SILVIA PIO
Nata in cima alla collina, davanti al paesaggio ondulato di boschi, prati e montagne lontane, la mia casa è un albero a pochi passi dalla costruzione in pietra che il nonno tirò su per andarci a vivere con la sposa. Durante i miei vagabondaggi, la pietra mi sembrò troppo ruvida e poco ancorata alla terra, così decisi che la mia casa, quella delle origini, della memoria e forse del ritorno sarebbe stata la pianta di susine che si sporgeva sulla ripidezza della collina.
La guerra, la miseria e chissà quali altre disgrazie dei sentimenti fecero in modo che i nonni si sposassero in età avanzata e non avessero che una figlia, la cui nascita stentata e la susseguente sopravvivenza furono chiamate miracoli.
I racconti di mia madre popolarono i luoghi della sua infanzia e adolescenza con fantasmi di personaggi andati, che rivivevano episodi del passato ancora e ancora, guidati dalla voce di miele dell’unica superstite. Il prato non fu mai soltanto una distesa di erba e fiori di stagione, ma il teatro delle storie degli antenati; gli alberi risuonavano non di grida d’uccelli ma di voci umane; e risa, pianti, sospiri rimanevano a lungo a fluttuare con gli odori antichi di terra e vento.
Il tempo passato non trascorse mai del tutto e la realtà si confuse con i racconti e le canzoni di mia madre; non ci fu mai storia tra le mura di pietra e la natura circostante, ma un senso truccato del presente che faceva sembrare ogni anno, ogni stagione, ogni giorno e attimo, immobili ed eterni.
La giovinezza doveva riservarmi un altro fenomeno temporale. Come molti, mi allontanai dalla collina per attraversare a passi incerti i sentieri che portano nella valle, nella città, nella maturità. Un’esistenza nuova si profilava, dove le situazioni e le parole per definirle avevano un senso e un gusto diverso, più pungente. Mentre incespicavo sulle strade scandite dall’esperienza – ma ricordo anche di aver corso, di essere caduta e, una volta, di aver volato – intorno alla collina si tesseva un bozzolo di memoria. La costruzione in pietra, il susino, il prato e il bosco si conservavano intatti per ogni mio raro ritorno. Senza tempo e senza storia, il mondo dentro all’involucro risuonava di canti, di risa, di sospiri, che erano quelli degli antichi abitanti, di mia madre e dell’universo tutto. Ce ne volle di strada per accorgermi che due erano le dimensioni nelle quali mi trovavo a vivere, che si sfioravano appena come due sfere che rotolino nel vuoto. Era forse l’esaudirsi del desiderio segreto di vivere più volte? Dopo aver scartato l’ipotesi troppo incerta di un aldilà, era forse questa la risposta al bisogno di molteplici esistenze perché una sola mi stava stretta?
Ci fu un tempo dove la collina era tutto il mondo e le montagne in lontananza unico orizzonte possibile. Poi vennero le due dimensioni sferiche, quella della vita in città e quella dello sporadico ritorno, con estensioni che variavano ma rimanevano in equilibrio. Poi la bilancia si piegò dalla parte della vita adulta, appesantita dall’età e dagli accessori forse superflui ma inevitabili che questa porta con sé.
Arrivarono nuove abitazioni, tante da non poterle ricordare tutte, ma l’unica casa è rimasta il susino. Comparvero nuovi personaggi, e man mano che questi se ne andavano, i loro fantasmi. L’esistenza si chiamò realtà e ricoprì quasi tutto lo spazio della mente: un mare navigato sulla fragilità delle incertezze. Ma il bozzolo della collina era sempre là, benigna sicurezza legata alla terra.
Non tornavo più ormai, ma il paesaggio di boschi e prati lo portavo dentro me, preciso e profumato. La collina è diventata un angolo dell’anima accessibile al momento del bisogno, quieto nell’irrequietezza, giocoso nella mestizia, vitale nella stanchezza. E quel mondo ha iniziato ad interferire nel quotidiano senza peraltro che l’involucro venisse strappato. Momenti ne filtravano e si depositavano nelle situazioni di ogni giorno.
Le sensazioni si cibano di ricordi, ma col passare degli anni i ricordi sbiadiscono. Mia madre ha smesso di ridipingere il suo paesaggio d’origine ed io non so riprendere l’opera. Il pensiero di andare a vedere è arrivato all’improvviso, al principio quasi uno sfizio, un desiderio estetico, poi una nostalgia e infine la paura della perdita. Ma la nostalgia, che è la voglia di qualcosa impossibile da ottenere, non si guarisce che con l’oblio e la perdita, quando si avverte vuol dire che si è già compiuta.
Certo, la collina è sempre al suo posto. La costruzione in pietra, ancora in piedi; anzi, mi dice la lettera dei nuovi proprietari, sono state apportate delle modifiche che hanno molto aumentato il valore dell’immobile, anche se stravolto un tantino l’aspetto originario. Sì, il susino c’è ancora, anche se non fruttifica più ma fa una bella ombra. No, non si sentono voci, né si vedono personaggi che sembrano arrivare da un’altra epoca, solo uccelli e vento. Posso andarci quando voglio, hanno persino asfaltato la strada.
Potrei tornare. Riappropriarmi di quel che resta della dimensione fantastica, ricostruire il vecchio paesaggio e rievocare i fantasmi famigliari, ma ho paura di non trovare che pietre tombali, come quelle che ricoprono tutti coloro che conoscevo.
Oppure potrei semplicemente recuperare quell’angolo della mente, ripulirlo, accertarmi che sia rimasto qualcosa da utilizzare. Cercare un ascoltatore per le storie di mia madre, ora le mie. Provare a tenere in vita un mondo che cambia di continuo sulle labbra e nel cuore di chi lo ricorda, ma conserverà una voce, un sussurro, un verso delle antiche canzoni.
(Pubblicato in una versione precedente in “Il Lunario delle Langhe e del Roero”, Associazione Culturale L’Arvàngia, n. 2 1992)
Foto di Bruna Bonino
Originariamente pubblicato il 27 febbraio 2018.