LORENZO BARBERIS
Il rapporto di Umberto Eco (Alessandria, 1932) e la musica è da sempre fondamentale, e forse meno sottolineato di quanto si dovrebbe.
Il rapporto con la musica inizia a 12-13 anni, quando Eco suona la tromba nella banda parrocchiale del paese (1944-45), ricordo d’infanzia che come vedremo avrà grande importanza anche nei suoi romanzi, diventandone una possibile, ironica, chiave.
La pratica della musica comunque rimane nel tempo: “Quando avevo dodici o tredici anni – dichiarò in una intervista a Paris Review – ero un buon suonatore. Ora non lo sono più. Comunque, provo a suonare quasi ogni giorno”.
L’esordio accademico e culturale di Eco, nell’immediato dopoguerra, avviene nel segno della musica. Subito dopo la laurea in filosofia sull’estetica di San Tommaso (1954) entra infatti in RAI tra i “corsari” che devono innovare la struttura ereditata dall’EIAR. È l’anno in cui nasce la televisione italiana, che fa di Eco uno dei padri della moderna centralità della RAI-TV nel sistema culturale italiano; ma ciò significa anche che il suo lavoro si concentra anche e soprattutto, agli inizi, sul preponderante apparato radiofonico. E radio vuol dire, anche e soprattutto, musica (ad esempio egli assieme ad altri vi porta il Jazz americano, di cui era appassionato cultore, prima proibito dal fascismo).
Eco diviene soprattutto, in questa fase, l’animatore culturale del gruppo legato all’estetica della Neue Musik del laboratorio di fonologia della RAI di Milano. Egli non è compositore, ma i suoi studi di linguistica e di fonetica (preliminari al suo avvicinamento alla semiotica, di cui sarà uno dei massimi sistematori) lo rendono prezioso in quel laboratorio che esplora i limiti del dire musicale, cui appartengono i maggiori esponenti dell’epoca.
Ne facevano infatti parte anche Luciano Berio, Bruno Maderna, Pierre Boulez, Henri Pousseur e Karlheinz Stockhausen. Soprattutto dalla collaborazione con Berio, nel 1958-1959, nasce “Thema”, un omaggio a Joyce, dove l’Ulysses viene messo in musica elettroacustica utilizzando il testo originario inglese (che Eco stava studiando in quel periodo), in particolare il capitolo 11, “un’orgia di onomatopee e allitterazioni” per Eco.
Joyce aveva definito quel capitolo “A fuga per canonem”, e Berio-Eco decisero di prendere sul serio la metafora. Le sequenze che lo componevano venivano sovrapposte. Eco parla di un “Fra Martino Campanaro rabelaisiano”, e nei due riferimenti resta la cultura ludica che è propria di Eco, e che egli applica anche alla sperimentazione musicale: estrema ma non seriosa.
Come rievoca in “Opera aperta” (1962), il primo passo verso quella Semiotica cui è legato sotto il profilo critico e filosofico, quella sperimentazione con Berio lo portò a riflettere come la combinatoria, nelle sue varie declinazioni, si stava affermando anche nelle altre arti, oltre la musica; sentendo così la necessità di trovare una nuova “teoria del tutto” in grado di studiare questi comuni fenomeni. La semiotica, come ribadito più volte da Eco anche in seguito, nasce quindi musicale.
Una prima nota per il Congresso Internazionale di Filosofia di Filadelfia è proprio del 1958, “Il problema dell’Opera Aperta”, assieme ad alcuni saggi usciti in proposito su Incontri Musicali (1959-1960) cui collaborava anche Berio.
L’Opera Aperta si apre, se ci si consente il gioco di parole, proprio dal problema musicale, per poi estenderlo. Il capitolo “La poetica dell’opera aperta” parte da “recenti produzioni di musica strumentale” unificate dalla “particolare autonomia concessa all’interprete”.
Eco fa tre esempi: Stockhausen “propone una serie di gruppi tra i quali l’esecutore scegliere quello da saldare al gruppo precedente” (combinatoria); Luciano Berio lascia scegliere la durata (mentre successione e intensità dei suoni sono date), Henri Pousseau offre con “Scambi” una “partitura a bivi”, ramificata a scambi di due, appunto (la tipologia narrativa preconizzata nei ’40 da Borges, che sta alle spalle del videogame: testo come labirinto da esplorare).
L’opera aperta musicale è quindi aperta all’”interprete” nel senso dell’esecutore; ma essa è modello dell’Opera Aperta in generale, che è disponibile all’interpretazione del lettore/fruitore (in questo senso, aveva fatto esperimenti di tal tipo Stockhausen, con un’opera musicale in cui, spostandosi nell’”ambiente sonoro”, l’ascoltatore sceglieva la fruizione).
Ogni opera, in questo senso, è “aperta”; ma vi sono opere che incoraggiano questo gioco del lettore col testo, mentre ci sono “opere chiuse” che sono costruite per scoraggiare questa autonomia interpretativa (Eco parla di opera e non di autore, la cui intenzione, conclusa l’opera, è irrilevante se non presente in essa).
In musica, l’Opera Classica è più Chiusa, l’Opera Moderna è più Aperta, nel senso di richiedere un “atto di libertà cosciente” a interprete e/o fruitore.
L’interpretazione diviene così una nuova esecuzione anche in letteratura, soprattutto giocando sul “materiale fonico e ritmico” (p.90), che è fondamentale nella suggestione del lettore.
Qui un esempio di opera estremamente “chiusa” (ma altissima, non è un giudizio di valore-disvalore) è quello del Dante più dottrinale del Paradiso: l’autore vuole (e riesce) a dare un senso univoco al proprio contenuto (strutturato certo sui quattro livelli, altro concetto su cui Eco lavorerà: ma livelli dati, stabiliti dall’autore).
Opera simbolo di massima apertura è invece il “Chaosmos” (Chaos-Cosmos, “ordine disordinato”) di Finnegans’ Wake di Joyce. Ogni parola può rimandare a molteplici significati, in una rete libera in cui ogni senso non è già dato.
Naturalmente Eco previene che la “rottura probabilistica del linguaggio” non è in sé, di nuovo, garanzia d’arte (non a caso parla di Chaosmos, chaos e cosmos), altrimenti l’Automatic Writing surrealista non rielaborato sarebbe la somma espressione artistica.
È più il concetto che “le regole sono fatte per essere violate” e una applicazione totalmente piana produce (di nuovo il ritorno al discorso musicale) un testo artistico totalmente piatto: l’esempio negativo è la canzonetta di Claudio Villa (non sono ancora arrivati gli Urlatori, che Eco invece valuterà in positivo: il testo-base, ricordiamo, è del 1958, l’anno di Volare). Villa – o meglio i suoi autori – creano un testo perfettamente piano rispetto alle regole di successo commerciale (più radicale nel grado-zero potrebbe esserci il jingle pubblicitario “anni ’50), con la massima aderenza alla “formularità del riff”.
L’anno seguente (1963) “Opera Aperta” diviene anche il fondamento teorico del Gruppo 63 (“che riconobbe in me molte delle sue posizioni teoriche”, dichiara Eco) e oggetto d’attacco da parte della critica tradizionale cattolica, crociana e marxista, che vedeva il postmoderno come il Male. È stata probabilmente proprio l’adozione di Opera Aperta quale “manifesto” a produrre lo scontro: Eco, nell’opera originaria, non è così apodittico.
La matrice musicale del Gruppo 63 è parimenti presente: è il grande compositore Luigi Nono a suggerire la forma e il nome del movimento letterario Gruppo63, nato a Palermo nel 1963.
Ma Eco si allontana presto dal Gruppo63, in una rivalutazione della cultura di massa che, negli stessi anni, si stava facendo più complessa (sono gli anni dei Beatles nella musica, per dare un riferimento ultra-sintetico).
Il passaggio avviene con “Apocalittici e integrati” (1964), di cui ha fornito sul suo sito un’analisi efficace il critico musicale Paolo Madeddu, che viene qui in parte ripresa.
Di nuovo, il problema della musica è centrale in Apocalittici e Integrati, perché il “nuovo pop” (che è anche quello fumettistico, cinematografico, dei videogame che nascono in questo periodo, etc.) è subito, evidentemente, vistosamente musicale negli anni che preparano e che seguono il 1968. Elvis Preasley era cultura pop “non-problematica”, sotto questo profilo; i Beatles richiedono una nuova lettura.
Ci sono tre questioni, corrispondenti a tre saggi interni alla sezione musicale dell’opera, in cui Eco affronta tre problemi principali (fra loro connessi) del nuovo pop. Il primo è il problematicizzarsi del conflitto tra musica colta e incolta; il nuovo pop non è più così vistosamente, compiaciutamente “low brow”. Il secondo è il nuovo divismo, anch’esso meno conformista e quindi più problematico (di nuovo, Lennon VS Elvis, diciamo). Il terzo è il rapporto con le tecnologie, prima appannaggio delle sperimentazioni colte (di cui Eco è autore, a pieno titolo, con Berio) e ora entra nella musica pop (le sperimentazioni dei Beatles, ma poi anche dei Pink Floyd, ad esempio).
Eco avverte di due rischi: l’Apocalittico, che resta fermo nella sua condanna del popolare (la Scuola di Francoforte, Adorno, l’idea del pop come “musica gastronomica” – e curioso che oggi anche la gastronomia è cultura potenzialmente alta) e l’acquiescenza non-consapevole dell’Integrato, che esalta acriticamente il neo-pop come aumento di consapevolezza.
“La canzone di consumo” è il saggio che si occupa del primo tema.
Eco qui contesta i musicologi autori del libro “Le canzoni della cattiva coscienza” (1964) Giorgio De Maria, Emilio Jona, Sergio Liberovici, Michele Straniero, promotori del movimento Cantacronache cui egli stesso aveva collaborato: ma ora prendeva le distanze dal loro attacco alla musica “commerciale”, sostenendo che “la canzone di consumo può attirarmi grazie a una imperiosa agogica del ritmo, che interviene a dosare e a dirigere i miei riflessi. Può costituire un valore indispensabile, che tutte le società sane hanno perseguito e che costituisce il normale canale di sfogo per una serie di tensioni”. Si può quindi “individuare nei meccanismi della cultura di massa dei valori di tipo immediato e vitale da ripensare come positivi in un diverso contesto culturale”.
Inutile colpevolizzare l’ascoltatore: “Nella società in cui vivono, questi adolescenti non trovano alcuna altra fonte di modelli. O almeno, nessuna altra fonte di modelli altrettanto energica o imperativa”.
Il semplice J’accuse è inutile, come pure la pura acquiescenza, che è pure colpevole. “Accusate la cultura di massa e vi sarete salvata l’anima, forse, ma non avrete sostituito alcun obiettivo reale agli obiettivi mitici che volete negare ai vostri contemporanei. Lodate la funzione di Ersatz (surrogato) che la cultura di massa riveste, e vi sarete fatti complici della sua continua mistificazione”. Apocalittici e integrati, appunto.
Il fatto che la transizione in atto nella musica sia più vistosa che in altre arti si associa alla centralità assoluta del tema del divismo.
“L’elite senza potere” esamina quindi più nel dettaglio la questione del divismo musicale, criticando l’apparente “essere fuori degli schemi” del divo (che è invece funzionale al suo ruolo nel sistema) con riferimento a Mina.
“Un divo evidentemente ha successo perché incarna un modello che riassume in sé desideri più o meno diffusi presso il proprio pubblico. Il gesto di Mina diventa esemplare perché di fatto, nella società in cui Mina “ragazza-madre” diventa “modello”, sono già sotto processo, nella coscienza popolare, alcune istituzioni. Ma in definitiva il divo incarna alcune tendenze piuttosto che altre, e scegliendone alcune le porta alla luce della legalità. Il divo da un lato indovina certe esigenze non chiarite dall’alto, e impersonandole le amplifica, le promuove”.
Nel capitolo “Un mito generazionale” Eco affronta un altro aspetto del “nuovo divismo” dei cantanti-teenager, analizzando Rita Pavone. “Il personaggio Rita Pavone costituisce un nodo in cui si fa chiara l’ambiguità connessa a tutti i fenomeni che ci interessano.” “Alle sue prime apparizioni la Rita Pavone reale poteva avere anche 18 anni, come si è poi appurato, ma il suo personaggio oscillava tra i 13 e i 15. L’interesse suscitato ha avuto subito del morboso”.
La Pavone diviene il simbolo della diva adolescente, teenager: “Cosa significasse l’urlo di Mina, era chiaro. Mina era donna fatta, l’eccitazione musicale che provocava non poteva andare disgiunta da un successo erotico. Il desiderio sessuale in sé è un fatto normale. Con Rita Pavone si realizzava invece una sorta di richiamo ben più sfumato e impreciso. La Pavone appariva come la prima diva della canzone che non fosse donna; ma non era neppure bambina. Il fascino della Pavone stava nel fatto che in lei quanto sino ad allora era stato argomento riservato per i manuali di pedagogia e gli studi sull’età evolutiva, diventava elemento di spettacolo. I problemi dell’età dello sviluppo, l’essere non più bambina e non ancora adulta, i turbamenti di una tempesta glandolare, diventavano in lei dichiarazione pubblica, gesto, teatro, e si facevano stato di grazia. Questa ragazza che camminava verso il pubblico con l’aria di domandare un gelato, e le uscivano di bocca parole di passione. In Rita Pavone per la prima volta, di fronte a un’intera comunità nazionale, la pubertà si faceva balletto e acquistava pieni diritti nell’enciclopedia dell’erotismo”.
Ma, come Mina, Pavone incarna i suoi fan per normalizzarli: “In quanto mito essa realmente incarna i problemi dei suoi fans; le ansie per l’amore non corrisposto, il dispetto per l’amore avversato, la scelta tra un ballo ginnastico, con funzioni di società, e il ballo del mattone, con funzioni erotiche – ma nello stesso tempo il rifiuto di un erotismo indifferenziato, l’opzione erotica riservata a uno solo, e quindi una inequivocabile dichiarazione di moralità. Il Mito Pavone fa un modo che i problemi dell’adolescenza si mantengano in una forma generica.
L’adolescenza, attraverso la mistificazione attuata dal mito, rimane una classificazione biologica, non confrontata alle condizioni storiche del mondo in cui vive. Il brano Datemi un martello è un pretesto per la danza, canzone che si pone come espressione di un baldanzoso anarchismo giovanile, dichiarazione programmata contro qualcosa, in cui ciò che conta non è il qualcosa, ma l’energia dispiegata nella protesta. L’autore dell’originale è Pete Seeger, il martello di cui parla è il martello del giudice, le sue canzoni gli hanno valso una condanna da parte della Commissione per le Attitivà Antiamericane. Rita Pavone invece chiede un martello per 1) darlo in testa a quella smorfiosa 2) picchiare quanti ballano stretti stretti a luci basse 3) rompere il telefono con cui la mamma la chiamerà per richiamarla a casa. Ecco come un messaggio viene assunto usandone la configurazione superficiale e caricandola di un messaggio appiattito, come per obbedire a un’inconscia esigenza di tranquillizzazione”.
“La musica e la macchina” analizza infine il punto centrale, il crescente peso della tecnologia (nel 1964: quarant’anni prima di MP3, Youtube e così via).
Una considerazione sociale è la pervasività della musica, che diviene un tappeto sonoro diffuso grazie alla facilità di riproduzione tecnica (pensiamo oggi ai “giga di MP3” sui nostri computer): “Nel campo della musica leggera, senza porsi il problema della validità estetica di questo genere di prodotto, il disco, la radio, la filodiffusione e il juke-box provvedono all’uomo di oggi una sorta di continuum musicale nel quale muoversi in ogni momento della giornata. La sveglia, i pasti, il lavoro, le compere ai grandi magazzini, il divertimento, il viaggio in macchina, l’amore, si svolgono in un acquario musicale in cui la musica non è più consumata come musica ma come rumore. Diventato talmente indispensabile all’uomo contemporaneo, che solo tra alcune generazioni sarà possibile rendersi conto dell’effetto di tale pratica sulla struttura nervosa dell’umanità”.
Questa banalizzazione del fatto musicale è conseguente al suo ruolo in un processo industriale: “Essendo sottoposta alle leggi economiche tipiche di un prodotto industriale (diversamente da quanto accadeva alla produzione tradizionale), la musica riprodotta dev’essere consumata rapidamente e invecchiare presto, in modo che si crei il bisogno di un nuovo prodotto. Di qui, come per l’automobile o le gonne femminili, la pressione esercitata dal mercato perché gli stili tramontino rapidamente e i dischi passino di moda. Oggi il twist è gi invecchiato rispetto al madison e questo rispetto al surf. Da un lato questo sottopone la sensibilità a una sorta di eccitazione nevrotica, dall’altro le impedisce di adagiarsi in formule fisse tipiche delle civiltà musicali popolari, che costituiva un fattore di conservatorismo. Peraltro i gruppi umani cessano di avere radici musicali e in futuro non potranno più riconoscersi nei propri repertori tradizionali, capaci di riassumere tutta una storia e un ethos”.
In connessione, nell’essere “rumore di fondo”, diviene significativa l’altezza del volume (e siamo prima della disco music, del 1975 circa): “Lo stile della musica di consumo è determinato dalle sue condizioni. La diffusione dei juke-boxes nei bar e altri luoghi in cui vengono usati ad alto volume, ha provocato il sorgere di una musica da eseguire ad alto volume: la canzone urlata non si è affermata con l’avvento del disco o della radio, ma nel circuito dei juke-boxes”.
Eco anticipa anche l’attuale new wave dell’elettronica e il suo farsi fenomeno di massa, in una prospettiva futura: “Nuovi tipi di musica per amatore sono suggeriti dal possesso di strumenti di registrazione. Il giorno che tali strumenti saranno messi a disposizione delle masse, come accade col disco, si potrebbero verificare fenomeni di dilettantismo dall’esito imprevedibile, e in due direzioni: da un lato l’esercizio sperimentale su nuove possibilità sonore, dall’altro il rivivere di repertori popolari riesumati grazie al registratore”.
“Apocalittici e integrati” è l’ultimo grande saggio pre-semiotico. Poi, Eco si dedica a sviluppare il suo Trattato di semiotica generale (1975) con cui diviene “uno dei teorici che più si sono interrogati sulla possibilità di una costruzione rigorosa della semiotica come scienza”. Ma in seguito, in Lector in fabula (1979) “ha mostrato l’insufficienza di una s. dei codici e la necessità della sua integrazione con una pragmatica.” (Treccani, voce “semiotica”).
Finita l’idea di una “semiotica senza pragmatica”, ma in continuità con la polemica col Gruppo63 e il suo rifiuto radicale del popolare, Eco prova a filtrare elementi della sua visione del postmoderno ne “Il nome della rosa” (1980), un testo che a un primo livello, superficiale, può sembrare semplicemente un ottimo romanzo di consumo, nel genere “giallo storico”, ma che in profondità diviene molto di più.
La sfida di Eco è chiara: se ha lasciato intendere che il pop può essere cultura alta contro gli Apocalittici (ma spesso non lo è, contestando gli Integrati), ecco che egli decide di scrivere il Romanzo Postmoderno che dimostra la possibilità di compresenza di livello alto e basso. E, ancora una volta, ricorre a una nuova metafora musicale.
“La scrittura del poliziesco…regala momenti di felicità jazz” dichiara infatti ironicamente Eco. La metafora del Jazz (al posto della musica d’avanguardia utilizzata prima nei paralleli con Joyce) è significativa: infatti, rispetto all’avanguardia, il Jazz (specie quello “caldo”, cui Eco è legato) ha una sua ascoltabilità di “primo livello”, implica una certa sperimentazione possibile rispetto al piattismo del pop più deteriore, ma all’interno di regole comunque prefissate: esattamente come il Giallo (che, non solo con Eco, è in Italia la “via al pop” della cultura italiana, da Gadda in poi).
La musica non è però solo un riferimento esterno nel Nome della Rosa, ma anche la sua struttura interna.
L’elemento musicale è usato infatti per dare struttura all’opera, come chiarito fin dalla falsa “nota iniziale”: la scansione temporale del “manoscritto di Adso” è data dalle ore liturgiche. Questo per una ragione di “sospensione dell’incredulità” (il monaco non può far riferimento a notazioni più precise, proprie di un uomo moderno – anche solo delle città trecentesche – che può riferirsi a un orologio) e anche per creare, probabilmente, un senso di indeterminatezza che contribuisce al mistero (come Eco indagherà, in termini più generali, nelle “Sei passeggiate”). L’unico riferimento divengono però così i momenti della liturgia, in cui i monaci si ritrovano per la rituale preghiera cantata.
L’elemento è piuttosto insistito la prima volta che la cerimonia viene presentata (p.109-111), anche perché lo spettacolo dei monaci che cantano all’unisono diviene un segno (illusorio) di unità e concordia agli occhi dell’ingenuo Adso. Col proseguire della vicenda questa unità si rivela sempre più illusoria e formale, si svuota dall’interno e non viene più evidenziata in modo così ampio, segno del disgregarsi della comunità (i momenti di preghiera cantata comune servono a evidenziare, man mano che si prosegue, i nuovi scranni vuoti per gli omicidi).
Ma anche l’irrompere della serie infernale di delitti che rompe l’armonia del monastero ha una valenza musicale, e ancor più marcata, specie se consideriamo come essa sarà poi in possibile connessione col romanzo successivo. Infatti l’assassino segue all’apparenza, nei suoi delitti, un preciso schema rituale: quello delle sette trombe dell’apocalisse. Ogni delitto infatti rappresenta simbolicamente, all’apparenza, quello che avviene dopo il suono di una delle sette trombe della Rivelazione di San Giovanni.
La tromba, qui, più che strumento musicale, si pone, è vero, come fanfara di guerra nel conflitto definitivo finale. E però, indubbiamente, si pone come elemento sonoro, che crea un contro-ritmo, diabolico (il diabolus in musica a fondamento del blues, il tritono?), a quello angelico che dovrebbe reggere l’abbazia.
L’elemento musicale, e in fattispecie la tromba, che come detto si rivela elemento di affezione importante per Eco; ed essendo il Nome della Rosa una “variazione jazz” sul giallo, nella boutade dello stesso autore, non si può non pensare al suo valore di archetipo jazzistico (Louis Armstrong, su tutti).
Significativamente, la tromba come elemento strutturale ritorna anche nel successivo “Il pendolo di Foucault” (1988) dove diviene il leit-motiv centrale di tutta la vicenda collocata nel passato del protagonista Jacopo Belbo, nato come Eco nel 1932 (bambino di scuola media che suona nella banda nel 1944). La tromba, desiderata ma non avuta da Belbo, diviene simbolo della sua Occasione Perduta (Eco ci mette qualcosa anche del Montale dei Limoni, “le trombe d’oro della solarità”).
Belbo cerca nuovamente la tromba apocalittica, ermetica, nella grande, cacofonica sinfonia esoterica che inizia a creare come un grande gioco letterario, per poi rivelare sul finale che quella tromba perduta e sognata l’aveva realmente suonata. L’occasione perduta è solo nella nostra mente, la viviamo e non ce ne accorgiamo persi nella nostra filosofia.
La ricerca della Tromba come occasione perduta è però possibile rimando non solo al primo romanzo di Eco stesso, ma al modello seminale assoluto del romanzo postmoderno, “L’incanto del lotto 49” (1965) di Thomas Pynchon, dove l’autore imbastisce una analoga ricerca di una setta diabolica che controlla la storia tramite le comunicazioni (prima la sola rete postale, poi ogni forma anche moderna). Il suo nome, Tristero, oltre a evocare un suono lugubre (“triste”) è composizione di Tris-Ter, ed è ovviamente un nuovo, introvabile Godot in chiave complottista. Eco nomina invece la sua setta introvabile, che muove segretamente il mondo, il Tres. Orbene, il simbolo del Tristero è appunto una tromba da postiglione con sordina: il significato è quello di silenziare le comunicazioni sgradite tramite il controllo di ogni mass media. In Pynchon quindi i due simboli, visivo e alfabetico, coincidono (la Tromba non-suonabile è il Tristero). In Eco resta il Tres come simbolo del potere esoterico irraggiungibile, ma la Tromba diviene invece simbolo positivo di una felicità individuale che possiamo raggiungere, se sfuggiamo alle ossessioni complottistiche (c’è molto anche del Candide di Voltaire nella conclusione, ancora più amara: Casaubon giunge a capire che dovrebbe coltivare il proprio giardino, “la collina è così bella”, ma ormai non può).
L’anno prima dell’uscita del Pendolo, tra l’altro, Eco aveva coronato i suoi studi semiotici-musicali con la prolusione (“Il codice del mondo”) svolta in apertura del XIV congresso della Società Internazionale di Musicologia , nel 1987 a Bologna. Eco ribadisce qui, e come abbiamo visto non solo per piaggeria d’occasione, la centralità della musica nel sistema semiotico. Ma, essendo un Eco che ormai va distaccandosi dalla “semiotica scienza esatta” degli anni ’70, dà questo riconoscimento in forma critica (verso la semiotica stessa).
“la musica è divenuta elemento d’imbarazzo per la semiotica. Essa non riesce a spiegarla perché in qualche modo tutte le sue spiegazioni sono debitrici del modello musicale: del modello strutturale dell’universo sonoro e del modello metodologico della musicologia classica (dico della musicologia come fuga verso l’astrazione totale, nel suo tentativo utopico di spiegare astrattamente la concreta struttura di ogni aspetto del macro e del microcosmo).”
Insomma, l’applicazione del modello musicologico della musica sperimentale alle altre arti non riesce a collimare perfettamente. Dal che la necessità di una pragmatica che usi le teorie semiotiche come spunto riflessivo di partenza, più che come applicazione di un teorema.
Per quanto continui la sua scrittura saggistica (ma sempre meno sistematica e appunto più pragmatica) accanto al giornalismo culturale della Bustina di Minerva dal 1985 in poi (due universi spesso intersecati da qui in poi), Eco sembra giunto a quanto ha teorizzato già nel Nome della Rosa: “di ciò di cui non si può parlare, si deve narrare”.
Pare quasi che Eco riscriva nelle opere successive il Pendolo, indagando un periodo diverso. Il Pendolo è trasversale a tutta la storia umana, ma la sua ambientazione centrale è il Novecento (il fascismo, la resistenza, il sessantotto, il riflusso…).
L’isola del giorno prima (1994) è l’opera del “complotto Barocco”, con le “follie di Spagna” con cui Eco vorrà chiudere il proprio funerale laico, che qui si incarnano nella ricerca di un introvabile Punto Fijo (simile a quello che è al centro del Pendolo di Foucault, il luogo dove porre la mappa). Qui non c’è molta musica intra-testuale; però la musicalità è quella delle parole, dello stile che Eco decide essere barocco, con estrema coerenza stilistica (e seguendo quanto già diceva in Opera Aperta, dove lo specifico della narrativa, simile a quello della musica, è la propria sonorità, nel suo caso solo fonologico-ritmica). Eco così perde, consapevolmente, (“odio il Nome della Rosa”, inizierà a provocare) i lettori attratti dal primo livello, il giallo di massa.
Tutto il romanzo sviluppa e amplifica, a Cannocchiale Aristotelico, un melodioso madrigale del Marino posto in esergo che, ovviamente, sviluppa il tema dell’Eco (il tema del suono, se non della musica, è autobiografico dell’autore fin dal nome), come sviluppato nell’analisi dell’opera condotta da Biagio d’Angelo.
“Stolto! A cui parlo? Misero! Che tento?//
Racconto il dolor mio//
a l’insensata riva//
a la mutola selce, al sordo vento…//
Ahi, ch’altro non risponde// che il mormorar de l’onde!”//
(Eco, La Lira, XIX).
Un gioco sul barocco che si fa riflessione, ovviamente, sul postmoderno come Neo-Barocco (Omar Calabrese), ancora una volta con una chiave musicale, quella della “musicalità del testo” alla ricerca di un piacere di sonorità barocche. Qui come altrove, e più di altrove, il tema è quello della “vertigine della lista” che diviene ritmo sincopato e alienante.
Eco in seguito indaga anche criticamente, negli anni 2000 (in connessione con il vertiginoso sviluppo della rete), la “vertigine della lista” (2009) nell’opera omonima, e nelle simmetriche storie della bellezza e della bruttezza, di poco precedenti, Eco dedica a tale tema il quinto romanzo: La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) è anche un viaggio negli anni della radio, ricco di riferimenti musicali (accanto a un centone di fumetti, romanzi, spettacoli, riviste e quant’altro).
Il titolo deriva da un fumetto, come si confà a un “romanzo illustrato” (sottotitolo); ma ognuna delle tre parti ha un riferimento musicale in un titolo di capitolo: “Solo me vo per la città” è quello della prima parte, dove si ha la ripresa della perdita di memoria. “Quando la radio” e “Ma Pippo non lo sa”, “Signorinella pallida” sono riferimenti musicali della seconda parte, dove l’eroe cerca di ricostruire il suo passato, e i due capitoli in questione sono dedicati all’Amarcord musicale. Nell’ultimo capitolo, in cui si chiude il dramma, “Fischia il vento” è il capitolo in cui c’è il disvelarsi della vicenda resistenziale che – in parte – è all’origine del trauma irrisolto dell’eroe (il “passato che non passa”, simmetricamente al Pendolo, è la chiave di tutto).
Le ultime due opere, “Il cimitero di Praga” (2010) e ancor più l’ultimissimo “Numero Zero” (2015) ritornano di nuovo sul tema del complotto: il primo indagandolo con riferimento all’Ottocento, il secondo ambientandolo in un losco giornale del 1992. Ma non vi è molto riferimento alla notazione musicale, che appare piuttosto nelle sue “Bustine di Minerva”.
Aggiungo in esergo due Bustine di Minerva dell’Eco più recente (2009 e 2011), sempre brillantissimo e interessante, ma che mostra anche come sostanzialmente egli continui ad applicare, pragmaticamente, le categorie che ha generato nelle prime opere pre-semiotiche (e meno la semiotica “matematica”) ai vari casi pragmatici di cui ha occasione. Nel primo osserva l’avvenuta diffusione e banalizzazione del fatto musicale, e conclude: “ormai ci si vive come in un bagno amniotico. Come ricuperare il dono della sordità?”. Il secondo è invece un (per Eco solito) peana alla convivenza equilibrata di alto e basso, declinato in ambito soprattutto musicale.
E, infine, ancora una volta musicale è l’ultima boutade di Eco “Le follie di Spagna”, capolavoro della musica barocca francese volute per il suo funerale. Marco del Corona, sul corriere, sottolinea “l’elogio della follia” che questa scelta implica: e aggiungerei che è una follia neobarocca, volta alla meraviglia marinista della “vertigine della lista” visiva e sonora. Una follia con cui Eco ci ammalia e ci mette in guardia al tempo stesso, indissolubile fino all’ultimo dalle sue – proficue – contraddizioni.