GABRIELLA VERGARI.
Non ci è dato purtroppo sapere perché mai, in un lontano giorno di circa 50.000 o forse 60.000 anni fa, quell’uomo di Neanderthal prese a distanziare con arte dei fori su un femore d’orso.
Allora non poteva certo prevedere di aver realizzato il cosiddetto flauto di Divje Babe, e che questo suo straordinario, benché rudimentale, manufatto sarebbe stato oggi custodito al Museo Nazionale di Lubiana, in Slovenia, venendo ritenuto non solo lo strumento più antico del mondo, ma anche la riprova di come l’invenzione della musica vada di molto anticipata rispetto all’arrivo di Homo Sapiens in Europa.
Possiamo però agevolmente immaginare la sua sorpresa di fronte ai suoni che si scoprì in grado di emettere, così simili a quelli naturali eppure tanto diversi. Che fossero opera di magia, come di un dolce incantamento?
E davvero, da quel fatidico momento in poi, le melodie, in particolare se tratte dal flauto, dal piffero o dagli altri strumenti a fiato, hanno condiviso, anche in epoche più moderne, il loro campo d’azione tra il puro godimento estetico e la fascinazione, constatazione che perfino gli incantatori di serpenti continuano a confermarci.
Non si può infatti negare che la musica sia stata il primo strumento ad avere permesso all’uomo di entrare in connessione con la Natura ma soprattutto con il mondo spirituale, consentendo l’allontanamento dal sé ordinario. Lo attestano, tra l’altro, lo sciamanesimo, e i dati che l’Etnomusicologia ha ormai messo ampiamente in evidenza, sottolineando non solo il potere magico da sempre attribuito alla musica, ma pure quello creativo.
Ecco così che da qui al mito greco, il passo non può certo essere molto lungo. Dove, più intensamente che nell’Ellade antica, si è più infatti riflettuto sulla musica quale elemento fondante di bellezza e verità, da vagliare tuttavia, di volta in volta, con estrema sapienza e cautela, per il pericolo sempre insito che si potesse trasformare in ingannevole insidia, o veicolo di perniciosa falsità? Lo si può con chiarezza desumere fin dai celebri versi (vv. 26-28) del Proemio della Teogonia, lì dove le Muse incoronano, sull’Elicona, il giovane Esiodo con questa premessa: O Pastori, mala genia, solo ventre, noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche , quando vogliamo, il vero cantare.
La loro “bella voce” non è dunque soltanto lo strumento di comunicazione più naturale in una cultura prevalentemente orale, o al massimo aurale, ma è soprattutto la veste seducente, eppur sempre potenzialmente cangiante e mendace, di ciò che è stato, è e sarà, col rischio, mai pienamente eluso, che la verità venga ad essere sostituita, o celata, da ciò che vero non è.
Ḕ del resto lo stesso etimo a rivelare, già da solo, quanto i Greci ritenessero la musica un’espressione dalla natura complessa, emanazione diretta delle Muse, le nove splendide figlie di Mnemosyne, dea della Memoria, e di Apollo.
Alla sua radice – nata come forma aggettivale di téchne – era infatti contemplato sia tutto l’insieme delle arti e delle tecniche consentite all’uomo per contrastare il perenne incombere della dimenticanza e dell’oblio, sia la connotazione della luminosità apollinea, oggi si direbbe nietzschianamente riequilibratrice del dionisiaco.
Afferma W. Otto, Gli dei della Grecia: La natura dionisiaca vuole l’ebbrezza, quindi la vicinanza; l’apollinea vuole invece chiarezza e forma, ossia distanza. […] Apollo è non a caso il dio dell’arco e della lira. […] Forse apprenderemo in futuro che l’arco e gli strumenti a corda ebbero effettivamente le stesse origini.[…] Sappiamo del resto che anche l’arco venne usato per produrre suoni musicali. […] Ḕ noto come sia familiare ai Greci l’immagine del buon tiro d’arco per rappresentare la conoscenza del giusto.[…] Il canto del più vigile tra gli dei non sale dunque da un’anima intorpidita dal sogno, ma vola precisamente verso il segno. […] Nella musica di Apollo risuona una conoscenza divina. Essa intuisce e cogli la forma in tutto. Il caotico deve formarsi, il turbolento trapassare nella simmetria del ritmo, il discorde conciliarsi nell’armonia, facendosi così questa musica grande educatrice, origine e simbolo d’ogni ordine del mondo e nella vita degli uomini. L’Apollo musico è identico col fondatore delle norme, il conoscitore del giusto, del necessario e del futuro.
Ed è a tal proposito estremamente interessante mettere in rilievo che per pascolo, uso, regola, legge e modo o unità musicale gli antichi si avvalevano dello stesso termine, nomos.
Ma Apollo, sempre bene ricordarlo, è anche il Loxias, l’Obliquo, il dio dalla potenza terribile e dai responsi ambigui, nonché il giustiziere che, sin dall’ apertura de L’Iliade, scendendo dalle cime dell’ Olimpo simile a fosca notte (Il., I, vv. 44 ss.), dissemina peste e distruzione nel campo degli Achei. Addurre la morte è pertanto anche una delle sue molteplici prerogative, così come accade, a ben vedere, pure per Achille, l’Eroe degli Eroi che, spietato in combattimento, è comunque l’unico, tra tutti i guerrieri omerici, ad essere rappresentato nell’atto di suonare la cetra, Il., IX, vv.
Dalle origini della cultura greca, e almeno fino al v sec. a. C., la connessione tra musica e parola, precipuamente se poetica, viene dunque a porsi come un nesso indissolubile, che però non può prescindere dalla sottolineatura e dalla riflessione sul rapporto di musica ed ethos, anche in ragione della nitida percezione che musica, canto e parola non vadano distinti tra loro, ma rappresentino il triplice aspetto di un tutt’uno sostanzialmente unitario.
Cos’altro è infatti la parola se non un’emissione di fiato che rompe il silenzio traducendosi in phonè, ovvero in suono e dunque lato sensu in musica? Essa è inoltre il primo strumento ad aver consentito all’uomo di riprodurre e imitare quella che M. Bettini, nel suo saggio “Voci”, chiama la ‘fonosfera’, ovvero il ‘fondale’ acustico di ogni habitat umano, e che per gli Antichi consisteva soprattutto di emissioni sonore naturali, tra cui un posto non marginale dovevano senza dubbio occupare le grida di animali e i canti di uccelli. Si pensi a tal proposito a quanto, nel fr. 39 Page, sostiene il poeta stesso: Queste parole e il canto Alcmane trovò componendo, mettendo insieme la voce delle pernici.
La voce è però anche un forte segnale di identità, non solo perché intrinsecamente legata al corpo di chi la emetta, ma pure perché, nell’ambito del monocentrismo biologico greco, non poteva provenire che da un centro vitale, o dal cuore, secondo Aristotele, o dal cervello stando successivamente a Galeno. Tanto che ancora oggi si usa parlare di grana della voce o di “voce” di uno strumento musicale in genere, come chessò un violino, un violoncello, un contrabbasso, ma anche della “voce” specifica di uno determinato strumento ben individuato.
Greca è peraltro la nozione stessa di ritmo, inteso, secondo la ben nota definizione platonica, come ordine nel movimento, vale a dire una sorta di macrostruttura in qualche modo esistenziale, fondata su ripetizione e variazione. E, per restare nell’ambito mitologico, Armonia, la leggiadra figlia di Ares e Afrodite, nata da una straordinaria conciliazione degli opposti – se ravvisiamo in Ares il dio della guerra e in Afrodite quella dell’amore –, più che la mera musica in sé, in realtà personificava tutta la cultura nel suo complesso, tanto materiale che spirituale. Il suo nome, connesso alla radice ar-, nell’accezione – poi conclamata dai Pitagorici – dell’ adattamento reciproco di singoli elementi congiunti insieme in un ordine bello (quello che gli Antichi consideravano esemplificazione del kòsmos), era infatti suggello di suprema consonanza universale. Tale l’aveva, com’è risaputo, consacrata pure Zeus in persona, nel momento in cui aveva promesso in sposa la giovane dea a Cadmo, “salvatore dell’armonia del cosmo”, per ricompensarlo dell’aiuto ricevuto contro Tifeo. Un’impresa di notevole cimento che però, stando anche a quanto ricostruisce R. Calasso nel suo noto Le nozze di Cadmo e Armonia, non era costata sforzo eccessivo al futuro re di Tebe, dato che era il solo cui Apollo in persona avesse rivelato la “musica giusta”. Allettato da un simile suono, Tifone, temporaneamente padrone dell’universo per aver privato Zeus dei tendini delle mani e dei piedi, era venuto fuori con le sue cento teste dall’antro dove teneva prigioniero il Cronide, per gareggiare con il suo tuono contro lo zufolo del giovane pastore. Cadmo aveva però sostenuto che avrebbe preferito usare la lira, ed era perciò riuscito a persuadere il mostro a consegnargli i tendini di Zeus per usarli a mo’ di corde. Ottenutili, li aveva invece nascosti sotto una roccia e, senza farsi vedere, aveva tirato fuori il suo zufolo, lanciandosi in una melodia tale da soggiogare completamente il mostro e consentire a Zeus di tornare padrone dei propri tendini e delle folgori. Ma, se si ricorda che Cadmo è un eroe fondatore, cui in particolare si deve anche l’introduzione dell’alfabeto e dei “doni provvisti di mente”, si comprende ancora meglio il valore civilizzatore del suo connubio con Armonia, e il motivo per cui la musica non fu mai reputata, dai Greci, una questione di mero divertimento e intrattenimento ma un’ esperienza più etica che estetica, a proprio modo addirittura affine all’indagine filosofica. Sarà successivamente Platone, nel IV sec. a.C., a definire esplicitamente la filosofia musica suprema (Fedone), accostando il musicista e il filosofo, in virtù della somiglianza delle loro anime. Già comunque i Pitagorici, mettendo in relazione con la matematica e i numeri il sistema dei suoni e del loro intervallo, non solo ne avevano fatto un’entità misurabile, ma l’avevano anche strettamente collegato all’astronomia, sia per l’identità delle leggi matematiche che si riteneva fossero alla base delle leggi musicali come del sistema dei corpi celesti, ma anche in ragione di una particolare corrispondenza di certi suoni con i vari pianeti, a ciascuno dei quali la cosmologia attribuiva un suono diverso, di frequenza proporzionale alla rapidità del movimento: esso non è udibile dagli uomini o a causa dell’imperfezione dell’orecchio, o per il fatto che il suono non può essere percepito senza il suo opposto, cioè il silenzio totale. Sarà ancora Platone a riprendere tale teoria, meglio conosciuta come “Armonia delle sfere” ed elaborata per la prima volta intorno al V secolo a. C. dalla scuola pitagorica, nel celeberrimo “Mito di Er”, del X ed ultimo libro della “Repubblica”. All’interno di tale mito, si legge infatti come ciascuno dei sette pianeti (cinque, più il Sole e la Luna) emetta contemporaneamente un suono insieme alle stelle fisse: la loro armonia complessiva di otto note genera un immenso e perfetto accordo, simbolo ed espressione dell’Armonia cosmica, nel quale trovano consonanza, equilibrio e giusta rispondenza col tutto gli elementi costitutivi della materia, potenzialmente disparati e in conflitto fra loro. Ḕ stato perciò con indescrivibile emozione che ho visto da recente confermare tali straordinarie intuizioni dalle recenti scoperte sulle onde gravitazionali ovvero dalla teoria armonica delle Stringhe o Superstringhe.
Le qualità etiche della musica trovavano a loro volta spiegazione pure nella teoria pitagorica dell’anima, sollecitata dai suoni in conseguenza del movimento dell’aria: il mutato “equilibrio” dell’anima darebbe dunque origine a differenti caratteri e “passioni”: così la melodia può convincere o commuovere, placare un intero popolo in rivolta, combattere l’influenza eccitante del vino, spingere alle armi o guarire. Sarà di nuovo Platone a riflettere, nel Timeo, sulle leggi che regolano la musica, cui viene attribuito il potere di spiegare i fenomeni più disparati: dal moto degli astri al succedersi delle stagioni, dal ciclo della vegetazione a quello della stessa vita umana.
Non si può, quindi, affermare che l’incontro con la musica sia sempre amabile, facile o finanche indolore. Si pensi, per tornare al mito, a ciò che avviene a Marsia, il Satiro di origine frigia che ardisce competere con Apollo e, una volta inesorabilmente sconfitto, verrà – per riprendere Dante – tratto dalla vagina delle membra sue.
Va ad ogni buon conto sottolineato che il Satiro hybristès aveva già sfidato, senza saperlo la sorte, nel momento stesso in cui si era impossessato dell’aulòs (il flauto a doppia canna) che Atena aveva prima inventato e poi, offesa dalle risa di Era ed Afrodite, scagliato via maledicendo chiunque avesse osato raccoglierlo.
La critica più recente ha interpretato la contesa come una dichiarazione di superiorità della lira, sui meno versatili strumenti a fiato, che, a differenza di quella, non potevano essere infatti utilizzati per accompagnare il canto di chi li suonasse. Soffiare inoltre all’interno di un flauto o di un aulòs di norma alterava la fisionomia dell’esecutore che, dovendo gonfiare le gote, finiva per assumere pose che potevano farlo apparire goffo e poco elegante, appunto ridicolo. E tuttavia nemmeno la stessa lira aveva avuto origini gloriose: era a propria volta stata l’esito di uno scambio risarcitorio, il dono che aveva evitato un pericoloso scontro tra consanguinei. Non era stato infatti Apollo a inventarla. L’aveva piuttosto ricevuta dal fratellino Ermes, che, ancora in fasce e grazie alla sua poliedrica creatività, l’aveva ricavata dal guscio di una tartaruga e aveva preferito cedergliela dopo avergli rubato i buoi. Nella reciproca delimitazione delle sfere Apollo aveva in questo modo ottenuto il nuovo, dilettevole strumento, Ermes i buoi e la consacrazione a unico messaggero perfetto presso Hades. Oltre che quello della mobilità della realtà e delle trasformazioni mercuriali, era pertanto divenuto anche il dio psicopompo, la guida delle anime, che però come agli Inferi poteva condurre, così dagli Inferi poteva liberare. Ḕ ad esempio Ermes che riporta sulla terra Persefone dal regno dei morti. Nella densa analisi, del suo già citato, Gli dei della Grecia, Walter Otto ancora chiarisce: «Tutta la sua essenza e il suo apparire stanno sotto il segno dell’astuzia e della magia […] La musica è il vero linguaggio del suo mistero, la magica voce che risuona potente – tanto da fargli vincere in gara Stentore – e lo rende pure maestro di eloquenza […] Negli Inni Omerici, gli viene pure attribuita l’invenzione della zampogna. Ecco qui dunque davanti a noi il maestro delle destrezze, il pastore delle greggi, l’amico e il galante delle Ninfe e delle Cariti, lo spirito della notte, del sonno e dei sogni. Nulla esprime meglio quel che di sereno e al tempo stesso di tenebrosamente misterioso, di magico e tenero è proprio di Ermete quanto l’incantevole, dolce suono della cetra o del flauto», che per la verità può contenere tanto piacere, letizia e amore quanto appunto dolce sonno, come, in un altro esemplare episodio di pericolosissimo e proditorio fascino musicale, sperimenterà, e a proprie spese, pure Argo dai cento occhi.
Lo leggiamo, ad esempio, nel I libro delle Metamorfosi, lì dove Ovidio racconta che, structis avenis (677), con canne unite insieme, e travestito da pastore, Ermes fosse riuscito ad affascinare con la sua nova voce (r.678) l’insonne Panoptes. L’insidia divina è tanto più efficace quanto più ammantata di dolcezza e innocenza. Con la notevole finezza psicologica che gli è propria, il grande poeta di Sulmona — di cui, detto per inciso, ricorre quest’anno il bimillenario della morte, avvenuta in esilio a Tomi, appunto nel 17 d.C. –, non si lascia qui sfuggire l’occasione di sottolineare la sottile tensione che si viene a creare tra la resistenza (che il lettore sa già in partenza impossibile) di Argo e la bacchettata magica di Ermes che infonde il sonno. Per quanto il sopore gli scenda su una parte dei suoi cento occhi, il solertissimo custode si sforza per tutto il giorno di resistere, continuando strenuamente a vegliare, finché il messaggero divino non inizia a cantare della ninfa Siringa e di come questa, per sfuggire all’amore di Pan, avesse preferito la trasformazione in calamos palustres (un ciuffo di canne palustri), suscitando così i sospiri di delusione del dio. E allora l’aria dentro le canne l’aria vibrando, produsse un suono delicato, simile a un lamento, e il dio incantato dalla dolcezza di quella musica mai prima udita, disse: «Ecco come continuerò a stare in tua compagnia!», e saldate tra loro con cera alcune cannucce di disuguale lunghezza, mantenne allo strumento il nome della fanciulla: Siringa. Ed è proprio in questo momento struggente e topico della meta-narrazione che Ovidio fa toccare il proprio culmine anche alla narrazione principale. Ḕ a questo punto del canto del sedicente e seducente pastore che Argo chiude infatti tutti i suoi occhi, così che Io, da lui tenuta, come Era gli aveva ordinato, in perenne custodia, possa essere finalmente liberata per volere di Zeus. Il cedimento del gigante che, vinto in ogni sua resistenza, si lascia andare e si abbandona al sonno non può tuttavia non destare un’intensa pena e compassione che Ovidio suscita, nel lettore, con estrema maestria. Subito Ermes rattiene la voce e rafforza il sopore accarezzando con la magica verga le palpebre illanguidite, e risolutamente, con la spada a forma di falce, lo colpisce, mentre è lì che tentenna, dove la testa confina col collo, e lo butta giù insanguinato dal suo macigno, facendogli macchiare di sangue la rupe scoscesa. (713 ss.)
Un monito che ci ricorda come non tutto ciò che appaia bello e ammaliante vada preso per autentico e che bisogna guardarsi dal potere psicagogico di ogni performance musicale. Pena la perdita di sé, come pure attesta il pernicioso e proditorio fascino delle Sirene.
Eppure, chi non vorrebbe incontrarle, almeno una volta nella vita, anche solo per restare come Odisseo legato all’albero della propria nave, protagonista comunque di un’esperienza rara e straordinaria?
Provare per credere!
(stralcio dell’intervento tenuto dall’autrice al Convegno AICC Cuneo 2017)