GABRIELLA MONGARDI.
Bernardino Mongardi (Mondovì 1881-1964), “Barba Nadìn [1]”,tintore in Mondovì Borgato, appassionato di montagna e presidente del CAI Mondovì dal 1931 al 1934, per amore della montagna è stato anche un poeta, in italiano e in piemontese (sua madrelingua). Le sue poesie, conservate gelosamente in un cassetto, sono state pubblicate dai figli dopo la sua morte e costituiscono la sua più preziosa eredità. Dalla plaquette, comprendente tredici testi ordinati cronologicamente, dal 1939 al 1960, abbiamo scelto le quattro liriche più antiche, in forma di sonetto, dedicate ai quattro rifugi del CAI Mondovì di allora.
In queste liriche c’è sicuramente qualcosa di carducciano nel lessico aulico, nella sintassi classicheggiante per le frequenti inversioni, ma si avvertono addirittura echi stilnovistici e soprattutto danteschi, frutto di un’assidua lettura del ‘poema sacro’ che ha modellato, anche inconsciamente, la lingua del poeta monregalese: ne deriva un dettato spontaneamente alto, che non ha nulla di artificioso, ma nello stesso tempo rivela rispetto e devozione per la Poesia – il tintore smetteva i panni quotidiani dell’artigiano e, ‘rivestito condecentemente’, entrava nel regno dei Versi, delle Strofe, delle Rime, dove scriveva perfetti endecasillabi uniti in quartine e terzine, perlopiù a rime alternate. A volte nelle terzine mutava lo schema rimico (CDC, CDC anziché CDC, DCD in Alle rovine del Rifugio Mondovì e CDC, EDE in Al Rifugio Piero Garelli) e in un caso (A le rovine del Rifugio Mettolo) ha realizzato un sonetto caudato, aggiungendo all’ultima terzina un endecasillabo in rima alternata. Notevole anche la padronanza del rapporto tra metro e sintassi, con un uso audace degli enjambements a dilatare e variare il ritmo flessuoso dell’endecasillabo, la misura stessa delle strofe.
In Plenilunio al Rifugio Margherita sembra di essere nel Paradiso dantesco, come confermano le reminiscenze lessicali del v.8, sì che mirar beato mai si sazia (cfr. Pd IV, 124 e XXXIII, 99). Ma è una visione ben concreta e tutta terrena quella che viene tratteggiata nelle quartine, con i nomi dei monti familiari enumerati quasi ad accertarsi della loro presenza – e la paronomasia ansioso/ascosto a dire tutta la paura della scongiurata perdita… Tutta la lirica è giocata sul contrasto tra vedere e non vedere, tra la nube che copria, i residui di foschia e le cime belle, l’aer puro e fino, il cielo terso ritrovati; alle notazioni visive si aggiungono nelle terzine quelle uditive: il latrar di cane, il gracidar riempiono il fondovalle e la solitudine della scena – l’uomo non è solo di fronte alla Natura inanimata, altri animali come lui la “addomesticano”, rendono sostenibile lo spettacolo di tanta bellezza e l’enigmatico ammiccare della luna, nel verso finale.
In Alle rovine del Rifugio Mondovì – 1945 l’atmosfera è invece tra infernale e purgatoriale: predominano le tinte cupe, a “fotografare” la distruzione portata in Val Ellero dalla storia. Precisi ma sobri i riferimenti alla teutonica furia, alla ria notte in cui i nazisti bruciarono il rifugio, utilizzato dai partigiani come base: dice tutto il ritmo scandito dall’allitterazione della /t/ del v.8, chiuso tra due punti fermi. Nelle terzine si pensa già al dopo: la ruina, personificata, sembra implorare aiuto e ricostruzione, amore di montagna e amore della vita prevarranno sul male della storia.
La stessa vitale resilienza domina A le rovine del rifugio Mettolo, incorniciato tra due immagini in antitesi: il trionfo della morte iniziale, con le macerie sparse a cerchio a piè di un muro / mozzo e il trionfo della vita finale, con il volteggiar su l’agil lame degli sci. Questa lotta tra la morte e la vita culmina nella terzina, che icasticamente affianca la danza a tondo de la dea morte / su le rovine a dei’ sciator le brame – contrasto messo in risalto anche dalla rima infame/brame. Il poeta parla giustamente di risurrezione (v.6, v.13) dopo la catastrofe della guerra, e giustamente “allunga” la misura canonica del sonetto, perché la voglia di vita dello sciame/di giovani, audace bello e forte è incontenibile, debordante: ed è giusto che le montagne, fatte teatro della lotta di Liberazione, ritornino ad essere luogo di pace.
L’atrocità della dominazione nazi-fascista è presente, benché indirettamente, in modo più velato, anche nell’ultimo sonetto, Al rifugio Piero Garelli, perché il rifugio, costruito nel 1949, è dedicato alla memoria dell’avvocato monregalese antinazista Piero Garelli (1905-1945), presidente della sezione CAI di Mondovì dal 1938 al 1943, morto nel campo di concentramento di Mauthausen-Gusen. L’immagine del rifugio scintillante ai raggi bassi / che Ottobre serba al sole nella severa cornice del vallone di Sestrera (posto tra vette / in fiero sito) apre e chiude il sonetto, mentre il ricordo del giovane amico Piero campeggia nella parte centrale (vv.3-10), mettendone in risalto la capacità di sacrificio, di rinuncia alla vita bella in nome dell’ ideal – e nell’elencare gli elementi che rendono la vita “bella” (la casa, la famiglia e gioia e riso) il poeta dedica due versi interi alla passion dell’Alpe, ch’era il suo amore / da’ cari suoi avuta in donazione – parlando sicuramente anche di sé.
A conclusione della lettura, rimane in cuore un’impressione di reticenza, di riserbo, di ritrosia, quasi un alone di mistero: è nella natura stessa di questa poesia, che è una poesia “classica”, cioè rigorosamente formalizzata; è nella natura stessa della Poesia, che nasce da una passione ma solo coprendola la scopre; è nella natura stessa delle montagne qui cantate - sul cui inaccessibile segreto la luna della poesia splende, ammicca e tira via…
(pubblicato originariamente il 18 ottobre 2013)
[1] “Zio Bernardino”, in piemontese: “barba” è appellativo affettuoso rivolto ad una persona anziana per riconoscerne l’autorevolezza