FRANCA ALAIMO
Fino a qualche decennio fa poche poetesse italiane avevano avuto il coraggio di sdoganare il sesso dalla reticenza e consegnarlo a un lessico ardito, se non addirittura osceno.
A me vengono in mente solo Maria Grazia Lenisa, ormai scomparsa, e Patrizia Valduga, sebbene così distanti e per intenti e per resa stilistica: la prima, infatti, canta Dio attraverso il linguaggio umano dell’eros, e il corpo attraverso gli stilemi del sacro, nell’intento di superare ogni frattura fra carne e spirito, entrambi desideranti; la seconda, invece, mescolando insieme la compostezza della struttura formale, così largamente attinta dalla tradizione, con un lessico “sporcato” spesso dall’oscenità più cruda e da un netto rifiuto d’ogni riparo metafisico, sottolinea la frattura fra la psiche maschile e quella femminile che contrassegna anche quella gestuale e libidinosa, lasciando, tutto sommato, sulla scena della letteratura la sua nudità senza riparo.
La Lenisa ha trovato poche seguaci nella letteratura italiana, in genere (e non solo, come suppongo, per la difficoltà della sfida). Tra le autrici di questa antologia, possiamo accostarle soltanto la Narimi, la Monachino (con il loro felice innesto e spargimento di fervore mistico entro il ritmo vitale-erotico dell’Universo) e la Cerniglia che attinge ampiamente dal mito per alonare di ideale bellezza vicende intime e reali.
Molte autrici italiane, invece, si sono messe sulle orme della Valduga, rivendicando una piena libertà di espressione nell’ambito della materia erotica, che già Rimbaud si augurava quale indice di una futura, raggiunta parità fra uomini e donne (non per nulla la Lenisa si definì “la ragazza di Rimbaud”), consapevole del presupposto che da sempre la lingua scritta coincida con gli interessi della classe dominante.
A dire il vero, quel linguaggio inaugurato, in Italia, dalla Valduga, e che fu giudicato tanto dissacrante qualche decennio fa, oggi non stupisce più, (casomai potrebbe suscitare ancora una reazione simile, considerata la diversa tradizione culturale del suo paese natale, l’audacia, allo stesso tempo prorompente e delicata, dei versi della siriana Maram al Masri, sebbene ella viva da anni in Europa), la qual cosa dovrebbe confermare che la parità sessuale sia stata raggiunta.
Eppure una tale affermazione non sembra fotografare la realtà, anche perché la società occidentale contemporanea non solo è caratterizzata da un’abbondanza di linguaggi paralleli che casomai mettono in evidenza una lotta serrata fra diversi poteri; ma perché, fra i tanti codici linguistici, proprio quello poetico sembra, oggi, il meno investito di “potere”, pur restando di straordinaria importanza che la donna-poeta abbia osato dire in prima persona quelle emozioni e quei pensieri che, nel passato, le erano stati attribuiti dai colleghi scrittori.
Scorrere, infatti, le pagine di questa corposa antologia significa, innanzitutto, ascoltare la Voce femminile dell’Amore, declinato in toni e modi diversi, e, cosa solo apparentemente sorprendente, non sempre i testi più coraggiosi sono quelli delle più giovani autrici.
C’è ancora in molte un modo di porsi di fronte a questo sentimento, che le accomuna a emozioni, figure e stilemi del “romanticismo” (inteso, ovviamente, come categoria trans-temporale) che hanno attraversato la letteratura amorosa d’ogni tempo e luogo, anche se ormai liberati dal presupposto del ruolo secondario dell’amata rispetto all’amato, e, in ogni caso, sottratti alla catastrofe personale grazie a un sentimento di fierezza e unicità del proprio sé.
Si tratta di un atteggiamento che oscilla fra desiderio e sofferenza (Caffio), tra abbandono e nostalgia amorosa – raccontati spesso con particolari realistici e imprevedibili metafore – (Kurti, Rosas, Tempesta); tra idealizzazione, tenerezza e passionalità bruciante (Meloni, Espinoza, Fresu, Pita, Bonfiglio,Vergara Marcos); tra sussulti memoriali e dolore (Cosma).
Più raro l’abbandono alla pulsione erotica, con un’attenzione quasi impudica ai dettagli del corpo, ai gesti, alla nudità, alla carnalità del congiungimento (Barendson, Bisutti, Mormile, Magazzeni, Andreis e, in parte, Rosati) attraverso immagini del tutto inedite.
Nei testi di altre autrici l’adesione alla tradizione letteraria si traduce in un accurato lavoro formale che sorveglia sapientemente i contenuti: così la Frabotta con le sue gabbie metriche e il martellamento sonoro che caratterizzano un ordito verbale audace e moderno; la Cascella Luciani, in cui la tradizione si sposa a sonorità e immagini originali, spesso tenere, insieme ad una gestione personale degli elementi grafico-tipografici; la Rosadini, i cui testi composti e raffinati sono la spia di un attraversamento dell’eros come strumento di ricomposta armonia e interezza affettiva. Straordinario l’impasto linguistico della Petrollo, così che lemmi desueti e ordinari, raffinati e volgari, letterari e dialettali si mescolano perfino all’interno dello schema strutturale del sonetto e nella sapiente tessitura degli altri schemi metrici.
Molte sono le autrici che fanno uso di un linguaggio innovativo nel registro lessicale e nell’uso di metafore inusitate che mettono in evidenza la configurazione di un diverso immaginario, che attinge a figure altre rispetto al passato. È una rottura degna di grande attenzione, la cui frequente enigmaticità è intessuta di barbagli e balbettamenti memoriali e di improvvise pause che si allargano tra parola e parola grazie all’uso (che ricorda gli Ermetici) dello spazio bianco. Esse sembrano volere tradurre certe sospensioni interiori e dolorosi stupori, ma anche una sorta di alienazione dal reale (Martinez, Bergna).
A questo gruppo di innovatrici linguistiche – ma con esiti del tutto diversi – vanno aggiunte: la Calandrone, il cui approccio ai temi suggeriti si tiene distante da qualsiasi cedimento sentimentale. La poeta preferisce, infatti, procedere per sequenze verbali severe, aderenti come una serie di fotogrammi ai fatti, specie nell’ultimo dei tre testi proposti, come in qualche modo fanno anche l’americana Leverone e la portoghese Amaral, nei cui versi l’eros e la poesia si mescolano in un corpo unico e la descrizione dell’oggetto amato viene filtrato dalla memoria attraverso una suggestione pittorica, con un intrigante effetto moltiplicatorio.
Ancora più impregnata di un “gelido” realismo, che, per ciò stesso, assume toni di pietas feroce e denuncia, facendosi strumento di lotta contro ogni ipocrisia etica, è la poesia della Golisch.
Tra le autrici giovani, meritano grande attenzione la Sardisco, che inventa una lingua altamente drammatica, ustoria, per narrare il corpo come territorio usato e clinicamente martoriato; la Insinga, che cela all’interno di una versificazione esatta, musicalmente costruita, allusiva, nutrita di cultura, un doloroso percorso di sofferenza amorosa; la Gnazi, che, quasi secondo un’inaspettata rivisitazione del Dolce Stil Novo, immerge il corpo nelle fragranze odorose della Natura, in un incessante sfolgorio di luce attraverso l’elaborazione fantasiosa e qualche volta straripante di immagini; la Barbato, in cui l’eros si ammanta di una fascinazione magica, da cui sgorgano l’una dall’altra immagini e metafore di grande impatto lirico-emotivo, e la Vivinnetto che affronta con sincerità, coraggiosa misura e grande sensibilità l’argomento poco esplorato della transessualità.
C’è da dire che, sebbene sembrino compenetrarsi l’uno nell’altro, i due temi dell’antologia: il corpo e l’eros, in realtà non sono la stessa cosa.
Il corpo, spesso, è stato per la donna un territorio sconosciuto, un qualcosa da dare in cambio, da offrire, da sigillare in una sorta di vuoto asettico. Prenderne coscienza, svelarlo prima di tutto a se stesse, è stato il primo strappo delle donne moderne (grosso modo, dal ’68 in poi) rispetto alla generazione delle madri. Il corpo femminile diventa paradigma di identità, libertà morale, consapevole fierezza della propria diversità, e soggetto capace di infrangere una serie di vecchi tabù, tra cui l’omosessualità (Davinio, Magazzeni); oppure denuncia amara, come fa Rosa che sente e svela la colpa, la diminutio di cui è stato (e ancora può essere) vittima il corpo femminile.
Il tema del corpo, così com’è stato affrontato da molte autrici, specialmente del Sud-America per ovvie condizioni storiche e sociali, si allontana dalla inevitabile auto-referenzialità della maggior parte dei testi per introdurre temi sociali molto scottanti, come la prostituzione forzata, la vendita delle bambine al mercato del sesso, l’incesto, l’aborto, la difficile integrazione dei migranti, il gap generazionale tra quest’ultimi e i figli, come fanno Patriarca, Pinedo, Mancía, Vergas, e con esiti stilistici al limite del surrealismo, la Szwarc e la Bonhomme. Di chiara impronta femminista è l’ardente difesa della donna da parte della Naccarato, in un lunghissimo testo che ha il ritmo di una marcia militare, di un assalto ai luoghi comuni e alla presunta inferiorità del suo sesso, rapinato, reificato, soggetto a una serie di stereotipi comportamentali, come è ribadito negli altri due testi memoriali.
Tra le italiane, una scrittura di denuncia (lo stupro, la violenza, il falso mito della verginità, l’ipocrisia morale) è quella della Cupertino, della Sorrentino (la cui poesia drammaticamente narrativa è orchestrata attraverso una serie di immagini perturbanti), e della scrivente.
Interpretazioni divergenti del tema del corpo sono quelle dell’italiana Mongardi, che lo descrive come vivo oggetto autonomo da ascoltare con i suoi ritmi e suoni e invisibili intimità; e della greca Lainà con i suoi testi nutriti di cultura (il teatro e la poesia giapponese, i personaggi di Bronte); e la Sica, che in tre brevi testi racconta la storia di un amore.
Fuori dal coro stanno anche la Coronado e la De Lisi, accomunate da un’immaginazione fervida e terrifica, per certi versi nutrita di cinematografia horror e di certa produzione fumettistica. La prima dà voce ai propri fantasmi mentali, ossessionata dalla perdita di sé, del proprio corpo in un mondo cannibalizzato che distrugge e divora; la seconda costruisce delle storie imperniate, secondo una traccia a lei abituale, sui rapporti familiari commisti di odio, amore, violenze e rare tenerezze, in bilico tra auto-analisi e visionarietà. E, ancora, la Bre, che interpreta l’eros come condivisone amorosa delle parole, il corpo come forma sgorgante “da un movimento solo” in un tempo finito.
C’è, ancora, chi lo canta attraverso un gioco ludico-melodioso di reiterazioni e smembramenti di parole e una trama di rime-assonanze limpide ed eleganti (Bettarini), chi, attraverso una visione onirica, come forza assoluta (Cruciani), chi nella bellezza sensuale delle adolescenti che spargono leopardianamente promesse di felicità (Di Gregorio), chi come emblema di fertilità ed energia inesauribile (Di Palma).
Chi percepisce l’eros quale dramma – “morsi e male come doni”- (Fantato); come daimon terribile, quasi distruttivo (Laginija); chi come gioia, totalità, oblio di sé che dà posto a “cuori, cuori”, come scrive la Quintavalla, o a un intorno “tutto puro” (Mancinelli); chi con freschezza di toni, dubbiosi punti interrogativi, tenere malinconie (Lamarque). La Ferramosca lo interpreta, così come la Hanxhari, come una deità metamorfizzante grazie alla quale i corpi amanti affondano in tutto l’altro che vive e che si nomina e che fa musica.
La Poster, infine, nei suoi tre testi offre una varietà di approccio: nel primo sembra proporre una riscrittura moderna del mito di Giove e Danae, nel secondo racconta, attingendo al lessico scientifico, la vecchiaia di una donna attraverso quella di una stella, nel terzo rievoca i propri cari, i loro corpi vivi e le voci, i passi di danza, i loro luoghi, sempre comunque cucendo insieme l’esistere e il tempo.
Queste 68 voci di donne poete sono state messe insieme grazie all’aiuto di molti amici scrittori che mi hanno suggerito nomi e fornito contatti (Rosadini, Fo, Calandrone, Cupertino, Mongardi, Balbis, Maggiani, Martinez, Nazzaro), il professore Federico Italiano, la traduttrice Colarossi, l’amica Antonella Spina e altri. Ho raggiunto alcuni poeti, specie stranieri, via internet e li ringrazio per avere risposto all’invito, pur senza conoscermi.
Molti amici, che ringrazio fortemente, si sono gratuitamente offerti quali traduttori: Lucia Cupertino, qui presente anche come poeta, lo scrittore Antonio Nazzaro, Patrizia Sardisco, anche lei antologizzata, il poeta Roberto Maggiani, e Antonio Melillo, da cui è partita questa idea e che ha voluto la mia collaborazione per concretizzarla. Alcune poete hanno inviato traduzioni già in loro possesso, e altre sono state tradotte da me.
Ringrazio in modo particolare l’editore Giuliano Ladolfi, che ha accettato di pubblicare questa antologia, che offre senz’altro un’interessante panorama della produzione poetica femminile contemporanea, sia nazionale, dal Nord al Sud d’Italia, che internazionale (Europa, Asia, Americhe). Un altro elemento importante è senz’altro da considerare il fatto che almeno tre generazioni di poete (dalle più affermate a quelle non ancora ampiamente note), e tutte con esiti stilistici alti, siano state chiamate ad affrontare gli stessi temi, offrendo, loro malgrado, una testimonianza storica dell’evoluzione della mentalità, dell’eticità e dei costumi riguardo ai temi dell’eros e del ruolo della donna nella società.
(Il testo qui riprodotto è l’introduzione dell’antologia di testi poetici Il corpo, l’eros, a cura di F. Alaimo e A. Melillo, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero 2018. Di seguito, tre poesie incluse nella raccolta.)
***
l’ombra semplice del corpo in amore
l’oscillazione
dei monili sul collo
e lo smalto dei denti
sfolgora, nudo
la tua lingua
s’impunta chiara fra le labbra scure
M. Grazia Calandrone
***
la vita delle stelle
anche per i corpi celesti
c’è un tempo lineare, ineluttabile:
la giovane stella azzurra
è tersa, scattante
attraversa poi la maturità
un bianco diamante.
ma ciò che a me interessa ora
è la vecchiaia della stella
quando, mostruosamente grande,
in rarefatto decadimento,
si adagia nel cielo, anziana signora
stravaccata in poltrona e
soddisfatta.
Brenda Poster
***
Amori a confronto
E ora dove le metto queste mani
che fanno quell’odore d’uomo?
“L’amavo tanto – mi raccontasti –
fino al giorno in cui mi si concesse.
Oh, quella poco di buono
l’avrebbe fatto con tutti!”
E gli occhi, questi due ingombranti
testimoni, io dove li getto
se al centro delle pupille ancora
c’è il chiodo del suo sguardo
che mi ha trapassato il petto?
Li getterò, padre, dietro la tua schiena,
li getterò oltre i pregiudizi.
“Però era uno schianto – aggiungesti –
Sapessi che labbra e che fianchi!”
Oh, non baciarmi, padre, stasera.
La mia bocca ha mangiato il fumo
delle sue sigarette al mentolo,
la sua saliva calda e i baci, oh quanti!,
fino al confine dello sfinimento.
All’inizio, sai, ero un po’ spaurita:
sentivo, o padre, la tua voce nella testa:
“Non ti fidare di loro, figlia mia,
giurano d’amare e vogliono fare sesso”.
Ma, dopo, non ci fu più nulla intorno.
Eravamo noi due in un mondo a parte,
un sogno che fluttuava nell’alto dei cieli,
io e lui felici ed immortali come gli dei.
E non mi stringere, padre, così forte al petto!
Mi fanno ancora male i capezzoli.
Sapessi che tenerezza mi ha fatto
quando me li ha succhiati
ad occhi chiusi, le ciglia di velluto,
che mi sembrava un bambinello
affamato di latte.
Oh, si, stasera sono diventata
la sua sposa e madre e amante,
ma a te, padre, come faccio a dirtelo?
“Poi se la sposò il mio capitano.
Ah, che cretino sono stato! – dicesti –
e sembrava la tua voce un pianto
È sempre così bella e ha due figli”.
“Ma che c’è – mi chiedi – perché non parli?
Forse non stai bene?”
“Sono un po’ stanca e non ho fame.
Scusami, padre, voglio solo dormire.”
E ho pensato, ma non gliel’ho detto:
Mi sdraierò sul letto senza lavarmi,
così mi sembrerà di averlo ancora accanto
il mio ragazzo che in cambio di una rosa
ha fatto del mio corpo un roseto ardente.
Franca Alaimo