CLAUDIO SOTTOCORNOLA
È una delle poche cantanti emerse negli anni ’70 ad essersi costruita, attraverso successi e silenzi, una identità così sicura da essere indiscutibilmente valutata, al pari di Milva o della Vanoni, fra le «signore» della canzone italiana. Il suo primo disco, «Il magone», risale al 1963, vale a dire una lunga gavetta in sperduti locali delle Marche fino al successo di «Piccolo uomo» al Festivalbar del ’71, e poi di «Minuetto». Oggi Mia Martini affascina e trascina per un’altra dimensione, quella del ritorno da profondi silenzi e travagli che ne hanno fatto una creatura epidermicamente felice del caldo, ritrovato, abbraccio del pubblico. Come, anche quest’anno, è accaduto a Sanremo, dove «La nevicata del ’56» ha ottenuto il Premio della critica. Ora il pezzo esce nel nuovo Lp, «La mia razza», e la Tv la «riscopre» con «Europa Europa».
Mia, lei ha conservato qualcosa dello spirito d’infanzia, come sembra suggerire la sua canzone di Sanremo… Da che cosa dipende?
«Dipende dal fatto che mi fa molto male averla perduta. Oggi vedo la mia infanzia alla luce di tante discese e salite e questa proiezione sul mio passato mi fa risaltare soltanto le cose belle, la figura di mio padre nella mia casa, che non mi ha mai portata allo stadio, era uomo di cultura e fervente politico, ma mi faceva vedere il mondo dalle sue spalle…».
Lei ha conosciuto il successo, fino all’83, poi anni di «oscuramento», quindi di nuovo il successo. Che cosa hanno significato questi momenti?
«È un bilancio che non faccio, perché guardo a questi momenti come alla mia infanzia. Mi rimane l’amore del mio pubblico che è rimasto in tutti questi anni senza affievolirsi, anzi si è chiarito, senza singhiozzi e fuochi d’artificio».
Ma perché anni di silenzio?
«Anche l’operazione che ho avuto alle corde vocali ha inciso. Ma avevo dei grandi dubbi. Mi venivano date delle imposizioni da quello che era il mio compagno in quel momento (Ivano Fossati, n.d.a.) per cui io ero costretta a dover rinunciare o alla mia arte o alla mia femminilità, alla mia vita di donna. Ero sempre confusa, angosciata… Sono rimasta sola con le mie lotte interiori, nella mia casa».
E, tra l’amore e l’arte, ha scelto l’arte?
«Sono la stessa cosa. Perché l’arte è una parte dell’amore. È che non c’è una donna e poi un’artista: c’è l’acqua, la terra, il mare, il cielo, le montagne, non so quando finisce la mia vita d’artista e quando comincia quella di donna».
La sua voce è affascinante anche perché è passata dalla testa alla gola. Le piace questa trasformazione?
«L’ho voluta io. Mi ero stufata di avere una voce che abitava in testa, e così ho cambiato l’arredamento, e l’ho mandata giù, da dove partono tutti gli stimoli e tutti i sentimenti».
Che cosa le piace di più del suo album, «La mia razza»?
«Ci sono tante cose, perché è molto vario. Ma il pezzo che più mi scalda perché scatena un po’ la mia fantasia, il mio amore per l’Africa, per tutto ciò che è lunare, è di Mimmo Cavallo, davvero un grande artista, e si chiama “Danza Pagana”».
Progetti per il futuro?
«Divertirmi come una pazza. Vivendo. E io vivo di musica, e sono pazza di gioia di cantare ancora».
Che cosa ha imparato nella sua vita così intensa?
«Che qualsiasi problema non si può guardare da pari a pari, perché le cose sono sproporzionate. Per avere veramente il controllo di tutta la situazione bisogna andare in alto, più in alto possibile, perché più in alto andiamo e più gli ostacoli che ci si nascondono possiamo vederli».
Pubblicato per la prima volta in Il Giornale di Bergamo Oggi, 17 marzo 1990. Oggi in: Claudio Sottocornola, Varietà. Taccuino giornalistico: interviste, ritratti, recensioni, approfondimenti, ricerche su costume, società e spettacolo nell’Italia fra gli anni ’80 e ’90, Marna editore, 2016. Margutte ne parla QUI)