GABRIELLA VERGARI.
A braccia aperte.
Così, fino al 28 luglio prossimo, ti accolgono O’ Tama Kiyohara e Vincenzo Ragusa, per raccontarti la loro vicenda, umana e artistica, al Palazzo Sant’Elia di Palermo.
O questo è almeno quello che immediatamente si sente, all’ingresso, di fronte allo splendido kimono rosso-arancio attraversato da cicogne bianche che si levano in volo, le ali spalancate, i colli ben tesi, i becchi volti all’unisono verso chissà quale insopprimibile istanza di cielo.
Forse la stessa che un giorno della seconda metà del diciannovesimo secolo aveva spinto lo scultore siciliano Vincenzo Ragusa a recarsi nella lontanissima Tokyo (1876), o, qualche tempo dopo (1882), la giapponesina O’Tama, nell’altrettanto per lei remota Palermo.
L’uno, era stato segnalato dall’Accademia di Brera per rispondere all’invito dell’imperatore Mutsuhito a fondare, con il pittore Antonio Fontanesi e l’architetto Giovanni Vincenzo Cappelletti, una scuola d’arte, la Kobu Bijutsu Gekko del Ministero dell’Industria e Tecnologia, così da provare a emancipare il Giappone, ancora chiuso su posizioni retrive e feudali, anche attraverso le sollecitazioni artistiche del mondo occidentale che allora era in pieno fermento sotto l’impulso dell’impressionismo e del cosiddetto vedutismo.
Un progetto forse ambizioso ma capace di dar pieno risalto alla lungimiranza di un Mikado convinto che l’evoluzione di un paese non fosse esclusivamente “cosa” economico-commerciale ma pure (soprattutto?) intreccio e scambio culturale, latamente intesi. Una lezione illuminante e preziosa – ahimè oggi rarissima – che molti dei politici, italiani o stranieri, dovrebbero prima di tutto apprendere e comprendere, per poi appropriarsene.
Lei, secondogenita del custode di un famoso tempio buddista, aveva invece seguito il cuore, ma anche il sogno di aprire, insieme alla sorella O’Chio, ricamatrice abilissima, e al cognato, Einosuke Kiyohara, Maestro della lacca, una Scuola Superiore d’Arte Applicata a Palermo, con annesso un Museo.
Non è perciò un caso se l’ evento, curato dalla studiosa M.A. Spadaro, sia stato opportunamente intitolato: O’Tama e Vincenzo Ragusa. Un ponte tra Tokyo e Palermo, sì da accentuare la percezione dello slancio al dialogo tra culture molto diverse tra loro eppure in qualche modo congiunte dalla stessa fede nelle insopprimibili ragioni dell’arte e dell’amore. Scorrendo infatti tra oli, acquerelli, pittura su seta, pastelli, ventagli, cornici sottilmente laccate, ricami su tulle, arredi, con l’aggiunta di alcuni oggetti tipici del ‘giapponismo’ siciliano, il visitatore coglie innanzitutto il non facile percorso di un animo femminile alle prese con le sollecitazioni del continuo crocevia della sua esistenza.
Promettente pittrice e prima modella giapponese di un artista europeo in patria (il Ragusa appunto), una volta giunta a Palermo, O’Tama fu inevitabilmente destinata a colloquiare con un’isola a quel tempo sì dinamica e aperta a fermenti e sollecitazioni di vario genere, ma pure molto distante per visione della vita e sostanzialmente scettica verso innovazioni e tecniche mai prima proposte. Qualcuno cominciò a temere i rischi della contaminazione artistica, e il governo nazionale si guardò bene dal sostenere il progetto di una scuola d’arte industriale che inevitabilmente naufragò negli anni, fino alla chiusura dell’officina delle lacche e al rimpatrio degli artigiani giapponesi.
“Si privò la Sicilia di una industria artistica privilegiata che non esisteva in nessun paese d’Europa per la grande difficoltà dell’impianto: nessun governo avendo avuto il coraggio e l’ardimento di un povero artista”, lamenta Ragusa, in Sul riordinamento della Scuola superiore d’arte applicata all’industria di Palermo, del 1904, con una constatazione che dà i brividi, se si pensa a quante altre occasioni siano state sprecate, oggi come ieri, per il rilancio della Trinacria.
Malgrado le disavventure artistiche ed economiche – il Ragusa fu a più riprese costretto a vendere i 4200 pezzi, pazientemente raccolti per il “suo” museo e attualmente conservati al Museo Luigi Pigorini di Roma -, O’Tama continuò ad esprimersi alacremente, passando, come si legge anche nel bel catalogo di questa sua prima antologica: “dal grafismo sintetico giapponese al naturalismo occidentale”. Oltre allo stesso Ragusa, sposato prima a Tokyo e poi civilmente a Palermo nel 1889, suoi mentori e maestri furono i pittori della grande tradizione occidentale, in una con i contemporanei Lojacono, Leto, Catti e Lentini, i quali accolsero l’artista straniera con interesse e tra le cui fila lei riuscì perfettamente a integrarsi.
La mostra è anzi un’occasione particolare per entrare anche all’interno di una rete di contatti tra le famiglie palermitane più rappresentative del tempo, dato che la coppia nippo-sicula fu bene accolta da la crème de la crème. La principessa Rosa Mastrogiovanni Tasca, moglie di Francesco Lanza, principe di Scalea, divenne ad esempio tanto intima della pittrice da essere addirittura sua madrina quando lei scelse di ricevere il battesimo per potersi sposare secondo i riti occidentali. E da quel momento si chiamò Eleonora, come pare una figlia defunta della principessa stessa, rinunciando per sempre al suo nome paterno.
Chissà se in quei frangenti avrà risentito le parole di questo bellissimo haiku del XVII sec.:
Separazione –
le spighe dell’orzo
tormentate tra le dita
Certo si è che, nel desiderio di agevolare, nel visitatore anche profano, il respiro del clima e degli ambienti di una stagione siciliana particolare, le emozioni suscitate da alcuni intensi haiku su cartelloni espositivi armoniosamente amplificano quelle delle 130 opere di O’ Tama, provenienti da circa 70 collezioni sia pubbliche che private, con una fatica che la curatrice definisce “incredibile”.
Comunque benemerita, visto il risultato complessivo di un universo delicato e variopinto, fatto di sensibilità poetica e passione per la natura, animali, fiori, paesaggi, perfino decorazioni d’interni e dedizione all’insegnamento, tanto che il disegno di un’ alunna, in mostra, reca ancora il 9½ assegnato da questa brava pittrice giapponese, presso cui fu ad un certo punto tanto in voga prendere lezioni.
Di grande impatto anche l’olio su tela dall’originalissimo taglio prospettico, noto come La Notte dell’Ascensione, o La Benedizione degli Agnelli, realizzato per l’Esposizione Nazionale di Palermo nel 1891.
Ma la morte di Ragusa, nel 1927, romperà in qualche modo l’incantesimo dell’integrazione, dimostrando come essa non fosse, per O’Tama, che il segno complementare dell’amore per l’uomo scelto a vent’anni. Il suo ritorno (1933) a Tokyo, dopo più di mezzo secolo trascorso in Sicilia, non sarà, a ben vedere, che l’ultimo e forse ineludibile capitolo di una storia dall’intrinseco profilo liminare e bicorde.
Non può perciò stupire che, a suggellarla, O’Tama abbia alla fine disposto che metà delle sue ceneri fossero sepolte in Giappone e metà accanto al marito, in un ultimo, estremo ponte d’amore.