Considerazioni su una foto di famiglia
SILVIA PIO
Nel dopoguerra un certo ottimismo e una migliorata condizione economica hanno portato quasi in ogni famiglia una macchina fotografica, che ha fissato in bianco e nero ogni occasione importante o momento speciale.
La nostra era una famiglia allargata, non nel senso che si dà oggi all’espressione, ma per il fatto che ogni acquisito veniva inglobato, insieme ai suoi parenti, nella grande tribù: nessuno aveva una famiglia numerosa, accogliente e avvolgente quanto la nostra. È stato il marito della figlia andata sposa per prima a portare in famiglia la macchina fotografica, e ad un certo punto anche la cinepresa 8 mm, e a documentare per quasi sessant’anni gli eventi famigliari, che venivano sempre condivisi da un numero di parenti mai inferiore ai venticinque.
Questa è una delle sue foto.
Negli anni Sessanta Joan Baez ha reso famosa la canzone “Dove sono finiti tutti i fiori”*; il testo si sviluppa in una catena di strofe che si chiude con l’immagine iniziale, come se le cose, destinate a morire, ritornassero comunque sempre al punto di partenza in un ciclo senza fine.
A questo penso davanti all’immagine del trattore col suo carro carico di bambini.
Sulla destra si vede un’auto Fiat 1100 D; in quegli anni l’automobile ce l’avevano tutti. Per arrivare alla cascina avita era indispensabile; la generazione precedente (i nonni) non avevano mai preso la patente, raggiungevano i campi a piedi o con il carro dei buoi; capitava che la nonna facesse anche quattro volte al giorno i due chilometri che separavano la casa dal paese, prima in salita poi in discesa; i figli andavano a scuola a piedi, nel fango o nella neve in inverno, nella polvere in estate, i più grandi tiravano i più piccoli. Al primo lavoro retribuito, i figli maschi si comprarono la motocicletta; in seguito arrivarono le automobili. Le figlie femmine avrebbero preso la patente solo negli anni Settanta, quando la guida si diffuse anche tra le donne.
Il trattore aveva sostituito il carro dei buoi, ma i buoi venivano ancora usati in caso di cattivo tempo, quando la strada in salita diventava così scivolosa da fidarsi solo degli animali da tiro.
I figli maggiori si erano trasferiti e avevano messo su famiglia, i nipoti nascevano al ritmo di due all’anno; della mia annata siamo in tre. Ma la domenica la passavamo alla cascina dei nonni. Mentre gli uomini facevano un giro nei campi, le donne aiutavano la nonna, che aveva già fatto le tagliatelle e tirato il collo ad una gallina – o fatto fuori un coniglio senza farlo soffrire; preparavano lunghe tavolate dove si metteva il pane, che era fresco solo la domenica (col passare dei giorni settimanali acquisiva una consistenza elastica che nulla toglieva all’aroma del forno a legna), il salame fatto dal nonno e la tuma (formaggio di pecora) fatta dalla nonna. La giornata passava in libertà, sul fienile o nei campi o sotto il pergolato.
La foto mostra un esempio dei giochi dei bambini, nei quali spesso intervenivano i grandi. Uno di loro guida il trattore con alcuni di noi cugini sul carro e ci porta a fare un giro nell’aia. Era mio padre.
I bambini esploravano ogni angolo della cascina, salendo sul fienile e buttandosi giù dal buco che serviva per far scendere il foraggio; col bel tempo si spingevano fino alle vigne, per mangiare gli acini senza neppure staccare i grappoli, e fino al rittano, per berne l’acqua con l’aiuto di grandi foglie arrotolate a cono. Ogni stagione aveva la sua frutta, colta sugli alberi.
In inverno si andava nella stalla quando si era stufi del chiacchierare dei grandi in cucina, facendo attenzione a non sporcarsi le scarpe, e si finiva per fare le stesse chiacchiere sulle balle di paglia pulita. A sera si tornava a casa con un saluto veloce, come chi sa che si rivedrà presto, fra una settimana appena.
Quei bambini degli anni sessanta sono ora persone di mezza età, almeno quelli che sono riusciti a invecchiare. Quasi tutti hanno avuto figli e qualcuno, nipoti. Quei bambini non ci sono più in quanto bambini, non c’è più l’uomo che guida il trattore, né il trattore o tantomeno il carro e l’auto. La cascina è ancora là ma non appartiene più alla famiglia. So che qualcuno dei parenti ogni tanto ci va a fare un giro, giusto per misurare i segni del tempo e per trovare, senza riuscirci, i pezzi di vita che abbiamo disseminato in quegli anni.
I nostri figli non hanno mai giocato in quell’aia, non sono entrati nella stalla (che ora non è più tale) e in nessuna stalla. Non credo conoscano l’odore del letame, la fragranza del fieno o la ruvidezza della paglia. Raramente hanno mangiato la frutta dagli alberi o vendemmiato l’uva. Non voglio dire che la nostra sia stata un’infanzia idilliaca né so come le nuove generazioni considereranno la loro. Sono passati gli anni, sono cambiate le cose. È così.
Dove sono finiti quei tempi, lo sappiamo tutti. Il fatto che abbiano un significato per noi che li abbiamo vissuti non dà loro la dignità dell’importanza storica. Restano queste foto e la necessità di scriverci dietro luogo, data e nomi dei presenti perché altrimenti non saranno che volti sconosciuti e la foto perderà la caratteristica di illustrare la nostra famiglia.
Ma come nella canzone, voglio sperare in un processo ciclico che porti ad un ritorno alle origini: i bambini sono finiti nella fotografia, la fotografia è finita nell’album, l’album è stato aperto di nuovo, siamo qui che parliamo dei bambini ai bambini di adesso.
La memoria è l’unica eredità che possiamo garantire loro.
*Where have all the flowers gone
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