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Sebbene l’inverno non fosse ancora terminato, la giornata brillava di una luce trasparente e fresca come quella di certi mattinali primaverili di cui godevo quand’ero ragazzo; per cui decisi a metà pomeriggio – visto che potevo – di togliermi dal lavoro per andare a piedi un po’ in alto.
Seguendo lo stradello serpeggiante coi capitelli della Via Crucis, tutto in salita in terra battuta e a tratti a gradini, giunsi in cima al colle con fatica, ma senza quell’affanno che poteva derivarmi dalla mezz’età, di qualche anno superata: ciò mi diede compiacimento.
Percorsi l’ultimo tratto giungendo sul piano ghiaioso del sagrato della vecchia chiesetta dedicata a San Paolo da cui il Colle prese nome, e che ogni venerdì di ogni Quaresima veniva officiato il rito conclusivo del Calvario di Gesù. Mi soffermai per qualche istante ad osservare l’intorno con una calma metafisica legata a un senso di pace e di ricordi. Osservai l’abitazione attigua a forma di fortilizio medioevale costruita in pietre grigie perfettamente squadrate come mattoni. Un tempo la casa era occupata da una donna in età avanzata con un figlio cieco e l’altro sordomuto: il cieco era notevolmente obeso, l’altro smilzo entrambi sul metro sessanta, di una certa età. I tre, alloggiati caritatevolmente dalla Curia, si erano incaricati, per quel che potevano, di curare e custodire il posto, ed assistere il sacerdote in occasione delle funzioni liturgiche quando capitava. Mi parve di vedere le ombre di quelle persone intente alle loro povere faccende quotidiane: si muovevano e si aggiravano nel luogo come spettri inseguiti dagli echeggianti guaiti degli inseparabili bastardini. Ricordavo che una volta al mese scendevano dal Colle per suonare alla porta delle abitazioni chiedendo un’offerta, ed io, alto una spanna meno di loro che più di una volta me li trovai davanti, ne avevo sempre timore: Quello con gli occhiali opachi e scuri rimaneva immobile fissando un punto indefinito: tenendosi sottobraccio all’altro impugnava il bastone bianco con la punta protesa in avanti dopo aver picchiettato il terreno. L’altro avanzava una specie di barattolo di latta con un’immagine scolorita della Vergine Maria di Fatima. Al suono della moneta lasciata cadere dentro il contenitore, il cieco ringraziava sommessamente dicendo la Madonna ti benedica. Poi, senza nient’altro li osservavo di spalle che a passi lenti in perfetta simbiosi si dirigevano verso un’altra abitazione. All’epoca non immaginavo da dove venissero. Solo dopo anni, in occasione della mia prima escursione su San Paolo con il gruppo giovani della parrocchia, ebbi la conoscenza della loro dimora. Passarono altri anni e non li vidi più.
Spiai con pacatezza l’interno della cappella attraverso l’inferriata arrugginita della monofora sulla sinistra del portale massiccio, chiuso da un grosso lucchetto. Intravidi sullo sfondo dell’abside abbandonato la tela, ad altezza d’uomo, del Santo rappresentato in piedi con un umile saio: la spada in una mano e un libro nell’altra con lo sguardo severo, una francescana folta barba nera e capelli lunghi ondulati fino alle spalle. Tutto avvolto da una profusa e desolante penombra.
Percorsi il breve viottolo sul lato più lungo della chiesetta avanzando rasente la parete per non finire sulla siepe selvatica della scarpata che l’affianca in tutta lunghezza. Giunsi sul retro vicino la piccola torre campanaria a cui si addossa il muretto che mi arrivava a mezza coscia, al di là del quale scende pericolosamente il dirupo infittito di arbusti che vegetano tra i massi di roccia viva.
Mi venne naturale appoggiare le mie parti posteriori sul piano in cemento del muretto allungando le gambe verso il viottolo e di pensare all’ultima volta che avevo fatto tappa lì: – Quanti anni sono passati, trenta, trentacinque? -
Mentre evocavo gli anni seguendo la mia memoria disordinata per darmi una risposta, esaminavo, con occhio da addetto ai lavori, l’intonaco della cappella e quello del manufatto su cui sedevo. Intonaci che col passare del tempo si erano erosi e sbriciolati facendo affiorare, qua e là, i sassi della muratura: segno del tempo impietoso che travolge tutto senza voltarsi indietro, contro il quale non c’è scampo e quando arriva il tuo momento non rimane altro che l’arresa, e basta!
Ebbi la consapevolezza assoluta di quanto effimera sia l’esistenza: quando sei giovane hai dentro la vastità senza approdo, ti credi temprato e invincibile, un eroe, e poi, basta osservare un semplice banale intonaco cadente per farti riflettere su come passa il tempo, su come difronte ad esso sei un niente. Quasi mi prese un senso di sdegno rabbioso.
Sì, l’ultima volta era di maggio e Baglioni cantava “ questo piccolo grande amore “
Ero con la liceale, una biondina lentigginosa con l’iridi verde mare che avevo conosciuto a gennaio dello stesso anno, e Baglioni sembrava avesse scritto la canzone per noi. Poi giunse l’estate e la storia finì. Abbozzai un sorriso senza lasciarmi prendere dal gioco della nostalgia.
Spaziai sull’intera Vittorio che stava di sotto. Seguivo con lo sguardo le vie riconoscendo dai tetti le abitazioni degli amici che furono, e anche quelle dei vecchi che conoscevo appena e che uno ad uno se n’erano andati all’aldilà nel mio disinteresse, perché appunto vecchi lontani dalla mia fiera gioventù. Ora li vedevo emergere con figure ingobbite e avvizzite nel loro tempo, e le anime di quelli che sono passati di lì mi parve venissero da me a salutarmi, a sostenermi, a rincuorarmi dal modo in cui, in quel minuto, la vita mi scorreva davanti gli occhi per farsi beffe delle cose fatte e non fatte, dei rimpianti e delle colpe.
Indugiai sulla maestosità della Cattedrale che domina impettita la piazza, punto focale di Ceneda, con affacciato, al di là della strada tangente alla stessa piazza, il porticato dello storico bar Duomo, luogo di accese discussioni sui campionati davanti a un bicchiere di vino e l’altro. Difronte, il complesso vescovile non più frequentato da decine e decine di seminaristi che in primavera, dopo il pranzo, suddivisi in gruppi distinti per classe, uscivano in passeggiata per le vie secondarie, inquadrati come militari; il mio vecchio vecchio borgo; i rioni di periferia sempre in competizione tra loro a ogni tradizionale ricorrenza e non solo. Il tratto del Meschio con le sue acque cristalline mi attirava non poco. Laddove vi era l’aperta campagna ora vedevo capannoni di cemento che emergevano dai fastidiosi riverberi metallici delle auto degli operai parcheggiate accanto e in tutto ciò, mi giungeva l’incessante e confuso frastuono ovattato della vita cittadina. Scrutai con il piglio di un esploratore la vastità della pianura e ne studiai l’orografia delle colline sulle quali si allineano i campanili dei paesi limitrofi, e dove l’azzurro si apre all’orizzonte, il cielo si congiunge sulla linea sottile del mare veneziano.
Quasi per destarmi da ciò che stavo rimuginando, una raffica di vento mi investì all’improvviso. Non mi scomposi, rimasi immobile, sfidando l’irrequietezza della bora come l’arduo tronco di una palma su di un promontorio marino.
Ad ovest il cielo si tingeva di rosso carminio sparso dietro uno sciame di nuvole di cotone. Gli ultimi raggi di sole s’infrangevano sulla cresta dei colli creando un seducente effetto cromatico. Ancor di più mi volli trattenere per ammirare l’incanto poi, compiuto qualche passo lento, quasi incerto, assunsi un’andatura decisa per scendere. Mi lasciai andare sempre più lesto fino a metà discesa, quella che nell’inverso mi fece arrancare, quindi, mi impiegai saltellando sui gradini e con scioltezza ginnica conclusi il percorso.
In città, l’esuberanza dell’aria si era placata. Decisi di rientrare lungo l’argine del fiume che mi aveva invogliato. Con lo spirito del camminatore Giacomeo, a mente dei percorsi del mio pellegrinaggio allo stato di vagabondaggio, attraversai velocemente le vie della cittadina fiancheggiando i caseggiati sui marciapiedi. Sebbene non avessi lo zaino e l’abbigliamento del pellegrino, ebbi la stessa sensazione di allora: un gigante nano al culmine della sua potenza, secondo cui Victor Hugo intendeva il camminatore.
Camminando sull’argine del Meschio colsi il gorgoglio delle acque che come voce pacata mi dicevano tante di quelle cose che l’emozione mi stava esplodendo dentro: – Ehi giovanotto da quanto tempo non ci si vede? – Gli avrei risposto dal tempo della mia meglio gioventù rifacendomi al titolo del film, e tu! Quanta acqua ti sei fatto passare da allora? Io mi sono attempato che quasi non mi riconosco e tu sei sempre lo stesso.
Il tramonto ormai si era fatto deciso. Il rosso carminio totalmente sciolto ritagliava le sagome dei tetti in lontananza della città discosta; l’acqua dell’amico fiume restituiva l’ultimo baluginio prima di estinguersi nel buio.
Finalmente tutto sembrò deserto, sgombro da persone a passeggio e da qualsiasi altra seccatura umana.
Giunsi da ritardatario nei pressi del vecchio mulino trasformato in appartamenti moderni con i parapetti dei poggioli a colori alterni verdi, rossi, gialli, blu. Spinta da una nuova folata d’aria, una foglia dribblando al suolo mi giunse tra i passi: come un adolescente giocai a rincorrerla agile, libero e divertito nell’oblio, come se anch’io appartenessi al vento.
(Foto di Bruna Bonino)