scuola Media Unica – così si chiamava – ma non c’erano abbastanza insegnanti. Così si ricorse agli studenti universitari – chi scrive, per esempio, ha fatto scuola per tutta la durata dell’università – con volenterosi ventenni che passavano dai banchi alla cattedra. E se questo, tutto sommato, non fu un grandissimo danno per le materie letterarie lo fu certamente per quelle scientifiche – studenti di economia e commercio a insegnare matematica e scienze – e più ancora per le lingue straniere. C’erano anche pochi studenti universitari di Lingue ma qualcuno si ricordò che a Giurisprudenza si doveva dimostrare la conoscenza di una o due lingue straniere ed ecco la soluzione: studenti di giurisprudenza insegnanti di francese e di inglese. Può essere che la scarsa dimestichezza degli italiani con le lingue straniere abbia anche una parte della spiegazione in questo.

Antonio Rubino - 1910, Corriere dei Piccoli - Quadratino

Bene qualche anno in cui la scuola italiana, soprattutto la media di primo grado fu nelle mani, e nelle teste, di volenterosi ignoranti sui quali stava per abbattersi il ’68. E il ’69 ed il ’70 e gli anni del sei politico, delle okkupazioni, delle P38, del “per insegnare il latino a Pierino non serve conoscere il latino, bisogna conoscere Pierino”. E via il latino dalla scuola media sostituito dalle Applicazioni tecniche, tentativi di abolire il greco dai classici, di far studiare il latino in italiano ed altre deliranti fantasie. Via i voti sostituiti da lettere, pesciolini, palle colorate, via gli esami di riparazione, via le bocciature. Introduzione del sostegno ai portatori di handicap con una legge bellissima ma inattuabile, abolizione di presidi e direttori didattici sostituiti da anonimi e burocratici dirigenti scolastici. E prolungamento, fittizio, dell’obbligo scolastico a sedici anni, fantasie di unioni incestuose scuola-lavoro. E incapacità di un minimo di programmazione per mettere a concorso i posti di insegnanti liberi in modo da evitare di avere precari disperati con vent’anni di insegnamento sulle spalle. E leggi che pretendono che i dirigenti scolastici siano i responsabili della sicurezza degli edifici senza dare loro le risorse per provvedere. E inserimento indiscriminato nelle classi di bambini di altra lingua, etnia, religione, abitudini senza un minimo di programmazione fidando sul fai da te qualche volta davvero eroico di chi nella scuola lavora.
Ecco, più o meno, la scuola che era e che è. Le due signore continuano, seriamente, a risolvere problemi scolastici che a me paiono senza soluzione possibile. Ad un tratto – benedetti per una volta i treni moderni – si accende una scritta che mi informa che, tra quindici minuti, saremo a Firenze e, finalmente, scenderò. Il diavoletto che mi ronza sempre in testa, fedele compagno ed angelo custode, mi offre un sadico suggerimento: “mancano quindici minuti e poi scendi ma loro non lo sanno; prendi la parola, qualificati – dato che sono educate e garbate almeno fingeranno di ascoltarti con il rispetto che si deve ad un vecchio preside – rovescia loro addosso tutti i tuoi pensieri sulla scuola che fu e che è. Non ti interromperanno ma, mentre ti ascoltano, elaboreranno le loro articolate e documentate riposte. Se calcoli bene il tempo le tue ultime parole, mentre il treno frena, potranno essere et de hoc satis buongiorno care signore, è stato un piacere conoscervi, io scendo qui”. E, naturalmente, ho ascoltato il diavoletto e così ho fatto. Ma non saprò mai quali saranno stati i loro commenti nel loro restante tratto Firenze/Roma. Con un piccolo tarlo: se domani, riprendendo il treno per rientrare a Torino, le dovessi rincontrare nel loro viaggio di ritorno?

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«Che tipo, quel nostro compagno di viaggio! Se fosse intervenuto prima, il nostro dialogo avrebbe potuto diventare un dibattito vero e proprio, invece… Ha aperto la bocca solo all’ultimo momento, ha vuotato il sacco e quando sarebbe toccato a noi replicare si è congedato come Caproni: “Scendo, buon proseguimento!”. Troppo comodo… Ci avverto dietro un pizzico di disprezzo per l’altro, specie se di sesso femminile.
Io gli avrei detto che sono stata una delle prime beneficiate dall’istituzione della Scuola Media Unica e dal prolungamento dell’obbligo scolastico: altrimenti non so se i miei genitori – modesti artigiani – mi avrebbero fatto studiare. Invece, grazie a quel poco latino che si faceva (facoltativo in terza media) ho potuto iscrivermi addirittura al Liceo Classico, con la prospettiva di approdare poi all’Università. L’Università… Per me che amavo tutte le materie – italiano, latino, greco, matematica, chimica, geologia, filosofia, arte – è stato molto doloroso optare per un percorso universitario umanistico anziché scientifico: ma è stata la gratitudine verso l’insegnante di latino e greco a spingermi a diventare insegnante di Lettere, per trasmettere a mia volta la ricchezza, il nutrimento culturale che avevo ricevuto. Devo però confessare che ha contato anche il parere di mio padre, che giudicava il mestiere di insegnante il più adatto a una donna, proprio per il tempo libero che lascia».

«Forse, “che lasciava”! Come se ogni ora di lezione non ne richiedesse tante altre di lavoro, tra preparazione del materiale, elaborazione di tracce e di opportune strategie didattiche, correzione delle verifiche ecc. ecc. Il nostro non è un lavoro impiegatizio che finisce quando lasciamo l’ufficio: è un lavoro intellettuale che continua tra le mura domestiche, richiede concentrazione, silenzio, solitudine. Ma chi lo riconosce economicamente?»

«Nessuno. Come nessuno riconosce che l’impegno richiesto cambia, oggettivamente, da una materia all’altra: altro che “unicità della funzione docente”! Ma questo purtroppo è stato un discorso per troppo tempo tabù, e forse lo è ancora. «Ti pago poco» è verissimo, «Ti chiedo pochissimo» proprio no. Senza tener conto delle ore destinate alle attività collegiali, ai consigli di classe, agli incontri scuola-famiglia… E questa nuova trovata dei Comitati di Valutazione? Ne vogliamo parlare? Chi può veramente dire come, dove, quando e perché ciò che hai seminato un giorno si troverà a fruttare in chi l’ha ricevuto! Non so a te, ma a me è capitato di risentire all’improvviso e in certe circostanze le parole non dico dei migliori ma perfino dei peggiori dei miei docenti.Comunque, per me-alunna la scuola ha rappresentato il volano per una bella promozione sociale, non c’è che dire. E penso che questo avvenga ancora oggi, forse prevalentemente nei confronti degli stranieri.»

«Perché oggi sono loro quelli che paiono averne più bisogno. Il nostro compagno di viaggio ha parlato di “inserimento indiscriminato di bambini di altra lingua, etnia, religione, abitudini senza un minimo di programmazione” – ma come si fa a distinguere e a programmare quando si pensa solo a tagliare i fondi alla scuola?»

«Eh sì, Gabriella mia. Avendo sempre insegnato in un Liceo di provincia, ossia in ambiente protetto, io non ho una conoscenza diretta dei problemi di integrazione – ma continuo a pensare che fenomeni imponenti come i flussi migratori non siano certo rigidamente “programmabili”, ma si debbano ‘assecondare’ e ‘governare’ con l’umanità e la fantasia che nella scuola italiana non mancano certo.»

«Assolutamente! Il fatto è che ciò che in particolare contraddistingue l’attuale classe docente – eccezion fatta per quella rampante della progettualità premiante e della collaborazione oltranzista – è il velo di diffuso e palpabile avvilimento che di giorno in giorno pare sempre più fittamente avvilupparla a retaggio di una condizione ormai pericolosamente prossima all’assoggettamento e alla subordinazione. Il che in nulla riduce, anzi a volte perfino paradossalmente amplifica, il nostro desiderio e la voglia, non solo individuale ma pure collettiva, di ben operare e di incidere – come sempre è stato e sempre sarà finché insegnante che si rispetti sopravviva – sulla variegata quotidianità della complessità scolastica.»

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«Per l’appunto. Senza accentuare la dimensione ludica della scuola, si dovrebbe almeno attenuare quella carceraria! Servirebbe maggiore elasticità e flessibilità a tutti i livelli: classi aperte, piani di studio in parte personalizzati, orario flessibile… Si tratterebbe cioè di continuare sulla via additata dalla riforma Sullo dell’esame di maturità del 5 aprile 1969 – di cui per fortuna ho di nuovo beneficiato, risparmiandomi l’inutile trauma che ha marchiato le generazioni dei liceali nati dagli anni ’20 fino agli anni ’40. E l’autoritarismo gratuito che caratterizzava la loro scuola. Benedetto ’68, altroché! Bisognerebbe continuare a rendere la scuola, la scuola superiore, quella in cui alunni e alunne entrano adolescenti e ne escono giovani uomini e giovani donne, un po’ più ‘movimento’ e un po’ meno ‘istituzione’.»

«D’accordo, Gabriella, ma come la mettiamo, ripeto, con i tagli voluti dalle riforme? L’altro pomeriggio ho incontrato tre colleghe alla posta. Erano lì come me per lo spid. Il che significava che erano già passate per le stesse forche caudine della registrazione on-line e dei call-center intasati e dei refrain vivaldiani del numero verde del centralino postale. E che c’erano riuscite prima che il sistema saltasse per l’esorbitante numero di accessi…»

«Ma non sarebbe stato molto più semplice dotarvi di una card prepagata?»

«Certo, forse hanno pensato che avremmo desistito o forse non si sono accorti della forza che costituiamo…»

«Un po’ anche per colpa nostra, però, perché siamo i primi a dimenticarlo laddove, soprattutto di fronte ai fantasiosi ‘parti’ di ministri, ministeri e logaritmi, che tutto sembrano fuorché rispettare la nostra dignità e il nostro benessere psico-fisico, dovremmo piuttosto ricordarlo e con determinazione.»

«Altro ché! Purtroppo fin nel reclutamento, ammesso che di reclutamento si possa oggi correttamente parlare, ci addestrano meglio dei marines a sopportare prove e, perché no, umiliazioni di tutti i tipi. Viene fuori una tempra che forse non est in votis ma è più che forgiata, ma anche un individualismo frutto di un collaudatissimo divide et impera che non ci fa essere uniti se non in casi estremi. E anche quando, hai visto quello che è successo con Renzi e l’imponente sciopero dello scorso 5 maggio? Il fatto è che la nostra protesta non sembra arrecare alcun fastidio ed anzi qualcuno insinua che, dato il nostro numero, quasi quasi lo Stato potrebbe perfino guadagnare da un nostro sciopero.»

«Mi stavi dicendo delle colleghe…»

«Ah sì! Ḕ stato un po’ come riflettermi in uno specchio, benché credo lavorassero in una scuola media inferiore e dunque si trovassero in un contesto un po’ diverso dal mio. A sentirle mi si è accapponata la pelle! Una parlava, senza lamentarsene, anzi come se descrivesse una situazione normale, della sua classe di 28 alunni, di cui 4 dislessici certificati, 1 disgrafico e 2 caratteriali.»

«Ma i caratteriali non dovrebbero avere l’insegnante di sostegno?»

«Certo, però da loro i tagli erano stati tali che non solo l’insegnante di sostegno si trovava su due scuole, ma le sue 12 ore le divideva tra un alunno autistico ed una con la sindrome di Asperger. Guarda, mi sono sentita attraversare da una gran pena, per le colleghe, per l’insegnante di sostegno, per i due alunni, ma anche per tutti i loro compagni normodotati che allegramente convivevano, apprendevano e studiavano in situazioni così problematiche. Poi, ad un tratto, una ha detto alle altre: – E comunque, dovremmo cominciare a raccogliere e a contare le campanelle. – »

«Le campanelle? Ma di che si tratta?»

«Ho fatto un veloce riepilogo mentale ma non sono riuscita a collocare le campanelle in nessun modo, né col Miur, né con lo spid, né con un segnale luminoso, né con un simbolo della nuova didattica, né con una moderna galassia telematica 2.0. Di che diamine parlano? mi son chiesta. Incuriosita, mi sono presentata e ho domandato.
- Ma dei gadget per l’orientamento da dare a quelli delle quinte elementari durante l’open day! Non li fate, voi delle superiori?- mi hanno risposto tutte e tre in coro, stupefatte ed anche un po’ scandalizzate. Ma in che razza di realtà scolastica vivevo, sembravano domandarsi. E sinceramente, me lo sono chiesto anch’io. In che scuola vivo?»

«Eh, la paura della “perdita” degli alunni con il conseguente rischio di un accorpamento dell’istituto o, quantomeno del proprio corso, delle proprie classi, per non dire della propria cattedra… Dove finisce così il “mito dell’istituto”, l’orgoglio dell’appartenenza, fagocitati da una scuola sempre più ibrida (Liceo classico-linguistico-sociale-scientifico…)? Per non parlare della famigerate tre “i” della cosiddetta scuola-azienda: impresa, internet e inglese: potrebbero veramente trasformarsi in una iattura, se non ci si va cauti. Vedi il recente obbligo dell’alternanza scuola-lavoro, che giustamente il preside appena sceso ha definito “unione incestuosa”! Soprattutto negli ordini di scuola che per definizione non sono ‘professionalizzanti’, come i licei, dove si dovrebbe avere il coraggio di riconoscere che lo studio è il lavoro degli studenti: lo studio sia collettivo che individuale, per cui la scuola dovrebbe offrire spazi adeguati. O fidarsi di chi preferisce studiare nella solitudine della propria ‘cameretta’, o magari nelle sale della Biblioteca Civica…»

«Magari! I have a dream, mi verrebbe da esclamare. Guarda, siamo già arrivate! Direi di tenerci il resto per il viaggio di ritorno, altrimenti, se continuiamo di questo passo, rischiamo di perdere la coincidenza. Su, passami la valigia, per favore…»

***

Monte Olimpo, salone di Zeus, solito capannello delle dee in un angolo che spettegolano, solita tavolata degli dei che mangiano, bevono e si raccontano barzellette spinte, solita panca dei filosofi con Socrate che pontifica mentre Platone ed Aristotele fingono di ascoltare il Maestro. Io proverei, dice Socrate, a chiedere a Zeus di informare quel povero e vecchio preside di quanto le due signore hanno detto in sua assenza. Mi fa pena che quel pover’uomo abbia pensato di fare la sua recita con uscita di scena ad effetto ed abbia, in realtà, consegnato la scuola italiana ai commenti, senza contradditorio delle due. Zeus, manda, se vuoi, Mercurio a consegnare a quel poveretto gli scritti di quanto detto in sua assenza. Cenno benevole del capo di Zeus e Mercurio ubbidisce.

Mi ritrovo in mano i fogli con su scritta la mia filippica alle due proff. e, miracolosamente, anche quello che loro si sono dette in mia assenza. Mi ha consegnato i fogli uno strano corriere, extracomunitario, con un buffo cappelluccio con le alette, poco vestito e con uno strano bastone. Va bene l’accoglienza, ma non mi ha nemmeno fatto firmare la ricevuta e la busta era chiaramente manomessa. Leggo e rileggo due o tre volte le mie affermazioni ed anche la risposta delle due compagne di viaggio e cerco di raccogliere le idee. Provo a soppesare con il massimo della lucidità possibile le mie parole e le loro e mi prendo un pugno nello stomaco: in realtà da una parte c’è un vecchio un po’ nostalgico del passato, soprattutto di quello remoto, che analizza i peccati e, fedele spettatore di Law and Order, prova anche ad individuare l’assassino. Dall’altra due eroiche Gabrielle, una che ha smesso da poco e l’altra che ancora combatte, che provano, forse disperatamente, a fare girare le ruote di un’automobile degna solo di rottamazione. Ecco, vedo con abbastanza lucidità la differenza tra me e loro: io non ho più speranze e, sorretto dal cinismo dell’età, credo che il baraccone debba essere demolito dalle fondamenta; loro lottano ancora e si attaccano a piccoli segnali per elaborare la speranza di un futuro. Probabilmente abbiamo ragione tutti e due, tutti e tre, e le due Gabrielle non fanno niente di meno di quello che ho cercato di fare io per tutta la vita confortato dai mantra “non è importante la meta ma il viaggio”, “il mare è fatto di gocce” e tutto il resto del proverbiume con il quale ci siamo – ci hanno – ingannati. Niente da salvare nella scuola italiana tranne, forse, il liceo classico, quella nobile scuola che come ho scritto da qualche parte non ti insegna a fare niente ma ti mette nelle condizioni di imparare a fare tutto. Dipendesse da me, abolirei tutti gli altri indirizzi di scuola superiore e li sostituirei con il liceo classico. Che è sì passato remoto ma, come dice – o scrive o canta, non so – Paolo Conte “spesso il passato prossimo è più lontano del passato remoto”. E forse su questo anche le due Gabrielle sarebbero d’accordo.

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Commento iconografico “La scuola nel fumetto”:

Antonio Rubino, Il Collegio “La delizia” (1913)
Antonio Rubino, Quadratino (1910)
Andrea Pazienza, Giallo Scolastico (1981)