GABRIELE GALLO – GABRIELLA MONGARDI.
Una cicatrice antropica provocata chissà come, chissà da chi, tra le braccia rugose delle Alpi Cozie. Arrivare a Narbona non è facile neppure oggi, figurarsi un secolo fa. Nessuna strada carrozzabile, nessuna striscia di asfalto, nessuna forzatura dell’uomo all’ambiente montano. Solo un pugno di case ferite e addossate le une alle altre, quasi ad infondersi reciproco coraggio.
L’ultimo abitante ha lasciato Narbona nel 1960. Da allora solo silenzio, interrotto qua e là da lacrime di pietre, calcinacci e ricordi che poco alla volta hanno offuscato decenni di storie, vicende ed emozioni. La rovina della piccola borgata (capace di ospitare ai primi del Novecento ben ventisei famiglie per un totale centoventi persone) ha però accresciuto la sua fama, proiettandola di fatto ad effige massima della passata civiltà alpina.
Passeggiando tra gli scheletri delle case, si intuiscono ancora la saggia operosità di un tempo nei terrazzamenti oggi coperti da terra e vegetazione e i modesti ma dignitosi angoli di quotidianità, negli anfratti delle camere o delle cucine, agonizzanti di fronte all’abbandono. La piccola chiesetta persiste invece ad infondere un’aurea spirituale grazie alle tonalità bluastre della sua volta.
Narbona custodisce le nostre radici e la nostra storia. Un pezzo di noi che oggi rivive parzialmente nel progetto “Una casa per Narbona”, con la riproposizione di un’abitazione tipica nel centro di Campomolino. La vera Narbona, intanto, si è ormai lasciata andare al sonno del tempo. Un ultimo rapido sguardo per capire chi eravamo e per progettare, se possibile, dove andremo.
Passi perduti
L’erba secca dell’autunno si china
su passi perduti,
su sentieri
che non si sono percorsi.
Tra case mai abitate l’olina
è una carezza silenziosa
di mani che non si sono incontrate,
di vite che troppo tardi
si sono incrociate.
Bandiere di preghiera
lasciate da esuli
i fili d’erba prostrati.