LORENZO BARBERIS
“Carie Letterarie” è una delle più interessanti nuove riviste letterarie torinesi, che è possibile recuperare gratuitamente in PDF qui, al loro sito carrieletterarie.com. La rivista nasce in uno studio dentistico, come rivista ideale da sfogliare in attesa del dentista, mettendo insieme narratori e illustratori.
“La rivista letteraria che va alla polpa”, recita il claim della testata, vagamente inquietante come la pur elegantissima grafica interna, che fa subito venir voglia di lavarsi i denti e passare il filo interdentale. Più volte.
I racconti invece non sono malvagi: non dico “malvagi” come giudizio di qualità (che è invece alta), ma proprio nel senso che non seguono il perfido sadismo di mantenere anche i racconti a tema, e incentrarli sulle operazioni dentarie (magari inserite en passant in una storia realistica o financo fantastica).
In quel caso potrebbe acquistare la rivista solo il divino odontoiatra di Little Shop Of Horrors, che terrorizzava Rick Moranis nel musical tratto dal racconto di Stephen King. Un sadico ideale per un paziente afflitto da masochismo ideale, dove racconti orrorifici legati al tema dei denti avrebbero potuto accompagnare solo.
Digressione: appunti per una Storia Letteraria della Carie.
E dire che una Storia Letteraria della Carie potrebbe svelare prospettive inaspettate: l’origine è biblica, con morso della prima mela che causa ad Adamo ed Eva più di qualche mal di denti. Nel mito classico si potrebbe inserire Cadmo e i suoi denti di drago, ottenuti a suo modo con una operazione dentistica (non stando troppo a sottilizzare).
Se vogliamo trapanare a fondo il canone italiano, “carie” ricorre spesso (teste wikisource), ma in senso di generica forza erosiva. Possiamo darne una lettura ironica, e allora nascerebbe un controcanone divertente ma fallace:
Il sepolcro
(Giovanni Pascoli)
Lasciate il sepolcro alla carie
che roda anche il nome a chi giace;
velato da parïetarie
non resti che… PACE…
Se invece passiamo dal male alla cura, più che un “dentista” (o un dantista) ci serve un “cavadenti”, i ciarlataneschi antesignani dei moderni medici dell’odontoiatria.
La battutaccia su Dante la fa anche il critico Mario Rapisardi nel 1915, nei suoi Pensieri e Giudizi:
Ma predicare che per andare innanzi bisogna tornare all’antico, che per rigenerare l’Italia è necessario riaggrapparsi al lucco di Dante, e Dante invocare come protettore e salvatore di nostra gente e quasi creatore e ricreatore unico di nostra civiltà, è una di quelle croniche idolatrie, di quelle mulaggini accademiche, di quelle isteriche frenesie che rendono così vuota, così servile, così stomachevole, per quattro quinti almeno, la storia famosa della nostra vulgar poesia.
Lasciate, miei cari boemi, pazzeggiare e bamboleggiare in siffatti entusiasmi senili i dantisti o dentisti di professione, i grammatici sonnambuli che darebbero la vita di un popolo per un suffisso, i vecchi astiosi e barbogi che guardano con le natiche e pensano con le calcagna.
Ma a parte questo poco profetico parere su Dante di un secolo fa, in linea di massima con “dentista” emergono solo saggi specialistici di poco interesse.
Niente “cavadenti” in Boccaccio; ma Franco Sacchetti ne Il Trecentonovelle (1399) Novella CLXVI, parla di “Alessandro di ser Lamberto, con nuovo artificio fa cavare un dente a un suo amico dal Ciarpa, fabbro in Pian di Mugnone.”
Nel Rinascimento, da titolare del blog Barberist trovo bellissimo che Monsignor Della Casa accomuni Barbieri e Cavadenti (tutti e due variazioni del cerusico da strada), rifiutando con pochissimo galateo il suo banale nome Giovanni (1537)
I cappellani, i notai, i pedanti
(Vi so dir io, non ne va uno in fallo)
Gli hanno nome Giovanni tutti quanti.
Così qualche intelletto di cavallo,
Barbier o castraporci o cavadenti
Sempre han viso d’aver quel nome, ed hallo.
Nel Seicento troviamo i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, che usa i cavadenti per una metafora sul letterato cortigiano, che magari può fare al caso dei nostri, imperocché si usa la medesima Figura:
UNIVERSITA’ DE’ POLITICI
apre un Fondaco in Parnaso, nel quale si vendono
diverse Merci utili al virtuoso vivere
de’ Letterati.
Gran spaccio si fa anco in quel Fondaco di alcuni ferri, che molto somigliano quei, che spesso sono adoperati da i Chirurghi, e da i Cavadenti, e servono per slargar le fauci à quegl’infelici Cortigiani, che della necessità dovendo far vertù, spesse volte sono forzati inghiottir grosse cocozze, in vece di picciole pillole masticine.
Niente nel Settecento (ma a trivellare secondo me qualcosa da Goldoni salta fuori); nell’Ottocento Gioacchino Belli, invece, ci parla ovviamente in un sonetto romanesco del dentista del papa
Er dente der Papa
Er Papa aveva un dolore puttano
a un dente maggellanico o ccanino;
e ppe sservisse d’un dentista fino,
chiamò dda la Ritonna er Ciarlatano.
Subbito annò a Ppalazzo er Castellino
a vvede er dente guasto der zoprano;
e lo cacciò ccor un corpo de mano,
mejjo che ffussi stato un zuccherino.
Nostro Siggnore, o er Papa, ch’è ll’istesso,
perch’è er padrone de tutta la ggente,
nun vorze un cazzo fà gguardasse appresso:
e disse: «Bravo! nun ciai fatto ggnente:
ecchete scento ggnocchi; e ssin d’adesso
te dichiaramo Cavajjer der dente».
Ma ottima è ovviamente la citazione nel grande capolavoro dell’Ottocento, in una scena a suo modo importante dei Promessi Sposi di Manzoni.
“Mi promettete, mi giurate,” diss’egli, “di non parlarne con nessuno, di non dir mai…?”
“Le prometto che faccio uno sproposito, se ella non mi dice subito subito il nome di colui.”
A quel nuovo scongiuro don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, articolò: “don….”
“Don?” ripetè Renzo, come per aiutare il paziente a proferire il resto; e stava curvo con l’orecchio chino su la bocca di lui, con le braccia tese e i pugni stretti indietro.
“Don Rodrigo!” proferì in fretta il forzato, affoltando quelle poche sillabe, e radendo le consonanti, parte pel turbamento, parte perchè, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparire la parola, nel punto stesso ch’era costretto a metterla fuori.
Credo che da qui derivi, tra l’altro, la scipita battuta da vecchio professore (ah, vil razza d’annata) all’interrogato esitante: “ti devo tirar fuori le cose di bocca con le pinze!”
In Ernesto Regazzoni i cavadenti appaiono a latere di un discorso tra gli uomini del mondo (siano cavadenti o Grand’Orienti, ovvero massoni d’altissimo grado) e il poeta e la sua crepuscolare follia.
Se ne vedono pel mondo
che son osti… cavadenti
boja, eccetera… (o, secondo
le fortune, grand’Orienti).
5C’è chi taglia e cuce brache,
chi leoni addestra in gabbia,
chi va in cerca di lumache…
………………..
Io… fo buchi nella sabbia.
Il Libro Proibito (1878) di Antonio Ghislanzoni ci offre uno spaccato sempre poco encomiastico dei cavadenti, scomodando addirittura il Foscolo:
Narran le antiche cronache
Che un pazzo imperatore
Al suo cavallo il titolo
Donò di senatore.
Qual meraviglia? Ai facili
Tempi che venner poi,
Forse più eccelsi titoli
Non ebber ciuchi e buoi?
Nota
Questo epigramma somiglia nel concetto ad un altro famoso, che viene attribuito ad Ugo Foscolo. I tempi non sono cambiati. Anche oggi in Italia
Suonatori di corni e di tromboni,
Comici, cavadenti, parrucchieri,
Birri, gendarmi, sindaci, lenoni,
Si chiamano per burla cavalieri.
Ma i cavadenti piacciono molto agli Scapigliati, e il Tarchetti riprende l’ossessione cavadentaria dalla Berenice di Poe aggiustandola alla maniera scapigliata, più rustica e ironica nei suoi Racconti Umoristici (“Re per ventiquattrore”):
Ma in quel momento si spalancò l’uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare. Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l’avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sè, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d’impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d’un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco [p. 146 modifica]si spiccò allora dal limitare dell’uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e… oh mio Dio!… ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto.
E qualcosa di scapigliato ha – forse lui non lo vorrebbe – il Marinetti di Re Baldoria (1920), che con un bel po’ di ipecinetismo in più descrive una battaglia dove una dentiera svolge un ruolo comico e inquietante (Freud docet) al tempo stesso:
Famone: - Restituiscimi la mia dentiera (a Re Baldoria) Maledetto cavadenti!
Dentisti appaiono anche negli aforismi di Nietzche, nell’anonima traduzione del 1924:
Quanto doveva rimordere la coscienza una volta! che buoni denti aveva! — E ora? cos’è che le manca?» — Questione da dentista.
Conclusioni
Qui sopra abbiamo visto il percorso delle “carie letterarie” nel percorso storico della letteratura italiana. Ma in fondo è solo un gioco, perché la rivista Carie non rimanda al tema dentario che abbiamo qui evocato, ma è un modo per trivellare a fondo, “succhiando tutto il midollo della vita” nel racconto, come vorrebbe il buon vecchio professor Keating.
Insomma, non ci resta che presentare la rivista Carie nel modo più incisivo, è un bel mal di denti, ma via il dente via il dolore, togliamoci questo dente e – anche se abbiamo il dente avvelenato – veniamo tutti al Bar Regis il 22 luglio sera, per un aperitivo zuccherosissimo.
(Immagini tratte da Carie Letterarie).