YVONNE FRACASSETTI BRONDINO
Dire che le quaranta poesie di Gabriella Mongardi raccolte Nella stanza segreta, (un raffinato volumetto edito da “Gli Spigolatori”, nella collana Petali DiVersi, con una prefazione di Remigio Bertolino – poesia nella poesia) hanno come tela di fondo la montagna, rischia di banalizzarne il contenuto se non si declina fino in fondo lo spessore di questo legame essenziale. Non basta osservare che l’autrice conosce la montagna, i suoi sentieri percorsi dall’infanzia (Nei passi con cui salgo il Mondolè / camminano mio nonno / e mio padre / e tutti quelli che negli anni / m’hanno insegnato / ad amare le montagne), che chiama per nome tutte le cime dell’arco alpino, che la flora montana non ha segreti per lei, che conosce il linguaggio dei suoi alberi, i sussurri dei larici nel vento, i tremolii dei pioppi, non basta nemmeno commuoversi quando abbraccia Lou merze gros e confessa: ho fatto il nido / fra le sue radici, / ho imparato / l’alfabeto dei suoi rami, / la sua lingua di vento. La montagna fa di più, impregna la visione del mondo di Gabriella Mongardi della sua duplice dimensione: sovrana ma distante, possente ma impassibile, sublime ma irraggiungibile, come l’Argentera che le appare maestosa, canto della Terra, / cassaforte del Tempo / ma con in fondo, nel suo silenzio, il fragile equilibrio / dei [suoi] cristalli / di granito.
Questa doppia e ineluttabile natura che unisce grandezza e debolezza, bellezza e impassibilità, vicinanza e lontananza penetra nell’animo del poeta, contamina il suo sguardo, tinge la sua vita del colore degli opposti, le infonde il senso dell’incertezza e insieme dell’essenzialità dei contrari.
Non c’è forza che non serbi in sé il proprio contrario. La raccolta si apre ricordando la furia devastante dell’acqua del Tanaro il 5 novembre 1994, l’acqua che ubbidisce al comando geloso del fiume / si scuote s’ingorga risucchia ruba, ma un attimo prima, insinuandosi lentamente nelle case, aveva cercato la stanza segreta dove fermarsi un momento, / dormire una notte in un vero, / solido letto… come se questa stanza segreta – che dà il nome alla raccolta – fosse il sogno nascosto, il desiderio opposto e inconfessabile di ogni essere o elemento. La convivenza dei contrari è percepita ora come una legge di natura con i suoi cicli biologici che alternano le stagioni, la gelida luce d’inverno, la cristallina purezza dell’aria,/ la trasparenza di un sorriso di brina- / un sorriso distante, / custode di germogli/… nido di gemme di primavera, oppure come una festa mobile, quella dei larici infuocati e dei pioppi palpitanti ai quali la montagna risponde impassibile (Eppure nulla muove la montagna / né la turba. Nulla); ora come un antagonismo, anzi, un bisogno di lotta / e di sfida tra il monte e la conca, due estremi della vita, indissociabili; Yin e Yang, li chiama G. Mongardi che ci guida nel labirinto della vita a scoprire che in fondo essa stessa, la vita, è tessuta di Divergenze. Inspirare, espirare / convergere, divergere / avvicinarsi, allontanarsi / concepire, partorire / addormentarsi, risvegliarsi / dentro il respiro, / dentro il mistero, / dentro …. La parola è detta: il mistero interiore è una matassa di forze oscure e antagoniste come quei gomitoli nella cesta del cucito, tanti fili aggrovigliati dov’è difficile ritrovare Il filo di Arianna, tanti fili che forse non basteranno, teme il poeta, per tendere una rete / che veli il vuoto / sotto i piedi dell’acrobata.
Non stupisce quindi, appena lenita dalla poesia, l’amarezza che si sprigiona dai versi della Stanza segreta. Forse è esistita la felicità, ma è stato in anni / lontani, forse sognati, / irrecuperabili e ora, alla sua ricerca, l’autrice non trova che vuoti ostinatamente crescenti. Il vuoto, insieme al buio, occupa uno spazio significativo nel mondo di Gabriella, attenta alla Leçon des ténèbres. Le parole della poesia, come lievi carezze, tentano di infrangere il muro di indifferenza che isola il cuore, tentano di penetrare il mistero della solitudine ma devono andare oltre il buio perché è nell’eclisse / nell’assenza / nel vuoto / la Verità. Sembra allora che manchi la terra sotto i piedi ed ecco tornare la figura dell’equilibrista che ci insegna a sviluppare un’attitudine al volo per sopravvivere alla paura dell’abisso e a guardare fisso gli occhi del Destino: le stesse attitudini, gli stessi gesti che servono all’alpinista per attraversare una pietraia d’alta quota.
Il poeta non si arrende mai perché non è umano rinunciare alla dolcezza, nemmeno quando lo sguardo lucido ci ha aperto gli occhi sull’indifferenza del mondo. Ed è ancora alle montagne che si rivolge, chiamandole per nome, come ci si rivolge a vecchi amici, con un appello al riconoscimento, ad una complice solidarietà. Ci siamo commossi nel ricordare le tante volte in cui, al termine di un’escursione tra amanti della montagna, abbiamo assistito a questo rito apparentemente innocuo e leggero: Da cima Durand, volgere lo sguardo alla catena delle Alpi Liguri per riconoscere le sue cime, nominarle tutte, ad una ad una, come a ricordare loro un legame segreto, di vecchia data. Ciò che all’escursionista ordinario può sembrare semplicemente il segno di una buona conoscenza topografica, nell’animo di Gabriella è un appello profondo, al quale però le montagne non possono umanamente rispondere: Remote, perfette nella loro bellezza / si concedono a un amore leggero, /…/ il nome con cui le riconosciamo è la sola carezza che le sfiora – / il solo dono / la loro presenza. Non serve pensarle più umane, magari stanche, infreddolite, capaci di abbandonarsi, non fosse altro che per poggiare il capo sul morbido cuscino delle nuvole che gli si affollano intorno: le montagne / per una notte dimentichino / di essere montagne, s’illude il poeta in cerca di tenerezza, ma l’Oblio è impossibile e anche questa volta non resta che la roccia, irraggiungibile e muta. Si è illuso il poeta, di poter fare come Il fabbro, di poter insegnare il volo e il canto / a corpi gravi, di poter, con la ricerca di bellezza / con la forza della luce – noi leggiamo con le scintille della poesia – piegare la materia inanimata. Resta la bellezza, ma una bellezza lontana, sovrana, con la quale non si comunica.
Allora non resta che vivere nascosti: vivi nel nascondimento – scrive G. Mongardi – sfoglia la svogliatezza / e la tristezza, / la mancanza e la pienezza. Ammonisce il suo lettore, Non lascerai tracce – non farti illusioni sembra dirgli, Il silenzio riassorbe indifferente / le note più strazianti e più sublimi, /il tumulto del cuore non increspa / la curvatura dello spaziotempo. Questa inesorabile incomunicabilità tra l’uomo e il mondo porta al nulla che È tutto: da un pugno di cellule / a un pugno di cenere – / dal buio alla luce al buio: / è tutto.
Eppure il nulla non è tutto, la lettura dei versi della stanza segreta non ci lascia né ammaliati né annichiliti dalla fredda magnificenza delle cime; ci lascia desiderosi di trovare la strada della dolcezza. L’autrice non ci abbandona nella desolazione della incomunicabilità, ci invita a seguirla su altre piste, dove l’uomo si misura con l’uomo e può appagare il suo desiderio di amare: la memoria e la poesia sono le vie maestre.
Sono sovente, ancora, le vie della montagna, ma lontano dal misurarsi con l’universo, anzi, nei passi dell’uomo che cammina sui sentieri Salendo il Mondolè, e che dopo aver messo i piedi nelle orme dei padri, pensa al dopo, quando camminerò nei passi / di chi dopo di me / salirà le mie montagne, / ne saprà i nomi, / i fiori, / i panorami. Sembra di tornare ad una dimensione più mite dell’umanità, più modesta e più godibile, dove il tempo non si misura più all’eternità ma alla nostra capacità di leggere il messaggio della natura per viverlo da uomini, non da dei: il Tempo per me, solo per me, ritorna, / mi scrive lettere d’amore / sui seracchi, / legge i solchi scavati nella roccia, / i geroglifici sulla neve …/ È tempo: eccomi. La montagna torna amica, il mondo è di nuovo a portata di cuore quando il poeta decide di afferrare la vita, di fare scorrere la Sliding Door, la porta che lo divide dagli indecifrabili interrogativi dell’infinitamente grande, anzi, quando decide di fermare l’immagine della poesia. Ora, G. Mongardi lancia un appello: Scrivi prima che sia troppo tardi / e la traduzione impossibile, / prima che l’antimateria annichili / l’universo e un buco nero inghiotta / irresistibile il collasso del tutto. / Scrivi, prima che sia troppo tardi.
Dopo la tensione irrisolvibile tra l’uomo e la montagna, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, la scrittura appare come la cura più appagante per il poeta. Attinge dalla memoria le immagini rimosse, le sofferenze silenziose e Nelle pieghe della pagina / scorre la vita taciuta, / la penna incide la pena, / l’inchiostro trova / un argine al fluire. Sì, una cura, dice G. Mongardi, prendendo congedo dal suo lettore: una cura per chi scrive e si sente troppo lontano o non in grado di dare amore se non con le parole, un balsamo per chi legge e si sente amato: Abbi cura di te, / mio lettore.
Alla fine, la scrittura fungerà da catarsi, frugherà nel tempo e nella memoria, nelle pieghe dell’anima e passerà tutto a uno stretto setaccio – / nevicherà il non-detto, / il non-fatto, il sognato, /…/ e quella nevicata / appagherà il tuo cuore.
Nella stanza segreta, Gabriella ci fa dono della poesia, ci indica i luoghi, i tempi, gli inganni da scansare per non rimanere sordi o accecati dalla dismisura:
La poesia s’annida nelle crepe
di metafisici muri,
nella polvere
di strade smarrite –
come mica nelle pietre risplende
nello sfibrato sfacelo delle vite.
(QUI la presentazione di Silvia Pio)