EVA MAIO
Quelle tue righe sulla fronte
che s’increspano si distendono si tendono
a volte sporgono simili a ringhiere
che troppa precarietà hanno già visto
assorbito incollato nei giorni.
32 anni e nessuna piccola finestra
sul futuro, suddito indifeso schiacciato.
Ti fanno credere che sarai Steve Jobs
basta avere dentro il mantra
dell’imprenditore di te stesso
e se rimani in un call center
o a consegnare hamburgher
sei tra i tanti sfigati perché incapaci.
Quelle tue righe scritte riscritte
a casa in tram con uno yogurt vicino
con spizzichi di prosciutto in bocca
quelle tue righe da mandare inviare
postare entro ieri .
Quelle tue righe di andata e ritorno dietro a quote
di lavoro a pezzi a schegge alla spina
dentro il dominio arbitrario di pochi
che neppure si chiamano padroni
ma lo sono più di prima.
E tu già sei un po’ stempiato
una ragazza da un’eternità
poche vacanze fatte, zero soldi.
E le righe si fanno zig zag
di qua di là di su di giù
zainetto in spalla e nessuna terra sotto i piedi
e nessuna casa proprio tua
e nessun orizzonte a cui guardare.
E quel rigare dritto anche nel rito dell’amore
che il figlio che vorresti lo canti soltanto
lo sogni lo metti in musica lo delinei
nel pentagramma del domani di domani
poi ti tocca sentire i rimbrotti per la denatalità.
Sei un recettore passivo come tanti
fessurato o almeno poroso a ogni proposta
di quasi lavoro di quasi paga di quasi umanità.
Tutti in via di mutazione
cangianti disponibili mai con la febbre
duri e malleabili esecutori e creativi secondo come gira
e gira sempre col vento contro.
La vescica divenuta a tenuta stagna
in coda silenti quasi soldati in attesa
con microchip incistati
addestrati a far a meno dei diritti che le carte
dove erano scritti le trita poco a poco la finanza.
Ti dicono che sei importante per l’impresa
per lo stato per l’ufficio così importante
da metterti una valigia in mano
che meriti di trovare il meglio e devi andare.
Noi sulla fronte avevamo stelle comete
falci martelli icone di un tipo messo in croce
e spazi bianchi per il riposo la festa
chiacchierare in piazza.
Superato il calesse guidavamo bici vespe motorini
non facevamo tanta strada ma era chiara
con tortore e boschi a lato
ed infilare la direzione verso il mare un lusso.
Il tempo per fare l’orto giocare a bocce
fare all’amore piano senza fretta
e insieme lottare se ci volevano fregare
insieme parlare trattenere il respiro
e insieme agire i sogni sognati.
A noi le cose scritte ce le davano in fogli
in mano
e sotto i primi neon le leggevamo attenti
e si prendeva appunti in carte stropicciate
con grafia mica bella
con la piccola lapis
che neppure sapevamo perché si chiamava così.
A noi il vocabolario sembrava una conquista
per l’italiano per capirci bene per capire a fondo
e qualcuno andava pure a scuola la sera.
Il profumo del domani ci arrivava alle narici
scivolava svelto nei polmoni ed era buono
lo sniffavamo insieme da soli in ogni luogo.
Anche a noi chiedevano il cambio di reparto turni orario
ma non lo facevano come chi è alla pari
avevano uno schietto viso da padroni
con nome cognome indirizzo personalità.
Davanti a un volto facevamo le nostre ragioni
e perfino avevamo intelligenza per le loro.
Non si camuffavano.
E avevamo modo di capire chi era saggio
chi un porco chi incompetente.
Esistevamo come corpo unito:
noi molti,
lui uno e pochi lecchini attorno.
Non anonimo o sigla lui. Non anonimi e soli noi.
Tutti a poco a poco in via di miglioramento
orari chiari chiare mansioni
nei dubbi le discussioni i sindacati.
A far domanda di lavoro non ci voleva
un teacher, un master, un expert
e non conveniva che tu fossi a tempo determinato
breve strozzato a singhiozzo a chiamata
se lavoravi bene l’esperienza aumentava
e su quella esperienza il padrone contava
contava e guadagnava
e su quella esperienza tu contavi
contavi un contratto migliore
Ci contavi per una vita migliore.
E lo diventava.
(Foto di Buna Bonino)