SERGIO GIULIANI.
Al centro di corso Tardy e Benech a Savona nacque, negli anni settanta, fra i soliti palazzi anonimi delle periferie (ma non solo), là dov’erano orti, la moderna chiesa di San Paolo. D’architettura insolita, tanto che pare una sala con le belle strutture di cemento a vista, eleganti e forti, che sostituiscono pareti e fanno entrare luce. Ha un andamento avvolgente, l’interno, come un abbraccio; il campanile non batte e non segna le ore: una scelta, e il tetto pare un’ondata del vicinissimo mare.
Vi ho accompagnato, per l’ultima funzione, tanti amici e colleghi; persino alunni. Persino il primo parroco, amico e collega. Ci passo spesso anche per questo, sul piccolo luminoso sagrato dove i piccoli ulivi d’allora sono ora alberi di forte chioma che rilasciano minute foglie e piccole olive nere fra i sassi.
Non ci sono, all’interno, opere d’arte. Ma….
Tornavo da scuola ed il ragazzo era lì, presso la fune del ponteggio, allora tutto in legno, anche i montanti. Gli altri saranno stati a mangiare qualcosa all’osteria. Lui no; lui li aspettava: avrà mangiato e bevuto qualcosa, all’impiedi.
Aveva le spalle anormalmente girate in avanti, tanto che muoveva il torso con difficoltà. Quando lo chiamavano dai piani alti, con voci forti e brusche, alzava molto a fatica la testa per giungere a guardarli ed obbedire ai loro urli e gesti. Ma credo gli volessero, a modo loro, un bene solidale e che lui li ricambiasse. Guardava i passanti con la testa abbassata e reclinata e gli occhi, che distoglieva subito, sembravano quelli di un pesce all’amo.
Per tutto il giorno erano richiami e il ragazzo issava secchi di cemento che aveva appena impastato con un sapiente va e vieni della pala su una lamiera, mattoni, tegole, legname, paioli facendo forza sulla fune che faceva cigolare la ruota da bicicletta nel cui incavo scorreva.
Forse aveva poco più della mia età. Qualcuno dei lavoranti si lasciava scappare un “terrone!” e lui non rispondeva. Probabilmente parlava davvero poco, se non rugumare con se stesso. Io studiavo.
I miei amici decisero di riattare la vecchia casa colonica dei nonni, arroccata su un pendio a fasce dove si produceva un ottimo, denso di sapori, vino bianco. Dovevano sgombrare la cantina scavata a nudo nello scisto e ne tiravano via delle bottiglie di anni ed anni, perfettamente sigillate alla rustica. Non so quanto attratto dall’amicizia o dal finale di pomeriggio o addirittura, da una cena che aveva al centro la liberazione di una o più di quelle bottiglie, mi ero offerto come aiutante che non sa fare nulla se non rimuovere ostacoli o portare sul luogo del lavoro ciò che serve.
Amici del muratore, loro bravi ad aiutare davvero.
Lo riconobbi subito, al portamento: da ragazzo a uomo fatto, grintoso e buono insieme. Adesso lavorava in proprio ed aveva un’ottima pratica. Con l’osservazione e l’obbedienza aveva appreso il mestiere non solo del muratore obbediente al progetto, ma anche del sicuro costruttore che spesso valutava ad occhio certe scelte.
Più sicuro, persino chiacchierone, accolto con affetto nella comunità di paese, pareva instancabile. Cantava di continuo, sul lavoro e spesso gli davo la baia. Gli avevo ricordato d’averlo visto lavorare al palazzo dove abito, ma era bastato un accenno: troppo occupato a chiedere di portargli le “cravatte” per armare la prossima soletta superiore o i ferri da sagomare precisi sul lungo bancone di legno con sopra le piastre per i pioli o, quando c’era la gettata, “volare” coi secchi tra l’impastatrice e le forme di legno connesse ingegnosamente insieme e che il giorno dopo si smontavano con un colpetto appena sui cunei.
Ad Angelo Di Paolo volevano tutti bene e lunga era la lista d’attesa per i lavori. Quando si dice: inserito appieno in una comunità che forse aveva incontrato per caso.
Carina e forte, la casa crebbe aggrappata sicura al colle. La guardo tutte le volte che passo sul viadotto dell’autostrada.
Per il pranzo di inaugurazione, la nonna lasciò che si sacrificasse il suo agnello e le residue bottiglie del nonno pagarono un forte dazio.
Si costruiva la nuova chiesa di San Paolo. Don Tomaso mi chiama fra i mucchi del cantiere, mi fa cenno di entrare nel vano-chiesa ancora tutto ingombro e indefinito. Mi vuole presentare Angelo, ma noi gli leviamo la scena e ci salutiamo, dopo anni, clamorosamente. C’è con lui Giampaolo Parini, il ceramista di Neive attratto da Savona, dove insegna al Liceo Artistico e di casa a Celle. Un grande tavolato piano, tutto ingombro di disegni, schizzi, misure e di ogni tipo di “tocchi” di legno e di chiodi.
Mi spiegano, per la soddisfazione di don Tomaso: in un grande tondo, a bassorilievo, si formerà l’immagine di Cristo crocefisso in una contemporanea maxi colata di cemento. Bisogna, quindi, costruire sul tavolato l’altorilievo coi “tocchi” di legno a misura e a precisione assoluta. E’ assolutamente necessario che tutta la colata sia omogenea per densità, che non si formino bolle e che, nel rimuovere il pesante tavolato, tutte le sue parti si stacchino assieme e senza aderenze di cemento.
Angelo è fiero: mi parla a lungo di questo lavoro-opera d’arte, a me, stupito dalla novità.
Tutto andrà bene. Perfetta l’opera, ed eterna. Il sole dalle vetrate ogni giorno la percorre come una passeggiata e crea ombre e le dimentica. Il grande Cristo, difeso, quasi indistinto nel grigio del cemento, sta, discreto e sicuro, nel cavo ad accogliere battesimi, matrimoni e funerali, le stazioni dell’esistenza. Ed è di Giampaolo, di Angelo e di don Tomaso, ormai passati al di là del curvo abside. Curvo come le spalle del lavoratore Angelo. Curvo come un abbraccio.
Angelo è amico di tutti, molto partecipe della vita di Vado Ligure, ora che ha preso ad abitarvi. Probabilmente gli duole la vicenda di una donna abbandonata dal marito. Probabilmente è per quella esuberante e piena voglia di amicizia che le fa visita; forse anche per aiutarla finanziariamente, per dare un senso alla sua generosità. O, forse, sta davvero provando la pace di un amore.
Esce in strada e l’altro ha un fucile in mano. Angelo capisce; lo scongiura; vuole spiegargli, parlargli; forse aiutarlo per una soluzione. Muore con quelle sue braccia in avanti, innaturalmente, ma non ora, come a parare la scarica.