Gli Alpini e Mondovì: qualche riflessione

PRIMA FOTO ALPINI BARETTI  14.01.17STEFANO CASARINO.

Tradizionalmente, gennaio a Mondovì è il mese in cui si festeggiano gli Alpini. Anche quest’anno molte sono state le iniziative, a cominciare dalla Mostra storica al Centro Espositivo S.Stefano inaugurata venerdì 13 gennaio sino all’arrivo del labaro nazionale e al corteo di domenica 15 gennaio.
In quei giorni la città è pavesata di bandierine, ovunque si vedono cappelli con la piuma: il clima è allegro, c’è tanta partecipazione. Non è solo il riguardo, dovuto, ad un importante corpo militare, ma è la manifestazione di un affetto forte, di un legame intenso tra i cittadini e gli Alpini e, anche e soprattutto, tra il nostro non facile presente e il nostro non lontano passato, fatto pure di tragedie e di fatti sui quali è giusto non scenda mai l’oblio.

Qualche informazione storica

Le nostre truppe di montagna, gli Alpini, hanno una lunga e prestigiosa tradizione: create per il Regio Esercito il 15 ottobre 1872, sono il più antico corpo di fanteria di montagna nel mondo, istituito grazie alle idee di due generali, Cesare Ricotti Magnani e Giuseppe Domenico Perrucchetti. Fu in particolare quest’ultimo  che nel marzo del 1872 scrisse un articolo sulla Rivista militare italiana intitolato “Considerazioni su la difesa di alcuni valichi alpini e proposta di un ordinamento militare territoriale della zona alpina”: con ciò si posero le basi  per la formazione di questo corpo militare, di cui egli non fece mai parte.
Gli Alpini nacquero, quindi, per la difesa e la protezione dei confini montani settentrionali del nostro Paese con la Francia, l’allora Impero Austro-Ungarico e la Svizzera: ciò spiega il loro motto, “Di qui non si passa”, inventato dal generale Luigi Pelloux nel 1888.
Chissà, però, quanti sanno che la loro prima missione all’estero fu in Africa, sempre nel 1888: proprio lì avvenne il loro “battesimo del fuoco” in uno scontro tristemente celebre, una grave sconfitta per il nostro esercito: la battaglia di Adua (1 marzo 1896), al termine della quale dei 954 alpini partiti dall’Italia scamparono alla strage solo in 92.
Gli Alpini vennero impegnati anche nella guerra di Libia del 1911, ritrovandosi a combattere tra le dune contro i berberi e i musulmani della Cirenaica.

Oggi, però, a tutti noi  il nome “Alpini” fa immediatamente venire alla mente la Prima Guerra Mondiale: è giusto ricordare che il primo soldato italiano a perdere la vita in tale conflitto (esattamente il 24 maggio 1915, il primo giorno di guerra per la nostra Nazione) fu un alpino, Riccardo Giusto: il primo di più di 600.000 uomini caduti in quella guerra.
Toccò agli Alpini partecipare agli scontri più duri: la battaglia dell’Ortigara (dal 10 al 29 giugno 1917),  la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917: quest’anno ricorrono i centenari di entrambe le battaglie), la resistenza sul monte Grappa e la controffensiva finale che portò alla vittoria. Dimostrarono  sempre grande valore e pagarono un tremendo tributo di sangue: secondo bilanci puramente indicativi, 35.000 morti e dispersi e 80.000 feriti.

Fondamentale fu l’impiego degli Alpini anche durante la Seconda Guerra Mondiale, soprattutto nella campagna di Grecia (che si rivelò un clamoroso fallimento, basti pensare che la Divisione Julia che constava di 9.000 uomini si ridusse a 800) e, più ancora, in quella di Russia: dei 200.000 uomini dell’ARMIR (ARMata Italiana in Russia), 57.000 erano Alpini (Divisioni Cuneense, Tridentina e Julia), schierati dal settembre 1942 alla difesa del Don.
Questa tremenda pagina della nostra storia, quest’immane quantità di vite umane assurdamente sacrificate dalla follia dei totalitarismi novecenteschi è ricordata in libri che dovrebbero continuare ad essere presenti nelle letture che la scuola propone ai suoi studenti – ma sarebbe interessante verificare quanti giovani di oggi ne hanno sentito parlare! –, come Centomila gavette di ghiaccio (1945-6, pubblicato nel 1963 e vincitore l’anno dopo del Premio Bancarella) di Giulio Bedeschi (1915-1990), e Il sergente nella neve (1953) di Mario Rigoni Stern (1921-2008).

Di almeno un fatto, tra i tanti atroci, è doveroso oggi fare memoria, a 74 anni di distanza: la battaglia di Nowo Postojalowka (20 gennaio 1943), più di trenta ore ininterrotte di conflitto, unica battaglia combattuta esclusivamente da forze italiane senza l’intervento di alleati. Vi morirono più di 12.000 Alpini, dei quali più di 5000 provenienti dalla Granda.
Oggi, in tempo di pace almeno qui da noi, gli Alpini partecipano a missioni internazionali umanitarie e sono stati impegnati in molte zone “calde” del pianeta (Libano, Kosovo, Afghanistan), dimostrando ovunque il loro valore e riscuotendo particolare apprezzamento.

Un gran bello spettacolo per celebrare gli alpini

SECONDA FOTO ALPINI BARETTI 14.01.17

Tra tutte le iniziative organizzate in loro onore a Mondovì quest’anno, va messo in particolare risalto il ricco e riuscitissimo spettacolo proposto da “canzonEteatro” sabato 14 gennaio al Teatro Baretti: “Bello far l’Alpino, ma scomodo…”, titolo che fa già intuire il tono, leggero ma non frivolo, divertente ma non privo di momenti toccanti, al quale l’ormai consolidato gruppo di amici musici si è attenuto.
Ed anche titolo che rivela la costruzione seria ed intellettualmente accorta della struttura dello spettacolo, in quanto riecheggia “La guerra è bella ma è scomoda”, libro di Paolo Monelli, al quale gli autori dello spettacolo si sono ripetutamente ispirati, come correttamente indicato dal sottotitolo “Appunti di Paolo Monelli su guerra, amorose e cantine”.
Paolo Monelli (1891-1984), convinto interventista, fu volontario nella Prima Guerra Mondiale col grado di sottotenente degli Alpini, compì imprese eroiche che gli valsero medaglie e promozioni, partecipò alle battaglie più importanti e fu fatto prigioniero. Ripensando alle sue esperienze di guerra, giunse a commentarle in tale modo: « È mia ricchezza segreta e indistruttibile questa esperienza che non vorrei non avere avuto».
Ma torniamo allo spettacolo andato in scena al Baretti.
Brani in prosa e canzoni si sono susseguiti armonicamente, in una gradevole varietà di registri linguistici (tanti dialetti: triestino, veneto, lombardo, ecc..)  ed espressivi (comico, burlesco, serio, drammatico),  e di ritmi musicali, spaziando da Nanni Svampa a Lelio Luttazzi a Paolo Conte e contemplando evergreen quali Signorinella pallida e Non dimenticar.
La triade “guerra, amorose e cantine” ha avuto come baricentro il fiasco di vino  – al centro della scena due sodali di bevute seduti ad un tavolino con sopra l’immancabile cappello con la penna da alpino e, appunto, il fiasco e i gotti – ed ha costituito il leit-motiv della serata: la guerra, sempre presente, col suo carico di angoscia; la donna innamorata, che giura fedeltà ma magari non ad un solo  spasimante; la cantina, allegramente saccheggiata come bottino di guerra: il vino, insomma, antidoto ai mali della trincea e della battaglia, dispensatore di quel po’ di gioia e di incoscienza necessarie per tirare avanti, per resistere al freddo e alla fame.
Materiale vario e di per sé difficile da “maneggiare”: ma le idee che hanno sorretto lo spettacolo, scaturite dalle menti di Gian Carlo Bovetti e Mario Manfredi, hanno reso tutto molto intrigante e gradevole per il foltissimo pubblico che riempiva la sala.
Mattatore della serata, Gian Carlo Bovetti ha dato il la con una spassosa paretimologia del termine “alpino”: macché derivazione dalle Alpi, dal greco antico piuttosto, inventandosi – sulla scorta di Monelli – un’improbabilissima derivazione da “allon pino”, cioè “bevo un altro”, ovviamente “goccetto”.
Poi è stata una frizzante alternanza di voci narranti e recitanti: Bovetti seduto al tavolino con l’istrionico Luciano Turco, ottimo attore sia in italiano che in piemontese; gli interventi, sia recitati che cantati, della straordinaria Ada Prucca, sempre più brava ad ogni sua nuova esibizione e da qualche tempo in qua anche un po’ trasformista alla Brachetti. Da rimarcare soprattutto la magnifica interpretazione del monologo della madre che non ha fatto in tempo ad arrivare a consegnare l’esonero a suo figlio René, soldato partito per il fronte russo: splendido brano tratto dal libro “La tradotta” di Romano Nicolino.
Ovviamente, il successo della serata è stato reso possibile grazie anche a tutti gli altri valenti artisti: con la sua voce calda e ricca di sfumature Attilio Ferrua dà il suo eccellente contributo, suonando pure la chitarra. E veniamo ai musicisti, tutti bravissimi: il pianista Alberto Bovetti; il basso Gianni Cellario, i chitarristi Mario Manfredi e il già ricordato Attilio Ferrua, il batterista Gianfranco Re e, last but not least, il polistrumentista Corrado Leone, che colpisce per la disinvoltura con la quale passa dalla tromba alla fisarmonica ad ogni altro strumento, suonando sempre benissimo.
Continui applausi hanno costellato i singoli momenti: pubblico divertito e commosso, serata memorabile, alla conclusione della quale tutti in piedi a cantare il nostro inno nazionale.

Con gli Alpini e per gli Alpini abbiamo riscoperto e fatto vibrare per un momento un po’ del nostro orgoglio nazionale: e mi fa piacere, infine, ricordare che il ricavato della serata è destinato alle popolazioni recentemente colpite dal sisma.
Come ha opportunamente e sinteticamente osservato nel suo intervento finale il Presidente Nazionale dell’ANA (Associazione Nazionale Alpini), Sebastiano Favero, gli Alpini hanno sempre incarnato i valori dell’amicizia e della solidarietà: valori che non vanno semplicemente professati a voce, ma concretizzati nella realtà di tutti i giorni.

 

(foto Manassero – Mondovì)