Esce per le edizioni Bietti il romanzo di Claudio Zanini, Carrozza n° 7.
Durante una sanguinosa guerra civile, il professore Zeit, cultore di Machiavelli, riceve un misterioso incarico e svela il drammatico intreccio di politica e potere del quale lui, come tutti, non è che un’ignara pedina. Fra intrighi diplomatici, azioni militari, personaggi tragicomici e una storia d’amore, il viaggio di Zeit dipinge una lucida allegoria del nostro tempo.
Margutte pubblica un capitolo del libro.
Il cretto di Calcina
Mentre il treno riprendeva la faticosa marcia, mi ricordai d’una gita scolastica accompagnati dai nostri maestri, al vallone di Calcina. Si era in giugno, la scuola stava per finire e faceva un caldo soffocante. Il vallone di Calcina è un cretto profondo che s’infossa a stretto imbuto e sprofonda nella campagna, costretto entro pareti scoscese e bianche punteggiate da una flora arida di arbusti e cespugli spinosi. Sembra tracciato dall’impeto spigoloso d’un fulmine che zigzagando abbia sconvolto il terreno come disossandolo e per questo lasciando sul fondo una pietraia prosciugata e aspra, ingombra di ramaglia inaridita.
Dicevano, i maestri, che nel giorno delle commemorazioni dei caduti nelle guerre preferivano disertare le cerimonie retoriche e pompose, dove il nobile sacrificio degli sventurati mandati a morire in guerra era celebrato come un supremo olocausto nel nome sacro della patria, per portarci in questo cretto arido e polveroso; dicevano dunque, i maestri, che il vallone di Calcina fosse quel letto disseccato d’un fiume carsico che vedevamo sotto i nostri piedi e più avanti, là dove la ferita si inoltra tra gli alti arbusti d’un boschetto, e scende più giù nella terra, dove talvolta accade, nella stagione del disgelo, che getti acqua in un flusso rapido e precipitoso subito inghiottito nella gola d’inesplorate caverne. Dicevano, i nostri maestri, di un soldato morto in una guerra antica, perché questo luogo, questo cretto così terribilmente impietoso con le sue pietre aguzze e taglienti, i rami divelti e sbiancati dal sole, il cielo opaco e pallido offuscato dalla polvere; questo luogo, dicevano i maestri, è sempre stato teatro di guerre e transito d’eserciti; e innumerevoli sono i cadaveri dei soldati lasciati marcire insepolti tra i sassi, preda sfigurata di fameliche fiere. Ma, dicevano i nostri maestri, uno dei soldati morti rimane, là dove il vallone si stringe di lato e affonda in uno stretto avvallamento. Rimane là a rappresentare tutti i soldati nella perenne ombra d’un lungo fosso. Laddove, tra i sassi scorre un rigagnolo d’acqua piovana, assorbito subito dalla polvere, e ci si ricordava come di sangue si fosse arrossato il limo del fondo, una vena scoperta, messa a nudo della terra stravolta. Laddove, nella fessura scarna segnata dall’esile filo di vermiglio corallo, questo soldato si decompose e le radici di un arbusto affondarono nella sua carne martoriata traendone nutrimento. Dicevano, i nostri maestri, come i capelli crescendo divenissero fogliame e le dita d’ossicini minuscoli si prolungassero in unghie di rametti sottili e diafani, arrotolati come pampini incolori. E come gli occhi d’iride celeste sbocciassero in innumerevoli piccole corolle punteggiando l’erba tenera d’intorno. Come le viscere e il cuore e il sangue invece, mescolati alla terra, si diceva, avessero prodotto zolle gravide, umide di linfa, prima brune e dense, poi verdeggianti d’erbe e muschi odorosi. Le ossa, dicevano gli amati maestri a noi ragazzi ammutoliti, rimasero più a lungo inoperose, nude e sbiancate dal sole, limate dal vento che s’infilava sibilante nella stretta gola, ma presto furono unite all’ocra gialla e al bruno dei rizomi affioranti, rinvigorendo il legno contorto delle radici avorio o presero la forma d’agglomerati sassosi come a difesa della crescita dell’arbusto, mentre dell’uniforme militare rimase la trama intessuta e colorata come delle bende consunte confuse tra i licheni, o delle foglie del sottobosco. I bottoni e le mostrine scintillarono ai raggi obliqui del sole incastonati nelle cavità oscure, come i dorsi di cetonie dorate o maggiolini o altri insetti laboriosi. Così, accadeva, dicevano i maestri, che nessuno quasi s’avvedesse, passando in prossimità di quella pianta e delle sue radici abbarbicate al fianco della fenditura, tenacemente avvinte a terra e pietre, dunque accadeva che nessuno scoprisse il corpo di quel soldato caduto e rimasto insepolto. Dicevano, i nostri maestri, che solo qualcuno, più sensibile o avveduto, poi altri avvertiti e altri ancora avessero scorto la metamorfosi delle membra martoriate nelle radici avviluppate in sinuosi ghirigori e nella crescita ineguale del fogliame e delle erbe, nello stesso ricamo di petali azzurri fioriti. Dicevano come ancora oggi, si potesse ritrovare la fisionomia del soldato ucciso nel disporsi della natura che ne aveva accolto la spoglia, il corpo pura materia naturale, senza dimenticarne un frammento, senza che un capello o un grammo di quella carne insanguinata andassero perduti. Certo, molti hanno cercato, però con miope cura, incerti e chini a terra, tracce, indizi minimi, segni esigui, particolari marginali, bave di lumache, orma di lombrichi, itinerari di formiche, e mai hanno trovato qualcosa. Solo chi cerca eretto, dicevano i maestri a noi stupiti ragazzi, chi cerca con visione vasta e non abbassa il capo, vede cose che invisibili giacciono sotto gli occhi di tutti, ma nessuno nota, cioè l’albero intero e il suo vasto insieme. Solo chi si mette in umile postura ma a testa alta sente la presenza del soldato morto nella desolata solitudine del cretto di Calcina. Ne vedrà le membra dissolte, trasfigurate, poiché tutta la natura intorno l’ha visto e ancora lo vede. Questo ci ripetevano i maestri mentre, con il cuore gonfio d’angoscia, si faceva ritorno alle nostre case.
Ma ora, pensavo, ora che il cretto di Calcina è colmo di cadaveri, di quelli che un tempo assai prossimo erano creature viventi; ora, pensavo, come farà la natura anch’essa brutalmente violata, a enumerare tutti i morti, a mantenere viva la memoria di tutti, a farsi corpo materno di quei tanti corpi smembrati e confusi; come farà a ricordarli anche quando, chini e assorti sui nostri affanni personali, dalla nostra memoria saranno scomparsi?
Vidi Settembrini al vagone ristorante. Sfiorandomi, mi aveva sussurrato che aveva delle cose importanti da dirmi, ma che avrebbe atteso il momento più propizio, perché gli era sembrato che lo tenessero d’occhio. Dovevamo essere estremamente cauti e prudenti.
Mi sedetti all’opposta estremità della carrozza, dove riuscii a cogliere un breve scambio di opinioni tra il capitano Borda, il maggiore Castoris e Freibund.
“… noi stiamo già finanziando la guerra di Ernesto Derìo. È un investimento che ci costa parecchio e non vorremmo fosse una voragine senza fondo. Laggiù sulle alture di Quorum, Maslo deve decidersi. Si sta prolungando fin troppo l’assedio” disse Freibund. “In fin dei conti, si può sapere da che parte sta, Maslo?”.
“Vorrei essere nella sua testa, per sapere cosa pensa. La guerra ha preso una piega inattesa. L’Armata Bianca a Cavallo, con la sua corte di alti ufficiali ai comandi del barone Interlandis vorrebbe concludere in pochi giorni. Fremono e tirano le redini dei loro puledri, i giovanotti assetati di gloria, ma Maslo temporeggia. Interlandis reclama la sua parte di celebrità e qualche rubinetto di petrolio delle regioni sudorientali” replicò il capitano Borda.
”È l’unico modo per rimpinguare le casse dell’aristocrazia e ottenere qualche ministero che conti” soggiunse Castoris.
“L’aristocrazia, con i suoi ufficiali impennacchiati e i cavallini da parata, non conta niente. Questo Interlandis, tutto boria e frasi altisonanti, cerca di ritagliarsi un ruolo in questa
faccenda. Personaggio da scalcinato film in costume. Forse non ha capito che possono fare i nostri camerieri o, al massimo, i nostri diplomatici, o meglio, gli attaché. Noi abbiamo a che fare con le banche di coloro che si sono rapidamente arricchiti che vogliono chiudere i conti. Stanno contando i soldi, i profitti. Noi, sebbene non li amiamo, dobbiamo essere con loro. Loro garantiscono i prestiti. Sono loro che ci daranno le commesse per rimettere in moto l’industria del paese” concluse Freibund.
Pensai a quello che mi aveva confidato Settembrini e se questi vanitosi militari fossero al corrente fino in fondo di ciò che la direzione politica del paese e il potere finanziario internazionale stavano progettando.
Claudio Zanini, Carrozza n° 7, edizioni Bietti
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